Le Corde per Chitarra tra il Settecento e l’Avvento del Nylon (parte 4)
Le Corde per Chitarra tra il Settecento e l’Avvento del Nylon (parte 4)
Tipologie, tecniche manufatturiere e criteri di scelta
di Mimmo Peruffo
Le basi che caratterizzarono la chitarra del XXsecolo furono gettate già verso la secondametà dell’Ottocento e consistettero sostanzialmentenell’avvento della chitarra di Antonio deTorres. Ciònonostante, nessuno a quel tempo poteva lontanamente prevedere il cambiamentoepocale che la chimica di sintesi avrebbe prodottoverso la metà del secolo seguente nel mondodella chitarra. Non ci soffermeremo ovviamentesui dettagli organologici e costruttivi delnostro strumento, dettagli che si possono ritrovarein altre più recenti opere.109 Quello che quiimporta sapere è che con Torres la lunghezzavibrante della chitarra si elevò e si stabilizzò intornoa 65 cm e così è sostanzialmente rimastasino ai nostri giorni, tranne alcune eccezioni comead esempio gli strumenti costruiti daiR a m i rez (67 cm circa di lunghezza vibrante). Sono tuttora ignote le ragioni che spinsero ilgrande liutaio a questo preciso incremento, vistoche la tecnologia cordaia e le frequenze deicoristi non subirono variazioni degne di nota rispettoal consueto.
Per quanto riguarda in particolare la questionedel corista del tardo Ottocento/iniziNovecento, si può anzi ritenere che esso si stabilizzòsostanzialmente intorno ai 435 Hz, fruttodei primi efficaci accordi internazionali di finesecolo.
IL NOVECENTO
Riguardo alla produzione cordaia va purtropporilevato l’inizio di un inarrestabile fenomeno:il brusco tracollo della gloriosa e centenaria produzioneitaliana, asse portante per secoli del farmusica in Europa.110
Mentre in Italia la produzione di corde – diffusa in buona parte della zona centro settentrionale– si caratterizzò sempre come un fatto dinatura esclusivamente artigianale e individualista,in Francia i cordai vantavano invece l’attenzione dell’amministrazione dello Stato, che li considerava con orgoglio. In Germania la produzione di corde di budello aveva di fatto preso un andamento di tipo industriale. Nonostante la qualitàdel prodotto tedesco lasciasse spesso a desidera re (si trattava di corde sì economiche, ma piuttostorigide),111 i tedeschi, già nei primi decennidel XX secolo, erano in grado di dominare buonaparte del mercato europeo, malgrado la rapidae crescente diffusione tra gli strumenti ad arco– che erano i maggiori utilizzatori di cordea rmoniche – delle corde di metallo.
Le cause del rapido declino italiano, oltre cheper la natura “puntiforme” della produzione nazionale,sono da ricercarsi probabilmente nellegenerali grandi difficoltà economiche che gravavanola popolazione di allora. Tali problemi derivavano in parte dall’ancor fresca Unità d’Italia in un primo momento e dagli eventi bellici del ’15-’18 successivamente. Molti italiani, per sbarc a re il lunario, scelsero la via dell’emigrazione e assieme a questi anche diversi cordai; alcuni di questi riuscirono, tra mille difficoltà, a gettare le basi di quella che sarebbe poi diventata la florida produzione nordamericana (D’Addario, La Bella- Mari etc: tutti cognomi di origine abruzzese).
Non è ancora noto quando la chitarra cominciò a rendersi indipendente dal confronto con le corde del violino. Possiamo supporre che ciò possa essere accaduto in coincidenza con l’aumento della sua lunghezza vibrante: tale “distacco” si rese necessario al fine di mantenere i valori di tensione più o meno invariati rispetto alla consuetudine acquisita, poiché una lunghezza di corda maggiore necessita l’impiego di calibri più sottili. Va infatti notato come il passaggio da una lunghezza vibrante di circa 62 cm (tipica delle chitarre della prima metà del XIX secolo) a 65 cm – quasi un semitono in più di lunghezza – andrebbe a comportare un aumento della tensione di lavoro – se le corde fossero le stesse – di quasi un kg in totale.
