Le Corde per Chitarra tra il Settecento e l’Avvento del Nylon (parte 3)

Tipologie, tecniche manufatturiere e criteri di scelta

di Mimmo Peruffo

In questa terza parte del nostro studio prenderemo in esame le corde e i problemi inerenti alla loro manifattura durante il secolo XIX.

L’OTTOCENTO

Premessa
Cominciando ad analizzare la questione dei diametri e delle tensioni di lavoro della chitarra del XIX secolo viene spontaneo chiedersi perché, a differenza del violino e di altri strumenti a pizzico e ad arco, ben pochi metodi dell’Ottocento indichino le misure delle corde per chitarra, ad eccezione forse, in pieno XX secolo, di quello di Pujol. E ciò nonostante la grande diffusione che essa ebbe in quell’epoca. Va notato per inciso che persino nei metodi per mandolino di allora vi sono dei precisi suggerimenti per la scelta delle corde, e questo a partire già dalla seconda metà del XVIII secolo.75
Sor, ad esempio, dopo una lunga disquisizione circa la tecnica corretta di pizzicare le  corde, si limita a riportare che il liutaio Manuel Martinez, dopo aver trovato le corrette dimensioni della chitarra per un cliente, si limitava a chiedergli se intendesse usare  una montatura di corde leggere oppure forti e se preferisse un suono argentino o vellutato.76
Una spiegazione plausibile si è scoperta solo di recente e consiste nel fatto che i diametri in uso nel nostro strumento coincidevano totalmente con quelli del violino coevo (si parla delle prime tre corde, naturalmente) di cui oggi possediamo fortunatamente numerose informazioni.77 I chitarristi del XIX secolo, con ogni probabilità, consideravano questa totale simbiosi con il Re degli strumenti un fatto  assolutamente acquisito, un patrimonio comune di conoscenza insomma: superfluo quindi trattarne l’argomento nei Metodi.
Un caso del tutto analogo lo si è riscontrato anche con la viola, la quale utilizzò la seconda, terza, e quarta corda del violino  rispettivamente come prima, seconda e terza corda. La sola corda estranea al gruppo fu dunque la quarta che risultava filata come la terza. In virtù di questa  consuetudine comune, nessun metodo o manuale, nel corso dell’Ottocento, si preoccupò di indicare i diametri di corda per la viola, poiché tutti sapevano già come  comportarsi.
Con la transizione dagli ordini alle corde semplici la tensione di lavoro si elevò fino a raggiungere valori comparabili alla somma delletensioni data dalle due corde componenti ognisingolo coro della vecchia chitarra a cinque ordini. D’altro canto la sensazione tattile di rigidità sottointende, per forza di cose, quella fornita dalle
due corde dell’ordine assieme. E così, ad esempio, 3,3 kg circa di tensione per ogni corda del secondo ordine della chitarra di Stradivari equivalgono ad una singola corda di circa 6,6 kg (e questo si ripercuote parimenti anche sulla sensazione tattile di rigidità).
Per avere una risposta esauriente riguardo alle prime tre corde in minugia del nostro strumento, bisogna rivolgere l’attenzione (ancor più di prima) al violino. E questo, prendendo sì in considerazione la trattatistica musicale del tempo – come già fatto da altri ricercatori – ma suggerendo un angolo di visione alquanto diverso dal consueto, che tratti cioè con particolare attenzione le informazioni tecniche che ci sono pervenute dai cordai. Infatti, al di là di quanto può essere stato scritto nei trattati e nei metodi per violino, furono comunque i cordai che alla fine stabilirono (ma forse è meglio dire imposero) i diametri commerciali delle corde del loro tempo, dato indissolubilmente legato al numero di budelli di cui è costituita una corda. Le informazioni in nostro possesso per il violino del XIX secolo sono riassunte nella tabella
qui sotto riportata. Dalla tabella risulta evidente che il cantino – anche in pieno Ottocento – veniva realizzato a partire generalmente da tre budelli di agnello interi (ma talvolta anche quattro, se erano più sottili in partenza) per un diametro finale compreso mediamente tra 0,65 e 0,73 mm: esattamente come nel XVIII secolo.78

Questa stessa linea di tendenza, e cioè l’impiego di tre/quattro budelli interi per fabbricare il Mi del violino, continuò ininterrottamente per tutto il XIX secolo. Ecco quanto  riportato dal Maugin,79 il quale riprende le informazioni rilasciate dal grande cordaio francese di origini napoletane Henry Savaresse:
“Les chantarelles se composent de 4,  5, ou 6 fils, selon la grosseur du boyau, et chaque fil est formé d’une moitié de boyau divisé dans sa longueur. Les mi de violon ont de 3 à 4 fils pleins, mais très fins. Les la  en ont le meme nombre, mais plus forts. Quant aux re, ils en ont de 6 à 7 pleins.” [I cantini sono composti da 4, 5 o 6  fili a seconda della grossezza del budello e ciascun  filo è formato da una metà di budello diviso in senso lungitudinale. I Mi del violino hanno da 3 a 4 fili pieni ma molto fini. I La hanno lo stesso numero di fili ma più forti.  Quanto ai Re, ne hanno da 6 a 7 pieni.]

Philippe Savaresse nel 1874 scrisse:80
“On a longtemps attribué la supériorité des cordes de Naples aux secrets de fabrique, plus tard on l’a attribuée à la petite espèce de moutons qui permettait de faire les chantarelles à trois fils […] La chantarelle ayant trois fils, si les autres cordes sont faites avec les mêmes intestins, la seconde aura 5 ou 6 fils et la troisieme 8 et 9. […]” [Per molto tempo la superiorità delle corde napoletane veniva attribuita ai segreti della loro  manifattura, più tardi è stata attribuita alla razza piccola di agnelli che permetteva di fare cantini con tre fili […] Se il cantino ha tre fili e le altre corde sono fatte degli stessi  intestini, la seconda corda avrà 5 o 6 fili e la terza 8 o 9. [ … ]

È evidente che laddove il budello sia stato tagliato nel mezzo si renda allora necessario accoppiare un numero doppio di fili. Le informazioni sulla manifattura delle corde riportate dal Maugin furono riprese pari pari da altri metodi del tardo Ottocento81 e anche dal manuale Hoepli dell’Angeloni.82
La seconda e la terza corda erano  costituite rispettivamente da 5 e 9 budelli.
Non bisogna dimenticare che il calibro di corde realizzate dalla stessa quantità di budelli non può risultare identico per tutte. Una certa sua oscillazione rispetto ad un valore medio è infatti normale, dato che i singoli budelli – essendo un prodotto naturale – non sono mai perfettamente eguali tra loro. Questo è un punto fondamentale oggi scarsamente noto e che è giunto il momento di chiarire.
A differenza di oggi, dove le corde di budello vengono prodotte secondo una grande varietà di misure commerciali e il cui incremento segue una pro g ressione costante imposta per mezzo di una rettifica meccanica di precisione (ad esempio 0,60 mm; 0,62 mm; 0,64 mm e così via), il calibro finale delle corde del XIX secolo e parte del secolo seguente fu determinato esclusivamente dal numero di budelli accoppiati per re a l i z z a re una corda e n o n dal trattamento di levigatura conclusivo del ciclo di lavorazione, il quale serviva soltanto a lisciare un po’ la corda grezza .
Come riportato da alcuni documenti,83 le corde in commercio erano contraddistinte, oltre che dal marchio che ne indicava la zona di provenienza manifatturiera, anche da una numerazione progressiva che indicava il numero di “fili” di budello di cui erano costituite.
Da sempre i cordai si prendevano cura di standardizzare il più possibile la qualità dei budelli da utilizzare (ricercando materiale proveniente da agnelli della stessa età, razza e zona di provenienza e infine selezionando accuratamente i budelli prima di abbinarli tra loro). Tuttavia una qualche incertezza – o, meglio, oscillazione – del calibro finale risultava inevitabile e a ciò non si poteva assolutamente porre rimedio – si diceva – con la levigatura manuale (che non è un’operazione di rettifica meccanizzata del materiale): vi era infatti il rischio tangibile di rendere falsa la corda per la difficoltà di mantenere manualmente una perfetta e uniforme pressione della mano in fase di levigatura con la pomice abrasiva. In queste botteghe non si disponeva certo del micro metro per un controllo finale della qualità del prodotto.
Corde fatte da uno stesso numero di budelli avevano dunque una varietà di diametri che può risultare ben rappresentata da una curva a campana detta gaussiana (in altre parole la maggior parte delle corde si situava intorno ad un determinato diametro “sfrangiando” a coda un po’ verso quelli più sottili e un po’ verso quelli più grossi). L’abilità del cordaio consisteva quindi anche nel fatto che in una sua confezione contrassegnata ad esempio dal numero “tre” vi fosse una scarsa variazione del diametro  medio, oltre a una certa riproducibilità dello stesso anche in partite di produzione realizzate in tempi diversi. Questo aspetto era molto apprezzato dai musicisti del tempo e non è difficile capire il perché: immaginiamo il disagio che anche noi proveremmo se dovessimo trovare corde di calibri ogni volta diversi nella usuale confezione della nostra marca preferita.
Un’idea dell’ampiezza della differenza di calibro che si poteva ottenere da corde fatte a partire da uno stesso numero di budelli la si può dedurre, come già accennato in  precedenza, dagli estremi dei diametri dei tre gradi di tensione del violino suggeriti da Giorgio Hart: per il cantino 0,65-0,73 mm.84 Questo dato fornisce di conseguenza anche un’indicazione dell’escursione del diametro della prima corda di chitarra del tempo, oltre all’ampiezza della ‘finestra’ di tensione di lavoro a disposizione dei  chitarristi.
Come già accennato nella precedente puntata, risulta intuitivo comprendere che mano a mano che il numero di budelli da accoppiare si incrementa – al fine di ottenere maggiori spessori – l’ampiezza della variazione del calibro prodotto decresce rapidamente a causa dell’effetto di “mediazione” indotto dai numerosi budelli accoppiati
e così pure lo scarto di calibro esistente tra due corde attigue per numero di budelli.

Tensione scalare e sensazione tattile di rigidità
Ad un occhio attento non sarà certo sfuggito che le tensioni di lavoro che derivano dai calibri riportati in tabella non conducono affatto , nel violino, ad un profilo in  eguale tensione – cioè eguali kg – bensì ad un profilo di tipo scalare (Grafico 1). Sorge spontaneo chiedersi quale segreto si nasconda dietro questo particolare andamento della tensione di lavoro: finora infatti abbiamo trattato soltanto la diff e renza esistente tra una montatura in eguale tensione e quella di eguale sensazione sotto le dita, specificando che è quest’ultimo in realtà l’elemento ricercato dal musicista. La risposta è costituita dal fatto che la tensione scalare è la sola in grado di realizzare nel concreto il concetto di eguale sensazione tattile di rigidità sotto le dita inseguito fino alla noia dai trattati del Seicento e oltre .
La scalarità della tensione di lavoro infatti si manifesta al tatto mediante una sensazione di eguale tensione tra le corde e questo perché essa, riducendosi  progressivamente, va a compensare l’aumento di rigidità tattile che si riscontrerebbe in corde via via più grosse. In una montatura in eguali kg, infatti, le corde più spesse sotto una eguale pressione delle dita tendono a flettersi meno delle sottili e questo a causa della loro ridotta attitudine ad allungarsi. Questo causa pertanto l’impressione empirica che esse siano più tese delle più acute. Scalando progressivamente la tensione si riesce dunque a compensare questo effetto, rendendo pertanto più omogenea la sensazione prodotta dai diversi calibri in uso sullo strumento. Le corde, in altre parole, sembreranno egualmente tese.
L’applicazione del profilo scalare di tensione si riscontra fortemente soprattutto nei set attuali per chitarra tra corde di natura omogenea (in altre parole o tra i bassi o tra i canti), come analizzeremo con maggiore dettaglio nella quarta e ultima parte di questo studio. Nel Grafico 2 vengono riportati gli allungamenti specifici di corde di diverso diametro e tipologia: osserviamo che il grado di pendenza delle curve dei calibri più sottili è maggiore di quello delle corde più grosse; il rapporto tra il grado di pendenza delle curve conduce direttamente al rapporto tra le sensazioni tattili di rigidità.
Si evidenzia che il profilo scalare di tensione risulta molto accentuato nel violino, che è accordato per quinte. Invece, nella chitarra, che è accordata per intervalli di quarta e terza, l’effetto di scalarità della tensione di lavoro dato dallo stesso gruppo di corde risulta molto meno accentuato, se non addirittura nullo. Di conseguenza, se nel violino l’accentuata scalarità porta al riscontro soggettivo di una omogenea sensazione tattile di rigidità, nella chitarra – che non è accordata per quinte – si rileva invece un certo, inevitabile incremento di rigidità tattile mano a mano che si prosegue verso la terza corda.