Per poter disporre di dati significativi, riferiti esclusivamente alla chitarra, bisogna tuttavia giungere a Pujol.112 In base alle precise indicazioni fornite nel suo Metodo, si osserva così che vi fu effettivamente un lieve calo del diametro medio delle corde acute rispetto al secolo precedente e, fatto importante, compare per la prima volta una certa scalarità della tensione di lavoro; aspetto pressoché sconosciuto alle montature per chitarra del XIX secolo:
Diámetros en décimas de milimetros.*
Prima de 12.5 a 13..5 (0,63-0,68 mm)
Segunda de 16 a 17.5 (0,80-0,88 mm)
Tercera de 20 a 21.5 (1,00-1,08 mm)
Cuarta de 15 a 16 (0,75-0,80 mm esterno)
Quinta de 18.5 a 19.5 (0,93-0,98 mm esterno)
Sexta de 23 a 24 (1,15-1,20 mm esterno)
Al corista di 435 Hz e alla lunghezza vibrante di 65 cm (Pujol possedeva una chitarra Torres) risultano i seguenti intervalli nei valori della tensione di lavoro:**
mi: 7,4-8,6 kg
si: 6,0-8,1 kg
sol: 6,6-7,7 kg
Nonostante si tratti di calibri specifici per chitarra, l’allineamento delle tre acute con i calibri in uso nel violino coevo è ancora sorprendente, e tale si mantenne per almeno un decennio ancora: si osservi ad esempio i diametri per violino suggeriti da Carl Flesh nel 1924:113
NOTA mi DIAMETRO 0,63 mm
NOTA la DIAMETRO 0,82 mm
NOTA re DIAMETRO 1,09 mm
Per quanto riguarda la seconda corda, Pujol suggerisce curiosamente che essa sia la metà esatta dello spessore della terza e il doppio di quello della prima motivando questo con il fatto che “la necesidad de una cierta claridad que secunde en esta cuerda el carácter expressivo de la prima, hace que se prefiera ligeramente delgada, siempre que no cerdée.” [“la necessità di una certa chiarezza che assecondi in questa corda il carattere espressivo della prima fa sì che si preferisca leggermente sottile, sempre che non perda l’intonazione”]. Il significato di questa indicazione non ci è chiaro: dalla tabella emerge invece che il diametro della seconda corda è esattamente la media del diametro tra la prima e la terza corda.
Nel Manuale viene riportato ancora l’antico test per riconoscere una corda falsa da una buona: ciò sta a significare che all’epoca le corde erano ancora levigate a mano. Interessante la descrizione del micrometro della Pirastro per la misurazione dei diametri della corda, strumento che cominciava allora a soppiantare il vecchio misuracorde a piastrina del XIX secolo.
La diretta conseguenza dell’introduzione della tensione scalare fu che la sensazione tattile di rigidità cominciò a manifestarsi con più omogeneità tra le corde.
Ecco ora degli esempi di corde di budello per violino che abbiamo ritrovato: risalgono ai primi decenni del XX secolo e ci possono fornire un utile confronto con quelle della chitarra:
NOTA DIAMETRO OSSERVAZIONI
1a mi 0,66 mm Bustina in carta oleata ‘Bimba,’ London. Alta torsione.
1a mi 0,68 mm Bustina non classificabile. Alta torsione.
3a re 1,14 mm Provenienza non nota. Alta torsione
3a re 1,17 mm Bustina ‘Lustral’, Valtelot-Hekking, Paris. Alta torsione.
Ecco quindi le misure di corde di budello per chitarra risalenti forse agli anni ’40/’50 ritrovate intatte nelle loro confezioni sigillate. Sono contrassegnate con (a) le corde messe gentilmente a nostra disposizione dal l iutaio Lorenzo Frignani di Modena e con (b) i campioni ritrovati nella custodia di una chitarra di To r res del 1867 presente al Palacio de la Guitarra di Ibaraki (Giappone) :
NOTA DIAMETRO OSSERVAZIONI
mi 0,64 mm Bustina in carta oleata ‘Perfect’, Francia. Media torsione. (a)
mi 0,65-0,67 mm Corda avvolta a circolo mai usata. Alta torsione (b)
la 0,84-0,86 mm Corda avvolta a circolo mai usata. Alta torsione (b)
sol 1,02-1,04 mm Corda avvolta a circolo mai usata. Alta torsione (b)
sol 1,0-1,03 mm Corda avvolta a circolo mai usata. Alta torsione (b)
sol 1,02 mm Bustina in carta oleata ‘Perfect’, Francia. Bassa torsione. (a)
sol 1,05 mm Bustina in carta oleata ‘Celesta’, Francia. Bassa torsione. (a)
In queste misure si ritrova una totale analogia con quanto scritto da Pujol, oltre alla conferma della scalarità delle tensioni di lavoro e del legame generico ancora esistente – anche se sottacciuto – con i calibri del violino. In altre parole esso non viene più menzionato come termine di paragone.