Grafico 1: tensione scalare delle prime tre corde del violino XVIII-XIX sec.

Tipologie e diametri delle corde
Le tipologie di corda per chitarra a disposizione a partire dagli inizi dell’Ottocento fino alla metà del Novecento si possono riassumere in due classi principali che, nella sostanza (materiali a parte), sono rimaste invariate fino al giorno d’oggi: quelle in budello naturale oliato ad uso dei tre registri acuti e le tre corde filate in seta per i bassi. Rispetto al Settecento si può osservare che sono praticamente scomparse di scena le corde demifilée (cioè con filatura metallica a spire non accostate) rendendo pertanto potenzialmente più problematico il raccordo timbrico e dinamico tra la terza corda in budello naturale (che è la più ‘ovattata’) e la seguente filata (che è invece la più brillante delle tre basse), aspetto ancor oggi assai evidente nella chitarra e solo in parte colmato con l’impiego di una terza corda filata o in fluorocarbonio.
Compare dunque in scena la seta. Non che essa fosse sconosciuta ai musicisti del Settecento (vedi Corrette, ad esempio) o anche del Seicento,85  ma la preferenza andava da sempre principalmente al budello anche per realizzare le anime dei bassi. Va sottolineato che la resa acustica di una corda in seta rivestita risulta in qualche modo superiore a quella di una corda con anima di budello, come evidenziato anche da nostre sperimentazioni (senza considerare in aggiunta il problema delle vibrazioni parassite dovute al filo metallico che sbatte contro l’anima di minugia, difetto tipico nei climi particolarmente secchi).

Grafico 2: rapporto tra tensione e allungamento in corde di diametri differenti

Questo fatto, ossia la migliore resa acustica, potrebbe essere stato l’impulso decisivo per la transizione verso le corde semplici e per l’accorciamento della lunghezza vibrante dello strumento.
Prima di trattare l’argomento dei diametri in uso si rende necessario chiarire l’evoluzione della lunghezza vibrante e della frequenza del corista; parametri indispensabili – assieme al diametro delle corde – per poter dedurre qualcosa di significativo sulle tensioni di lavoro.

La lunghezza vibrante
Dopo l’aggiunta della sesta corda e l’eliminazione degli ordini in favore delle corde singole e fino alla comparsa delle chitarre “maggiorate” di Torres (seconda metà del XIX secolo), la lunghezza vibrante dello strumento a sei corde singole si attestò intorno a 63 cm ± 1 cm, come evidenziato anche da Aguado nel suo Metodo (27 pulgadas, cioè circa 62 cm)86 e come traspare in numerosi strumenti d’epoca sopravissuti, sia di manifattura italiana che estera.87
Come già accennato, va notata la relazione proporzionale esistente tra la lunghezza vibrante della chitarra e quella del violino (32 cm circ a ) : il violino, essendo accordato un’ottava più acuta, possiede per l’appunto una lunghezza vibrante pari a circa la metà di quella della chitarra. Così, se non fosse per il diverso intervallo esistente tra le corde, la chitarra avrebbe – nei tre acuti – le medesime tensioni di lavoro.

Il corista
Il secondo elemento da pre n d e re in considerazione riguarda la varietà dei coristi in uso nel corso del XIX secolo, in altre parole la frequenza standard del La. Gervasoni ad esempio aff e rmò che
“Non in tutte le Città il tono volgarmente detto Corista si trova uguale, ma bensì nell’une si riconosce questo più alto o più basso che nell’altre.
Il Corista di Roma è difatto molto più basso di quello di Milano, Pavia, Parma, Piacenza e di tutte le altre Città della Lombardia: ed il Corista di Parigi poi non solo cresce oltre il Corista Romano, ma molto ancora oltre il Lombardo. Un Corista di mezzo, e più generalmente abbracciato, egli è pertanto quello della Lombardia: ed è questo infatti, poco più o meno, s’accostano i Coristi di varie Provincie.” 88

Nonostante il fatto che il 16 febbraio del 1859 il governo francese, per primo in Europa, avesse deciso con un decreto imperiale di fare chiarezza nella giungla dei coristi fissando il La a 435 H z ,89 in realtà esso oscillò sempre notevolmente e non solo tra Stato e Stato, ma anche nel medesimo luogo in un diverso arco di tempo.
Il supposto corista ottocentesco (pari a 435 Hz) oggi così largamente diffuso, risulta evidentemente più una chimera che la realtà dei fatti, e questo è sicuramente vero fino alla seconda metà del XIX secolo. In una lettera del febbraio 1884 lo stesso Giuseppe Verdi suggerì al governo italiano di seguire l’esempio francese:
Signore, fin da quando venne adottato in Francia il diapason normale, io consigliai venisse seguito l’esempio anche da noi; e domandai formalmente alle orchestre di diverse città d’Italia, tra le altre a quella della Scala, di abbassare il corista uniformandosi al normale francese.’”
Con il Congresso di Vienna del 1885 il corista venne ufficialmente fissato a 870 vibrazioni semplici, cioè 435 Hz doppie, indicazione ripresa anche dal governo italiano nel 1887, ma nella realtà dei fatti le fluttuazioni del corista continuarono indisturbate. Solo con la riunione indetta nel 1939 dall’ISO venne per la prima volta proposto un corista standard di 440 Hz. Il resto è storia recente.90 Al fine di poter eseguire una stima delle tensioni di lavoro della chitarra di questo periodo, si riterrà comunque valido un valore fittizio di 435 Hz per il La. Le frequenze che ne risultano sono dunque le seguenti:

mi: 325,9 Hz
si: 244,0 Hz
sol: 193,8 Hz
Re: 145,2 Hz
La: 108,7 Hz
Mi: 81,5 Hz

Come si accennava in precedenza, i calibri delle tre corde più acute della chitarra dell’Ottocento furono gli stessi del violino coevo, rimandandoci così alle indicazioni di Stradivari e di Corrette, che per primi relazionarono il violino alla chitarra. Ecco ad esempio quanto recita il Metodo del Castellacci:91

‘Note pour la grosseur des cordes’
– Cordes de boyaux:
3
e corde du N° 9
2
e corde du N° 7
1
ere corde du N° 4, à quatre fils.