Va sottolineata la scarsa elasticità osservata in alcuni campioni di cui sopra: duri e rigidi al tatto, sono realizzati con un basso grado di torcitura, caratteristica che li discosta notevolmente dall’alta qualità delle corde prodotte nel XIX secolo in Italia e Francia. Ricordiamo che una corda scarsamente ritorta, in virtù della notevole rigidità, non permette certo la migliore resa acustica. 114
Va fatto presente che la tensione di lavoro media del cantino non subì in realtà variazioni di sorta rispetto all’Ottocento, se si considera il fatto che all’aumento di circa un tasto incorso nella lunghezza vibrante ad opera degli spagnoli, corrisponde una riduzione compensativa del diametro di corda in uso pari proprio a circa un semitono.
Esaminiamo ora alcuni campioni di corde filate su seta risalenti probabilmente agli anni ’30/’40 da confrontare poi con quelle moderne, in particolare per quanto riguarda il diametro dei fili metallici impiegati, il diametro esterno e il budello equivalente. Come indicato precedentemente, le corde contrassegnate con (a) e (b) provengono rispettivamente dal liutaio Frignani e dalla Torres custodita al Palacio de la Guitarra, mentre quella contrassegnata con (c) è stata messa a nostra disposizione da Kenneth Sparr di Stoccolma.
L’AVVENTO DEL NYLON
Con la comparsa delle poliammidi (il nylon) – siamo alla vigilia della seconda guerra mondiale – lo scenar io cambiò radicalmente. Probabilmente non è noto a tutti il ruolo assolutamente determinante che ebbe Andrés Segovia nel dare impulso all’applicazione dei nuovi materiali sintetici sostitutivi del budello in un periodo storico in cui (c’era la guerra) tutta la minugia disponibile andava utilizzata per fare filo chirurgico ad uso militare.115 In Italia, ad esempio, gli alleati pare abbiano letteralmente “sequestrato” gli ultimi centri produttivi di corde di budello italiani – come ad esempio Salle e Musellaro, in Abruzzo – per destinarli alla produzione massiccia, esclusiva e “Top Secret” di filo da sutura. Questo nuovo indirizzo produttivo è rimasto ancor oggi in vita soppiantando quasi del tutto la produzione di corde armoniche.
In questo scenario, dove trovare corde di budello per uso musicale rappresentava un’avventura impossibile, entrarono improvvisamente in scena, come si diceva, le poliammidi. La palma d’oro della sperimentazione tecnica applicata alla chitarra spetta incondizionatamente al newyorkese Albert Augustine, uno dei liutai conosciuti da Segovia, che, sotto le irresistibili pressioni del Maestro, riuscì nell’intento di perfezionare per fini musicali questo materiale sintetico disponibile sotto forma di filo recentemente scoperto (1938) dal dottor Wallace Carothers, capo ricercatore dei laboratori dell’americana DuPont Company.116 La nuova classe di materiali, che rivelava straordinarie proprietà meccaniche, venne battezzata dalla compagnia stessa con il “cognome” generico di nylon. Il perlon (poliammide 6) rappresentò il capostipite della serie dei nylon e fu subito impiegato per la pesca, per le calze da donna, ma soprattutto per realizzare i paracadute ad uso bellico.
Segovia, già agli inizi del 1947, fu tra i primi a poter provare il nylon grazie a dei campioni di filo (non ancora tali da chiamarsi propriamente corde) fornitigli dal generale Lindenman, personaggio determinante, che egli conobbe fortuitamente durante un ricevimento all’ambasciata spagnola di Washington nel Natale del 1946. Nel corso del ricevimento, Segovia ebbe a lamentarsi casualmente con lui della mancanza endemica sul m e rcato di corde di budello e in particolare dei cantini a causa della guerra (ricordiamoci che proprio la Germania deteneva negli anni ’30 il primato della produzione europea). Il generale in quella occasione gli promise l’invio di alcuni campioni del nuovo materiale che lui stesso avre b b e chiesto confidenzialmente alla DuPont. Il mese dopo alcuni fili di nylon che potevano assomig l i a re ad un cantino di chitarra arrivarono all’hotel dove Segovia risiedeva: li testò immediatamente sul suo strumento intuendone all’istante le grandi potenzialità. Da questo preciso momento l’era del budello finì per sempre. Nonostante lo scetticismo degli esperti della stessa DuPont, Albert Augustine (in collaborazione, pare, anche con la Ditta Mari/La Bella, noti cordai di New York di origine italiana, manifattori di corde di budello )117 riuscì poi, stimolato costantemente da Segovia, nella messa a punto finale dei canti e anche dei bassi con la nuova anima di fiocco di nylon: una sorta di “seta artificiale” insomma.
Questo permise la prima produzione commerc i ale di corde sintetiche per chitarra sotto il marchio “Augustine”. La DuPont sviluppò immediatamente – già nei primi anni ’50 – prodotti più adatti alla musica (dotati cioè di alto modulo elastico e basso assorbimento di umidità) come ad esempio la poliammide 6-12 (meglio conosciuta come Tynex e ancora oggi usata per le corde della chitarra) il cui massiccio uso per la verità si incentrava, allora come oggi, nella produzione di setole sintetiche per… spazzolini da denti.118
Viene da domandarsi se la transizione dal budello al nylon abbia comportato grossi cambiamenti nella scelta dei calibri e nelle tensioni di lavoro: la risposta è sì, ma con gli opportuni distinguo.
La prima considerazione riguarda le proprietà acustiche e meccaniche del nylon negli acuti: senza scendere troppo in dettagli tecnici, peraltro già ampiamente trattati,119 va detto che questo materiale presenta il pregio dello scarso assorbimento di umidità atmosferica (per il Tynex pari al 3% circa a saturazione contro il 20 % circa del budello), un basso costo, una superficie perfettamente lucida – cosa non permessa al budello – e infine una notevole resistenza all’abrasione: questi sono vantaggi meccanici e di affidabilità indubbi, ma che di per sé non incidono minimamente sulla qualità del suono. Per contro, il peso specifico delle poliammidi risulta discretamente inferiore al materiale naturale (1,07 gr/cm3 contro 1,30 gr/cm3 del budello), un grosso handicap dal punto di vista del suono perché si traduce in una resa acustica meno brillante, con un transitorio di attacco meno pronto e più rumoroso del budello, il quale per certi versi tende invece ad assomigliare molto più al carbonio che al nylon. In altre parole, l’avvento del nylon ha causato per la prima volta un allontanamento rimarchevole dalla tradizione acustica indotta fin dalla notte dei tempi dalle corde di budello.
Nei bassi si verificò invece un’autentica rivoluzione: il nylon in forma di multifilamento presenta infatti una resistenza alla trazione talmente superiore alla seta (oltre a possedere un minor grado di assorbimento di umidità atmosferica) da permettere per la prima volta una forte riduzione del diametro dell’ “anima” in favore del filo metallico. La conseguenza di tale modifica è stato un notevole incremento della prestanza acustica dei registri bassi, praticamente sconosciuta ai chitarristi fino ad allora. Tanto per fare un esempio concreto, nella corda di Mi si è passati da un filo di rame arg e ntato di soli 0,30 mm tipico delle corde con anima di seta agli attuali 0,35 mm, a tutto vantaggio del suono. Espresso in altri termini (poiché la qualità sonora – a parità di budello equivalente – dipende da quanto è sottile l’anima utilizzata), se nei primi del Novecento il diametro dell’anima di seta del Mi basso era intorno a 0,70 mm, con il nylon si riduce a soli 0,52 mm circ a : in entrambe le condizioni una corda di basso si trova comunque progettata a lavorare al limite, in pratica uno o due semitoni al di sotto del punto di rottura dell’anima. Ci si accorge facilmente dell’app rossimarsi dell’exitus poiché la corda non c resce più di frequenza nonostante la rotazione della chiavetta della meccanica, mentre si cominciano ad avvertire dei piccoli crepitii dovuti alle fibre che in rapida successione si spezzano all’int e rno della corda stessa.
Va rilevato che i nuovi bassi presentano un cedimento longitudinale maggiore rispetto a quelli con seta; ciò si traduce in un maggior numero di giri alla meccanica prima di poter raggiungere l’intonazione richiesta e questo è un vantaggio per la precisione dell’intonazione stessa.