Castellacci fornisce il numero di budelli da impiegare per realizzare le corde, indicazione straordinariamente identica, nelle proporzioni, al numero di budelli (o ‘fili’) da accoppiare per ottenere rispettivamente le tre corde superiori del violino coevo.
Pertanto se si considera – in base alla tabella riportata a p. 12 – un diametro medio di 0,68 mm ottenibile da quattro budelli per il cantino, allora 7 fili prendono in proporzione 0,90 mm, mentre 9 fili sono pari a 1,02 mm: ovvero i rapporti tipici delle corde del violino che, se si segue l’accordatura per quinte tipica degli archi, conducono ad un profilo in tensione scalare curiosamente coincidente – per grado di scalarità – con quello degli attuali set per chitarra.
Il Metodo del polacco Romuald Truskolaski, pubblicato a Varsavia intorno al 1830-50,92 è ancora più esplicito nel sottolineare il legame esistente tra il violino e la chitarra: “…le seguenti [le prime tre corde, n.d.r.] sono grosse come quelle del violino, e nella chitarra sono chiamate sol, si, mi.”
In virtù di quanto affermato, le prime tre corde della chitarra dovevano possedere quindi l’escursione dei diametri in uso generale per il violino (vedi tabella a p. 14) e cioè:

1° mi: 0,66-0,73 mm (valore medio 0,69 mm).
2° si: 0,85-0,91 mm (valore medio 0,88 mm).
3° sol: 1,10-1,25 mm (valore medio 1,17 mm).

Al fine di poter compiere un primo, utile paragone con le corde di oggi, ecco anticipati i diametri tipici delle corde di nylon che si riscontrano in diversi set commerciali:

1° mi: 0,71-0,73 mm (valore medio 0,72 mm)= 0,65 mm (se fosse di budello)
2° si: 0,83-0,85 mm (valore medio 0,84 mm)= 0,77 mm (se fosse di budello)
3° sol: 1,01-1,07 mm (valore medio 1,04 mm)= 0,94 mm (se fosse di budello)

Ecco i valori medi di tensione che ne derivano (Lunghezza vibrante 65 cm; corista 440 Hz):
1° mi (329,6 Hz): 8,0 Kg
2° si (247,0 Hz): 6,4 Kg
3° sol (196,0 Hz): 6,0 Kg

Il valore medio dei calibri della prima tabella riprende quasi esattamente i calibri commerciali del Ruffini (1880). Andrea Ruffini fu probabilmente il più grande cordaio italiano del tardo Ottocento. Abruzzese di Salle, egli aveva una forte produzione di corde musicali a Napoli e in parte anche nel paese di origine. Il suo mercato fu piuttosto florido: smerciava corde in tutta Europa, ma specialmente nella Londra vittoriana, seconda patria, come è noto, di numerosi chitarristi.93 Considerando ora una lunghezza vibrante di 62 cm e un corista di 435 Hz, si ricava la finestra delle tensioni di lavoro:

1° mi (325,9 Hz): 7,4-9,0 Kg (8,2 Kg media)
2° si (244,0 Hz): 6,9-7,9 Kg (7,4 Kg media)
3° sol (193,8 Hz): 7,4-9,3 Kg (8,2 Kg media)
Valore medio =7,8 Kg

Ammettendo che il valore medio della tensione risulti valido anche per i tre i bassi, si ricava una tensione totale di 46,8 Kg, in sintonia con le indicazioni di Aguado, che indicò un carico globale pari a 80 o 90 pounds, cioè 39-44 Kg (1 pound=489,5 gr; cfr. HO R A C E DO U R S H E R, Dictionnaire universel des poids et measures…, Antwerp, 1840; facsimile, Amsterdam, 1965), pari rispettivamente all’83% e 94% di quanto da noi calcolato. Va tenuta in debita considerazione la pura indicatività – anche se significativa – di questi valori numerici, soprattutto se si considera il fatto che, mentre ci è nota almeno la misura della lunghezza vibrante della chitarra di Aguado, non conosciamo affatto il corista a cui egli si riferiva. Questo può influire largamente sull’oscillazione della tensione di lavoro, che nel caso di una variazione di frequenza pari a ± un semitono risulta di ± 0,97 kg. Come si può osservare si tratta di tensioni di lavoro comunque superiori ad ogni aspettativa e piuttosto simili – se non superiori – alle nostre attuali, profilo di tensione a parte (come poi vedremo). Il metodo di Maugin & Maigne, la cui sezione sulle corde è stata aggiunta nel 1869, riporta quanto segue:

“Pour les cordes de guitare, on emploie des fils plus fins que pour celles de violon.” [Per le corde della chitarra si usano fili più sottili rispetto a quelli del violino.]94

Poiché le indicazioni fornite sulla costruzione delle corde del violino – Mi: 3-4 fili di budello intero, La: lo stesso numero ma più grossi oppure 5 fili dello stesso budello; Re: sette/nove fili – viene spontaneo chiedersi come mai, per Maugin e Maigne, la prima corda della chitarra prenda sì lo stesso numero di budelli del violino, ma di una qualità un po’ più sottile. Perché non farle allora con lo stesso tipo di budello utilizzato per le corde del violino, ma con meno fili? Due ad esempio, nel caso del cantino.
La spiegazione più plausibile potrebbe consistere nel fatto che, se con tre fili ci si attesta intorno a 0,70 mm, con due fili dello stesso budello si andrebbe solamente a circa 0,58 mm: un calibro forse un po’ troppo leggero per i criteri del tempo. Pertanto, soltanto tre fili di un budello un po’ più sottile del consueto potevano garantire un diametro intermedio utile alla chitarra e cioè, nel nostro esempio, pari a 0,64 mm (la media tra 0,58 e 0,70 mm, cioè tra due e tre fili di budello rispettivamente).
Le altre corde (Si e Sol) seguivano ovviamente in proporzione. Per puro esercizio possiamo tentare una stima delle tensioni di lavoro di una chitarra di 62 cm di lunghezza vibrante al corista francese di 435 Hz (come fissato in Francia nel 1859), per i calibri che in proporzione seguano il profilo di tensione scalare tipico del violino a partire da un cantino di 0,64 mm:

mi 0,64 mm: 7,0 Kg
si 0,85 mm: 6,9 Kg
sol 1,09 mm: 7,1 Kg

Non si sottolineerà forse mai abbastanza al chitarrista moderno, abituato alla precisione e alla riproducibilità manifatturiera delle corde sintetiche, il fatto che i dati da noi riportati non vanno presi alla lettera, ma intesi come valori indicativi, siano essi diametri o tensioni. In questo caso la tensione di lavoro raggiunge una media di 7,0 Kg per un valore totale delle sei corde (qualora i bassi filati seguano i criteri delle tre più acute in budello) pari a 42 Kg, richiamando ancora una volta alla mente Aguado.