Per gli acuti si barattò dunque la vocalità del budello con il basso costo, l’affidabilità, la stabilità climatica e di intonazione del nylon. La resa acustica degli acuti divenne però più ovattata e meno brillante (aspetto solo in parte colmato dal carbonio, materiale di brevetto giapponese introdotto in Europa negli anni ’70, il cui peso specifico va ben oltre quello del budello stesso: 1,78 gr/cm3 rispetto a 1,30 gr/cm3 del budello), producendo pertanto una sonorità certamente pronta e incisiva, ma da molti giudicata “emozionalmente fredda”.
Va osservato come la comparsa dei materiali sintetici abbia inevitabilmente comportato un certo appiattimento tecnologico: infatti mentre le corde di budello venivano prodotte artigianalmente da numerosi centri manifatturieri europei dove ognuno seguiva la propria idea di corda, i fili di poliammide vengono fabbricati da pochi produttori internazionali. La maggior parte delle aziende che “producono” corde da chitarra si limitano in definitiva al semplice imbustamento dopo l’acquisto di “stecche” del peso di qualche Kg composte da qualche migliaio di fili di nylon della stessa misura, filo utilizzabile in verità per diversi scopi tra cui anche quello musicale. Va notato come gli intervalli dei calibri commerciali a disposizione dell’acquirente siano stati già da tempo standardizzati – leggi imposti – dalla stessa azienda che effettua l’estrusione del filo. La stessa identica situazione si può rilevare anche per il multifilamento dei bassi, il quale viene venduto in misure standardizzate secondo i criteri derivati dal comparto tessile (visto che esso viene utilizzato principalmente come componente di rinforzo nei copertoni per auto e per usi tessili in genere); si tratta soltanto, in definitiva, di rivestirlo con il filo di rame argentato o di altre leghe – tra cui l’ottone o, più raramente, leghe contenenti una maggior quantità di argento – e tagliare la corda ottenuta a misura commerciale.
Risulta ovvio, pertanto, che le corde prodotte dalle varie marche sono inevitabilmente piuttosto simili – per non dire uguali – tra loro. E non può essere che così, visto che il multifilamento di nylon è praticamente sempre quello per tutti, e che la percentuale tra metallo e multifilamento ha raggiunto ormai da tempo l’ottimizzazione oltre la quale la corda in tensione potrebbe arrivare a spezzarsi prematuramente. Per il nylon dei canti si osserva lo stesso problema, poiché procedono anch’essi per canali di produzione industriale predeterminati. Quanto affermato lo si può peraltro facilmente verificare nella seguente tabella, dove vengono messi a confronto tra loro set di corde per chitarra di alcune tra le marche più note.120
Hannabach serie 815 Low tension, busta verde:
NOTA Ø CORDA Ø FILO MET.* Ø B U D E L L O E Q. TENS.**
mi 0,73 mm / 0,66 mm 8,3 Kg
si 0,85 mm / 0,77 mm 6,4 Kg
sol 1,02 mm / 0,93 mm 5,9 Kg
RE 0,77 mm 0,14 mm 1,47 mm 8,2 Kg
LA 0,91 mm 0,22 mm 1,80 mm 7,5 Kg
MI 1,12 mm 0,33 mm 2,40 mm 6,9 Kg
Hannabach serie 728 MT, Medium tension, nera:
NOTA Ø CORDA Ø FILO MET.* Ø B U D E L L O E Q. TENS.**
mi 0,71 mm / 0,64 mm 7,8 Kg
si 0,83 mm / 0,75 mm 6,0 Kg
sol 1,01 mm / 0,92 mm 5,7 Kg
RE 0,75 mm 0,15 mm 1,46 mm 8,1 Kg
LA 0,93 mm 0,24 mm 1,93 mm 7,9 Kg
MI 1,12 mm 0,34 mm 2,45 mm 7,2 Kg
Hannabach serie 8271 HT High tension, busta blu “flamenco”:
NOTA Ø CORDA Ø FILO MET.* Ø B U D E L L O E Q. TENS.**
mi 0,76 mm / 0,69 mm 9,1 Kg
si 0,85 mm / 0,77 mm 6,4 Kg
sol 1,07 mm / 0,97 mm 6,4 Kg
RE 0,76 mm 0,15 mm 1,51 mm 8,6 Kg
LA 0,95 mm 0,24 mm 1,97 mm 8,3 Kg
MI 1,13 mm 0,34 mm 2,48 mm 7,3 Kg
Hannabach serie 900 Medium tension, busta rosa:
NOTA Ø CORDA Ø FILO MET.* Ø B U D E L L O E Q. TENS.**
mi 0,72 mm / 0,65 mm 8,1 Kg
si 0,84 mm / 0,76 mm 6,2 Kg
sol 1,05 mm / 0,95 mm 6,1 Kg
RE 0,75 mm 0,14 mm 1,48 mm 8,3 Kg
LA 0,93 mm 0,23 mm 1,95 mm 8,1 Kg
MI 1,12 mm 0,34 mm 2,46 mm 7,2 Kg
Agustine Light tension, busta nera:
NOTA Ø CORDA Ø FILO MET.* Ø B U D E L L O E Q. TENS.**
mi 0,75 mm / 0,68 mm 8,3 Kg
si 0,84 mm / 0,77 mm 6,4 Kg
sol 1, 06 mm / 0,97 mm 6,4 Kg
RE 0,76 mm 0,13 mm 1,40 mm 8,2 Kg
LA 0,85 mm 0,17 mm 1,90 mm 7,5 Kg
MI 1,13 mm 0,28 mm 2,35 mm 6,9 Kg
Agustine Heavy tension, busta blu:
NOTA Ø CORDA Ø FILO MET.* Ø B U D E L L O E Q. TENS.**
mi 0,72 mm / 0,66 mm 8,3 Kg
si 0,83 mm / 0,76 mm 6,2 Kg
sol 1, 00 mm / 0,91 mm 5,9 Kg
RE 0,77 mm 0,15 mm 1,44 mm 8,2 Kg
LA 0,94 mm 0,24 mm 2,01 mm 7,5 Kg
MI 1,13 mm 0,34 mm 2,48 mm 7,3 Kg
Savarez-Alliance 540 RH, High tension:
NOTA Ø CORDA Ø FILO MET.* Ø B U D E L L O E Q. TENS.**
mi 0,63 mm PVDF / 0,74 mm 10,5 Kg
si 0,69 mm PVDF / 0,81 mm 7,0 Kg
sol 0,84 mm PVDF / 0,98 mm 6,5 Kg
RE 0,76 mm 0,14 mm 1,48 mm 8,3 Kg
LA 0,84 mm 0,23 mm 1,79 mm 6,8 Kg
MI 1,09 mm 0,34 mm 2,42 mm 7,0 Kg
(Densità PVDF = 1,78 gr/cm3)
Daddario Compositum High tension, busta giallo/nera:
NOTA Ø CORDA Ø FILO MET.* Ø B U D E L L O E Q. TENS.**
mi 0,71 mm / 0,64 mm 7,8 Kg
si 0,83 mm / 0,75 mm 6,0 Kg
sol 1,04 mm / 0,94 mm 6,0 Kg
RE 0,74 mm 0,13 mm 1,43 mm 7,7 Kg
LA 0,94 mm 0,22 mm 1,98 mm 8,3 Kg
MI 1,16 mm 0,33 mm 2,55 mm 7,7 Kg
Ecco ora ulteriori considerazioni. La prima verte sul corista, il quale si stabilizzò (quasi) definitivamente a 440 Hz. Per quanto riguarda la lunghezza vibrante, si osserva che non subisce oggi grosse variazioni rispetto alla chitarra di Torres, eccezioni a parte.
Abbiamo riportato nei grafici n° 1 e 2 l’andamento delle tensioni di lavoro rispettivamente dei canti e dei bassi dei set prima considerati.
Osservazioni:
La cosa che indubbiamente colpisce maggiormente di questi set attuali è l’andamento ancor più fortemente scalare delle tensioni di lavoro rispetto a quelle riferite da Pujol, tali da farle assomigliare a quelle del violino del XIX secolo.
Tensioni che risultano oltremodo suddivise – nell’ambito dello stesso set – in due andamenti indipendenti che riguardano o le tre corde più acute di nylon/PVDF o i tre bassi filati.
Lo scopo di un così bizzarro profilo di tensione, che risulta assai simile tra le varie marche, è finalizzato a recuperare al meglio l’eguaglianza della sensazione tattile di rigidità tra tutte le corde. Si noti nel grafico n° 3 l’andamento tipico dei valori di tensione di tutte le corde componenti un set.