Misure di spezzoni di corde del XIX secolo
Questo argomento appare subito piuttosto interessante perché il ritrovamento di campioni di corda originali permette non solo di poterne ricavare il diametro (misure che possono pertanto confermare o smentire l’interpretazione della documentazione del tempo) ma consente anche una valutazione visiva ed analitica delle stesse; in particolare la quantità di torsione impartita al budello, il grado di finitura superficiale etc.
Il vero problema consiste nella datazione certa dei campioni: un autentico scoglio. Infatti, una datazione per mezzo di radioisotopi (metodo di per sé a carattere distruttivo) non è praticabile a causa dell’esiguo lasso di tempo trascorso. Comunque, in base ai diversi campioni raccolti sia per violino che per chitarra – alcuni ritrovati ancora nelle loro confezioni originali – possiamo affermare che essi vanno sostanzialmente a confermare l’esattezza di quanto sinora elaborato dagli antichi documenti e dalle prove sperimentali. In merito ai campioni di corda ritrovati, quelli di Paganini (1782-1840) costituiscono di gran lunga – e sotto tutti i punti di vista – il reperto più recente ed interessante tra quelli componenti il lascito. Tali reperti95 consistono in un ponticello da violino, due archi (di cui uno rotto in più punti), una confezione di pece di manifattura Vuillaume e un rotolo di corde di budello [vedi foto] in discreto stato di conservazione. 96
La nostra attenzione si concentra su questo ultimo reperto, il quale rappresenta forse il primo se non unico caso esistente al mondo di campioni di corde di budello antiche la cui datazione sia certa, risalente in altre parole ai primi decenni del XIX secolo. Il materiale da noi visionato nell’aprile del 2001 era conservato in una busta timbrata “Cartoleria Rubartelli Genova”, con sigillo in ceralacca rossa con impresso il simbolo del comune di Genova e una dicitura manoscritta in inchiostro nero: “Corde e ponticello che t rovansi sul violino di Paganini all’atto della consegna al municipio”. All’interno si tro v a v a una busta, realizzata con un foglio piegato in due, con una seconda dicitura manoscritta in inc h i o s t ro: “Antiche corde del Violino di Nicolò Paganini’.97

La busta con le corde appartenute a Paganini

I calibri delle corde sono stati quindi da noi misurati per mezzo di micrometro e le misure hanno confermato pienamente i diametri tipici del tempo di cui alla tabella di p. 12. Come evidenziato dal compianto Edward Neill,98 Paganini già in alcune sue missive fornì interessanti dettagli in merito alle corde da lui utilizzate sul violino:

Ho bisogno di un favore: ponetevi tutta la cura, e la diligenza. Mi mancano i cantini. Io li desidero sottilissimi […] . Quantunque tanto sottili devono essere di 4 fila per resistere. Badate che la corda sia liscia, uguale, e ben tirata […] Vi supplico di sorvegliare i fabbricanti e di far presto e bene.”

In una lettera spedita poco prima da Napoli all’amico e confidente Germi, datata 29 maggio 1829, così si legge:
Il tuo Paganini desidera sapere […] quanti mazzi di cantini e quanti di seconde, e a quante fila si desiderano da Napoli, perché ora si avvicina il mese di Agosto, epoca giusta per fabbricar le corde”.99

Sembrerà strano, ma l’importanza di questo reperto non riguarda tanto il fatto che le corde siano appartenute al grande violinista quanto semmai il fatto che siano sicuramente databili e… per violino (cioè… per chitarra!). Non è inverosimile infatti pensare che questi stessi calibri fossero utilizzati (possiamo dire sicuramente?) anche per il nostro strumento, visto che Paganini ne era un più che discreto cultore. Le corde del ritrovamento, colorate in giallo-paglia, fragili, leggermente rugose e integre, cioè mai utilizzate, si possono presumibilmente riassumere in due Re, tre La, due Mi da violino.
Le corde di Mi sono realizzate in media torsione, mentre quelle di La e Re decisamente in alta torsione: in queste circostanze una corda di budello si presenta discretamente elastica; non stupisce affatto che esse dovettero manifestare al meglio le proprietà acustiche.
Ecco i diametri:

Corda Mi Diametro 0.70-0.72 mm  Osservazioni Media torsione
Corda La Diametro 0.87-0.89 mm  Osservazioni Alta torsione
Corda La Diametro * 0.80-0,83 mm Osservazioni Alta torsione
Corda Re Diametro 1.15-1.16 mm  Osservazioni Alta torsione
* questa misura si è presentata soltanto in un solo spezzone di corda

Come si può notare, manca la quarta corda, che al tempo era la sola ad essere filata. La cosa non deve però stupire, poiché, come di consueto per l’epoca, essa veniva realizzata a parte dai liutai stessi (se non proprio dagli stessi musicisti) utilizzando una seconda un po’ sottile poi rivestita di filo d’argento o altro metallo meno nobile.100
Ecco ora riportate le misure di alcuni campioni di corde di budello ritrovati nella custodia di una chitarra costruita da Louis Panormo nel 1845 (lunghezza vibrante = 63,3 cm) di collezione privata:

Corda mi Diametro 0,59 mm Osservazioni Media torsione
Corda si Diametro 0,83 mm Osservazioni Alta torsione
Corda sol Diametro 1,14 mm Osservazioni Alta torsione

Per quanto riguarda la corda di Mi, si è riscontrato che essa non risulta affatto coerente, nel suo aspetto visivo e nella manifattura, alla seconda e terza corda: si tratta probabilmente di un’aggiunta successiva. Una datazione certa di queste corde non è possibile, anche se il proprietario assicura che la chitarra in questione rimase per molto tempo – forse un centinaio d’anni – inutilizzata entro la custodia originale.
Può forse servire come utile traccia il fatto che gli estremi delle corde filate (dotate di nodo da un lato e dall’altro capo di una spaziatura della filatura) non permetterebbero di coprire una lunghezza vibrante maggiore di 64 cm: si possono quindi escludere montature per chitarre del “dopo Torres”. Resta comunque il fatto che i calibri in questione – cantino a parte – risultano in linea con le informazioni del XIX secolo. L’analogia dei calibri di Si e di Sol con quelli del reperto paganiniano (il La e il Re) risulta evidente.