Assolutamente curioso (se non inquietante) che l’ampiezza di tensione di lavoro tra set estremi (‘Light’ ed ‘Heavy’ ) dello stesso modello non riesca a superare il semitono. Si può in aggiunta osservare il caso di alcune corde della versione ‘Light’ che risultano più tese della versione ‘Medium’ e, dulcis in fundo, che quanto stampato all’esterno di talune confezioni (i diametri delle corde, la tensione di lavoro etc.) non corrisponde affatto ai calibri di corda reali, risultati da accurate misurazioni di laboratorio. Si hanno spesso, in altre parole, tensioni e diametri piuttosto diversi da quanto dichiarato sulle buste. S e m p re in tema di tensione, a titolo di esempio, se si prende in esame il diametro in budello equivalente del Mi della serie Hannabach ‘Low tension’ si vede che esso è pari a 2,41 mm. Se si salisse di un semitono (andando a costituire ciò che può essere quasi considerata una Medium Tension) esso arriverebbe ad un ‘budello equivalente’ di 2,55 mm. Ma nella serie ‘High tension’ – che è la tensione maggiore – esso raggiunge solamente il valore di 2,48 mm: soltanto un quarto di tono in più rispetto alla ‘Low tension’. Può essere questa definita una Heavy tension? Similmente, con i due set Agustine presi in considerazione si riscontra che gli acuti in Nylon della tensione ‘Light’ sono in realtà più gro s s i della ‘Heavy’; per i tre bassi invece le cose filano lisce, tranne il fatto che anche qui la distanza tra i due gradi estremi di tensione dei bassi raggiunge a malapena 1/4 di tono. Per i più pignoli precisiamo che i rilievi dei diametri e dei pesi delle corde commerciali sono stati da noi e ffettuati con micro metro di precisione di cui si è verificata la taratura, mentre i pesi delle corde filate – il cui diametro in ‘budello equivalente’ si ricava con semplici calcoli – sono stati ottenuti per mezzo di bilancia per microanalisi con accuratezza pari alla quinta cifra dopo la virgola e in condizioni di umidità costante.
Per completezza di informazione va puntualizzato che le corde degli acuti risultano per loro natura sempre con un certo grado di ovalizzazione e di incostanza del calibro nella loro lunghezza: è conseguenza del fatto che si parte da un materiale allo stato fuso, poi estruso a misura e raffreddato. Per le corde di budello questo fu un aspetto decisamente sconosciuto. Per i bassi, parimenti, esiste sempre una certa fluttuazione del calibro di corda prodotto, a seconda che l’operaio riesca con la sua abilità a garantire con costanza lo stesso tiraggio del filo metallico in fase di avvolgimento sulla bava di Nylon posta in trazione e rotazione. Da prove sperimentali si è visto che tale fluttuazione (qualora sia portata intenzionalmente all’estre m o ) può produrre anche 1/4 di tono di differenza di tensione tra due corde cosiddette uguali (fatte cioè a partire dalla medesima quantità di bava e dal medesimo filo metallico), dove il filo, durante la fase di avvolgimento sulla bava, sia stato però in un caso poco teso e nell’altro caso teso in maniera maggiore.
Questa realtà, che di fatto esiste, apre sicuramente pesanti interrogativi per coloro che si dilettano a studiare ingegnosi e spesso complicati stratagemmi per ben disporre i tasti della chitarra al fine di raggiungere la cosiddetta intonazione perfetta.
Le corde in budello, che non soffrivano di ovalizzazione, erano invece piuttosto tenere tanto da soffrire pesantemente sotto l’azione delle unghie della mano destra e dei tasti metallici. Questo aspetto risulta assolutamente trascurabile con le corde di nylon e carbonio, molto più dure della minugia.
RICAPITOLAZIONE FINALE
Arrivati a questo punto sembra dunque emergere con sufficiente chiarezza che le montature per chitarra e il tipo di corde utilizzate un tempo hanno sempre seguito criteri sostanzialmente differenti da quelli comunemente in uso oggi per le incordature della chitarra barocca, romantica e del primo Novecento. Questo può in parte spiegare l’esilità del suono prodotto oggi su questi strumenti. Per quanto riguarda in particolare la chitarra del “Secolo dei Lumi” appare evidente che si è letteralmente in un altro pianeta, e questo non solo dal punto di vista squisitamente organologico e musicale, ma anche dal punto di vista dell’accordatura, della tipologia di corde e dei diametri in gioco. Al di là dell’affinità costruttiva con gli strumenti di più recente costruzione e a corde singole, sembra così di prendere in considerazione tutt’altro strumento rispetto a quello del secolo seguente. Per quanto riguarda poi quest’ultimo, esso utilizzò in verità diametri di corda assai superiori di quanto sinora ipotizzato, con una distribuzione essenzialmente in eguale tensione tra le varie corde e, per giunta, con i bassi di seta.