I bassi filati nel XIX secolo
Per realizzare le corde filate ci si serviva di un’apposita macchina a movimento manuale101 (come quella rappresentata nella prima puntata ne “il Fronimo” n. 117, p. 28) in uso almeno fino alla fine del XIX secolo e sostituita poi da macchinari a filatura automatica o da macchine ancora di tipo manuale ma con trazione sincronizzata proveniente da entrambi i ganci di supporto del multifilamento in tensione (vedi foto qui sotto). Con il sistema in uso nel XVIII e XIX secolo – ruotante da un solo lato – la giusta quantità di bava di seta veniva fissata ad un gancio fisso ad un capo; l’altro capo si fissava ad un altro gancio collegato ad un peso, che garantiva la messa in trazione del materiale, consentendo però allo stesso tempo la libertà di rotazione mediante un giunto lubrificato di collegamento. A questo punto l’operaio poteva avvolgere le spire del filo metallico mettendo in rotazione l’anima di seta per mezzo della ruota con manovella.
Interessante la tecnica di deposizione dell’argento sul filo di rame – qualche micron di spessore – mediante semplice spostamento chimico: il procedimento galvanico non era ancora stato inventato, poiché cominciò a pre n d e re piede verso la metà del secolo successivo.102
Essendo le corde rivestite costituite dall’accoppiamento di materiali di natura eterogenea come metallo e seta, si è convenuto di caratterizzarle in termini di budello equivalente: ci si riferisce in pratica al diametro di una corda di budello teorica che possiede lo stesso peso della corda filata per lunghezza unitaria; in queste condizioni si può quindi determinarne il calibro per mezzo di formule matematiche specifiche. Alla stessa intonazione e lunghezza vibrante si avrà pertanto la stessa tensione di lavoro. Ma attenzione, seppur a parità di budello equivalente, si possono ottenere innumerevoli rapporti tra la quantità di metallo e quella della seta. Ovvio che all’aumentare dell’uno corrisponda il calare dell’altro, al fine di mantenere costante il peso totale della corda; in altre parole il suo ‘budello equivalente’. Maggiore sarà la prevalenza della seta rispetto al metallo e più la sonorità tenderà ad essere opaca e scarsamente brillante. L’esatto contrario nel caso vi sia più metallo.
Con quali criteri di scelta fu deciso il giusto rapporto tra metallo e seta nei bassi, così da garantire una resa timbrica e dinamica equilibrata? Nella chitarra, a diff e renza degli strumenti ad arco, questa scelta non lasciò molto margine : una volta decisa quale fosse la tensione di lavoro (in altre parole il diametro equivalente della corda filata) si sceglievano le proporzioni tra metallo e seta per ottenere la maggiore resa dinamica da parte della corda; a questo scopo si sceglieva il filo più grosso possibile e si riduceva al minimo la quantità di seta fino quasi al limite del carico di rottura: in altre parole si puntava ad avere la massima prevalenza del metallo rispetto al ‘core’. Solo in queste condizioni le corde dei bassi potevano fornire la massima resa dinamica. Nonostante questo accorgimento, le corde filate su seta – anche se ritrovate intatte nella loro confezione – appaiono alle nostre orecchie piuttosto percussive e povere di armonici superiori. Per quanto riguarda il metallo impiegato per la filatura, va sottolineata la scelta pressoché esclusiva del rame argentato: normale rame cui in superficie è stato depositato un leggero rivestimento d’argento per preservare al meglio il rame dalla rapida ossidazione, accentuata per giunta dal sudore e dall’umidità proprie delle dita del suonatore. Va quindi sfatato “il mito” che una sottile ricopertura d’argento serva a migliorare il suono del rame nudo. La scelta del rame come materiale di base si giustifica con il fatto che era il metallo che coniugava – ieri come oggi – il più alto peso specifico al minor costo possibile. Questo si traduceva in un filo di ridotta sezione. Qualcuno, al tempo, poteva certamente utilizzare con vantaggio l’argento puro (si impiegava pertanto un filo di minor diametro), ma in tal caso i costi lievitavano notevolmente. Ta l i considerazioni valgono anche per le corde basse da chitarra del giorno d’oggi.103 Ecco ora i suggerimenti di Jean Baptiste Phillis (1804):104

La macchina per la filatura delle corde


“Je ne saurois trop reccomander aux Amatours de bien monter leurs instruments; car la négligence de le faire a toujours existé et déprecié la Guitarre.
Il ne faut pas que les Cordes filées soient trop chargées de Soye; cela les assourdit et empêche la vibration.” [Non potrò mai raccommandare abbastanza agli Amatori di incordare bene i loro strumenti; poiché la negligenza verso questo aspetto è sempre esistita e ha sempre penalizzato la chitarra. Le corde filate non devono essere troppo cariche di seta perché questo le rende sorde e impedisce le vibrazioni.]

Per quanto riguarda il calibro del filo di metallo (o “gauge”) da adoperare: “On doit faire filer le Re du trait N° 15, le La du trait N° 13 et le Mi du trait N° 12. Les sons alors en seront parfait’.
Vediamo ora Romuald Truskolaski:105
Troppa seta fa la corda troppo grossa, quindi essa ha un tono piatto e corto’.
E ancora:“ …la prima corda E deve essere filata con il N° 10, la seconda A con N° 13, la terza D con il N° 18.’”
E ora Castellacci:106

Cordes de soie 6
e Brins de soie 10 Trait pour filer la corde N° 10
Cordes de soie 5
e Brins de soie 8 Trait pour filer la corde N° 12
Cordes de soie 4
e Brins de soie 6 Trait pour filer la corde N° 16

Assolutamente interessante – e unico nel suo genere – il riferimento alla quantità di fili di seta da utilizzare come anima delle corde rivestite. Mentre i bassi moderni mantengono costante lo spessore del multifilamento tra tutte le corde, nel caso di Castellacci esso invece aumenta mano a mano che si scende verso quelle più gravi. Questo si traduce in una resa acustica sempre più ovattata. Si osserva in aggiunta che la variazione di diametro esistente tra i vari fili metallici componenti l’avvolgimento per il Re, per il La e per il Mi risulta meno accentuata rispetto ai criteri dei bassi attuali. Va infine rilevato che non è ancora noto a cosa corrisponderebbe un “brin” (cioè un filo) di seta secondo i criteri tecnici attuali; vale a dire in Dtx (decitex) o in “Denari”, che sono entrambi delle unità di misura dei filati.
Per quanto riguarda la conversione dei numeri di “gauge” dei fili metallici di questi esempi in millimetri, le ricerche finora compiute non hanno portato purtroppo ad alcun esito positivo, anche perché la numerazione dei gauges risulta qui stranamente invertita rispetto alla consuetudine, vale a dire che all’ingrossarsi del diametro del filo, corrisponde una diminuzione della numerazione.107
Così non si sa se questi autori si riferissero al filo d’argento puro o al rame argentato, anche se l’esame di antichi spezzoni di corda e la documentazione reperita fanno propendere verso il secondo materiale.

Vediamo ora le caratteristiche delle corde filate ritrovate sulla Panormo prima citata. La lunghezza di corda filata compresa tra il nodo presente in un tratto finale (che serviva per fissare la corda tramite piolini al ponte) e quello opposto dove il filo si allarga non permette di coprire la lunghezza necessaria a chitarre con 65 cm di lunghezza vibrante (come quelle apparse qualche decennio dopo), facendo presagire che si tratti di campioni originali per questo tipo di chitarra.

 Re ø esterno / ø filo/ ø budello equiv./
La  ø esterno1,08 mm ø filo 0,18 mm* ø budello equiv. 2,04 mm (seta verde)
Mi ø esterno 1,26 mm ø filo 0,26 mm* ø budello equiv. 2,50 mm (seta gialla)

* Il diametro di partenza del filo, che è in rame argentato, risulta essere superiore di almeno il 10%. Questo accade a causa dell’allungamento che il filo subisce
durante la fase di filatura della corda.

In base alla nostra sperimentazione, i fili originari di partenza dovrebbero essere stati compresi tra 0,20-0,22 mm per il La e 0,30-0,33 mm per il Mi.
Considerando i valori di diametro espressi come “budello equivalente”, è possibile ricavare il valore complessivo della tensione di lavoro delle corde della chitarra Panormo per un corista pari a 435 Hz:

mi: 6,1 kg**
si : 6,8 kg
sol: 8,0 kg
Re: / La: 8,1 kg
Mi: 6,7 kg

** Per un migliore allineamento della tensione del cantino (in pratica almeno 8 kg di tensione ) ci si deve aspettare un diametro di almeno 0,68 mm. È comunque chiaro che ne risulta sostanzialmente un profilo di eguale tensione per un totale di circa 45 kg, il che conferma i dati citati in precedenza e, ancora una volta, Aguado.

Interessante osservare che a partire da questo periodo le corde per chitarra cominciarono probabilmente ad essere confezionate in buste specifiche e non più in mazzi di corde arrotolate, e una prima avvisaglia di una certa autonomia rispetto alle confezioni per violino si può riscontrare forse in un catalogo di Luigi Forni datato 1867:

“-Corde da Chitarra Italiana alla dozzina…………..…
-Da 30 al mazzo di Roma, Napoli a 2.3.4. fila a 2.3.4. tirate.…….…
-Nazionali delle migliori fabbriche……………..
-da contrabasso ramate e non ramate cad………..…..”.

Va sottolineato che fino ad almeno la fine del XIX secolo le corde non si vendevano una per bustina, bensì a mazzi di corde composte dallo stesso numero di fili.

CONCLUSIONI
La documentazione storica reperita dimostra con chiarezza che la chitarra del XIX secolo seguiva in generale dei principi profondamente diversi da quanto oggi diffusamente ritenuto: non ebbe affatto, in altre parole, tensioni di lavoro più ridotte rispetto alla chitarra di oggi. La documentazione del tempo dimostra semmai che fu vero il contrario.
Non può non rilevarsi inoltre come il profilo di tensione delle corde si discosti di misura da quello dei nostri set tradizionali: notevolmente scalare il nostro (come poi si vedrà), quasi, se non proprio in eguale tensione, quello di allora.
Come se non bastasse, i bassi del tempo, oltre ad essere proporzionatamente più tesi dei nostri, utilizzavano materiali (la seta) e seguivano criteri di bilanciamento tra l’anima e filo metallico che al giorno d’oggi sarebbero considerati assolutamente sbagliati. Ne conseguiva pertanto una sonorità piuttosto percussiva, per nulla persistente e ricca di armonici superiori come oggi riconosciamo ai bassi.
Piccoli spostamenti del pirolo bastavano inoltre a causare forti escursioni di frequenza dei bassi, dato che la bava di seta risulta meno propensa a cedere longitudinalmente rispetto al multifilamento di nylon.
Il budello stesso poi – come vedremo meglio nella quarta e ultima parte – presenta di per sè prestazioni acustiche profondamente diverse dal nylon e, per certi versi, molto più affini al carbonio.
Parlare quindi di esecuzioni storiche (o come si usa dire filologiche) soltanto perché si utilizza una Panormo o una Fabbricatore montata con corde in materiale sintetico (che seguono i criteri attuali, non certo quelli di allora) sembra francamente, alla luce di quanto sinora esaminato, un’affermazione un po’ azzardata.
Ma la verità che traspare dai documenti, con il suo carico per noi indubbiamente destabilizzante , non deve spaventare: ci indirizza semmai alla voglia di provare, di percorrere nuove strade.
In una frase: la sonorità autentica della chitarra dell’Ottocento è, in buona parte, ancora tutta da scoprire. Con questa nota conclusiva si chiude così il capitolo riguardante le corde per chitarra nel XIX secolo.
Il secolo seguente segnerà, con brutale rapidità, la fine del predominio millenario della seta e del budello in conseguenza della straordinaria scoperta del Dott. Carothers, chimico ricercatore della Du Pont americana e del determinante, pionieristico contributo di uomini del calibro di Albert Agustine e Andrés Segovia: l’era del nylon era giunta.

 

 

  1. GIOVANNI FOUCHETTI,Méthode pour apprendre facilement à jouer de la Mandoline à 4 et a 6 cordes, Paris, 1771. Reprint: Minkoff, Genève, 1983, p. 5.
  2. FE R N A N D O SO R,Méthode pour la Gui tarre, Ferdinand Sor, Paris, L’Auteur. 1830’, Madrid, Biblioteca Nacional, n. M2654, pp. 17-18 “Maniére d’Attaquer la C o r d e”. “La montez-vous avec des cordes fines ou fortes?” […] “Aimez-vous le son argentin ou velouté?
  3. PATRIZIO BARBIERI,Giordano Riccati on the diameters of strings and pipers, “The Galpin Society Journal”, XXXVIII, 1985. Cfr. anche MIMMO PERUFFO,Italian violin strings in the eighteenth and nineteenth centuries: typologies, manufacturing techniques and principles of stringing, in ‘Recercare’ IX, 1997, pp. 155-203.
  4. Ecco ad esempio parte di una curiosa ricetta del XVIII secolo: “Libro contenente la maniera di cucinare e vari segreti e rimedi per malattie et altro”, “Corde da Violino, modo di farle”: “Si prendino le budella di castrato o di capra fresche […] e per fare cantini se ne prende tre fila e si torcono al mulinello…”. Biblioteca Municipale Panizzi, Mss. Vari E 177. Pubblicato da G. Bizzarri e E. Bronzoni, Il lavoro Editoriale, Bologna, 1986.
  5. JEAN-CARL MAUGIN-WALTER MAIGNE,Nouveau manuelcomplet du luthier, 2nda edizione, Roret, Paris, 1869, p. 184.
  6. PHILIPPE SAVARESSE,Cordes pour tous les instruments de musique, in: CHARLES P. L. LABOULAYE,Dictionnaire des arts et manufactures, 3 ed., vol. I, Lacroix, Paris, 1865, alla voce “corde”.
  7. Ad esempio EDWARD HERON-ALLEN,Violin-making as it was and is[…], Ward, Lock & Co., London, 1884,
  8. DO M E N I C O AN G E L O N I,Il Liutaio, Hoepli, Milano, 1923, pp. 279-298.
  9. JAQUES SAVARY DES BRUSLONS,Dictionnaire universel de commerce, d’histoire naturelle, et des arts et métiers, vol II, Cl. & Ant. Philibert, Copenaghen, 1759 alla voce “Corde”, p. 248: “ensorte que celles du N° 1, ne sont faites que d’un seul filet; celles du N° 2, de deux filets, celles du N° 3, de trois fillets; & ainsi des autres cordes…”.
  10. GEORGE HART,The Violin: its famous makers and their imitators, Dulau and Co., London, 1875, pp. 46-47
  11. Cfr. JOHN PLAYFORD,An introduction to the skill of music…The fourth edition much enlarged,William Godbid for John Playford, London, 1664.
  12. DI O N I S I O AG U A D O,Nuevo Método para Guitarra, Madrid, 1843, Chapter VI, 26. “1 pulgada = 0,9132 of an inch”:cfr. J. H. ALEXANDRE, Universal Dictionary of Weights and Measures Ancient and Modern, New York, 1867, p. 90.
  13. Cfr. LORENZO FRIGNANI,Chitarre e Mandolini,Piccola collezione di strumenti italiani dell’800 e del ’900, Poligrafico Mucchi, Modena, 1998.
  14. CARLO GERVASONI,La Scuola di Musica, Piacenza 1800, parte prima, p. 126 nota a piè di pagina.
  15. DOMENICO ANGELONI, op. cit., p. 281.
  16. PIETRO RIGHINI,La lunga storia del diapason,Bérben, Ancona, 1990, pp. 23-24. Vedere anche ALEXANDER ELLIS, The History of musical pitch, London, 1880.
  17. LUIGI CASTELLACCI,Grande Méthode de Guitare, Paris, 1824 ca.
  18. Krzysztof Komarnicki, Varsavia, comunicazione privata all’Autore, 1998. ROMUALD TRUSKOLASKI,Szkola/ na/ Gitare Hiszpanska/ ulozona i ofiarowana/ W. Karolowi Kurpinskiemu/ …/ przez/ Romualda Truskolaskiego’Warsaw 1820, p. 10. W. TOMASZEWSKI, Bibliografia warszawskich drukowmuzycznych 1801-1850, Warsaw 1992, Biblioteka Narodowa.
  19. WILLIAM HUGGINS,On the function of the sound-post and the proportional thickness of the strings of the Violin, Royal Society proocedings, XXXV, London, 1883 pp. 241-248.
  20. JEAN-CARL MAUGIN-WALTER MAIGNE, op. cit., p. 183.
  21. Il materiale è stato ritrovato e si trova tuttora presso l’Archivio di Palazzo Rosso a Genova
  22. Le corde si presentano avvolte a rotolo tutte assieme e tenute strette da due nastrini di seta rossa.
  23. Si presume che tale lascito possa essere stato consegnato in allegato al violino al Comune di Genova da Achille Paganini, figlio di Nicolò, nel luglio del 1851 (cfr. EDWARD NEILL,Nicolò Paganini il cavaliere filarmonico,De Ferrari Editore, Genova, 1990, p. 313).
  24. EDWARD NEILL, Nicolò Paganini:Registro di lettere, Graphos, Genova, 1991, p. 80. Lettera scritta a Breslau, il 31 Luglio 1829 indirizzata al ‘signore profre Onorio de Vito, Napoli’.
  25. EDWARD NEILL, Paganini: epistolario, Comune di Genova, Genova, 1982, p. 49.
  26. FRANCESCO GALEAZZI, op. cit 19, p. 74, nota a piè pagina: ‘Non sarà, cred’io, discaro al mio lettore, che io qui gli descriva una picciola semplicissima macchinetta, e l’uso glie ne additi per filarsi, e ricoprirsi d’argento da sé i cordoni’.
  27. FRANCESCO GALEAZZI, op. cit 19, p. 74, nota a piè pagina: ‘’E’ noto ad ogniuno qual pesante, e lorda Macchina si soglia a tale effetto comunemente adoperare…’.
  28. Vedere ad esempio WILLIAM NICHOLSON,A dictionary of Chemistry, II, London, 1795, pp. 820-824.
  29. Paganini ad esempio preferì l’argento sopra altri metalli per la quarta del suo violino: ‘Non so se prima, ma dopo una o due settimane di soggiorno colà mi restituirò a Milano per li tuoi Violini e ti farò fasciare delle quarte di filo d’argento.’ (Epistolario, op. cit. 100, p. 67.
  30. JEAN BAPTISTE PHILLIS,Nouvelle Méthode Pour la Lyre ou Guitare A Six Cordes…par Phillis Op. 6,p. 6, Paris, Bibliothéque Nationale, N° Vma. 903. Matanya Ophee, comunicazione privata all’Autore, anno 1999.
  1. ROMUALD TRUSKOLASKI, op. cit., p. 10
  2. LUIGI CASTELLACCI, op. cit. p. 92.
  3. Marco Tiella, comunicazione privata all’autore del 1999.