Le corde stesse, si diceva, furono probabilmente assai differenti dalle odierne in budello, la cui produzione attuale ottiene corde quasi sempre troppo rigide (e la rigidità influisce negativamente sulla qualità del suono). La produzione italiana e francese di allora puntava invece ad ottenere corde in minugia molto più elastiche e quindi di miglior resa acustica. Va inolt re ricordato che, a differenza di oggi, i musicisti di allora sapevano distinguere con gran facilità a tatto e a vista una buona corda da una cattiva, mentre oggi questa cultura appare quasi definitivamente persa. Si poteva inoltre disporre di montature di corde più o meno forti – a seconda del gusto personale e del tipo di strumento – limitandosi a cercare nella confezione consueta (contrassegnata da una numerazione che indicava la quantità di fili con cui erano costituite tutte le corde del mazzo), per mezzo dell’apposito misuracorde, le corde ritenute adatte. Con l’evoluzione della chitarra, avvenuta nel tardo XIX secolo (Torres), i criteri di scelta di una montatura subirono un cambiamento nel tipo di diametri da utilizzare (più sottili) rispetto all’Ottocento.
Ma la differenza più sostanziale rispetto al secolo precedente si riscontra nel profilo di tensione tra le corde: divenuta ora scalare, permette il recupero di un’omogenea sensazione tattile di rigidità, che era il criterio guida nei secoli che precedettero l’Ottocento.
Va tuttavia osservato come ad una riduzione di calibri di circa un semitono in tensione si aff i a nchi anche un aumento della lunghezza vibrante, pari anch’essa a circa un semitono: ne deriva pertanto – per un fenomeno di compensazione – che il valore medio della tensione totale non subì incrementi o decrementi significativi. Diametro e lunghezza vibrante sono infatti inversamente proporzionali alla tensione di lavoro .
Per quanto riguarda i bassi, se nel Settecento furono prevalentemente costituiti da budello rivestito, con l’avvento della chitarra a sei corde semplici essi furono sempre realizzati utilizzando seta e curando – a parità di budello equivalente – la massima prevalenza del metallo rispetto alla seta. Si ritiene che i bassi in seta – che presentano un resa acustica certamente migliore di quelli con l’anima di budello – possano aver avuto un certo peso nel “lancio” della chitarra a sei corde di più ridotte dimensioni, pur non reggendo assolutamente il confronto rispetto alla bava di nylon.
Con l’avvento del nylon si assistette infatti ad una autentica rivoluzione co p e rnicana che nessuno ha potuto e poteva pre v e d e re, accompagnata però da un certo appiattimento produttivo dovuto alle modalità standardizzate di appro v v igionamento del monofilamento e del multifilamento di nylon. Questi materiali, a diff e renza del budello, sono prodotti ora in larga scala – e a misure rigidamente definite – dalle multinazionali detentrici del brevetto di invenzione, in genere giapponesi (per il carbonio) o americane (per il nylon). I set commerciali per chitarra pre s e n t ano inevitabilmente forti analogie tra loro e solo in parte combaciano con quelli in uso nella prima metà del XX secolo, specialmente nel profilo di tensione delle prime tre corde.
Diversa invece la situazione per i bassi con anima in multifilamento sintetico: in virtù delle migliori qualità meccaniche, la loro resa acustica, rispetto alla seta, è notevolmente migliore; sparisce gran parte dell’effetto “percussivo” tipico delle corde con anima di seta e si ottengono contestualmente maggiore potenza di emissione, ricchezza di armonici superiori – per la verità non s e m p re desiderati – e persistenza di suono.
Un vero e proprio ribaltone dunque: bassi percussivi, poveri di armonici con canti brillanti fino al 1948, bassi brillanti e persistenti ma canti più ovattati invece nei decenni seguenti.
Ma la ricerca non si è dimenticata del budello: gli orientamenti attuali sono indirizzati fortemente nella messa a punto di materiali che rip resentino le prestazioni acustiche tipiche di questo elemento senza i difetti caratteristici già superati a suo tempo con il nylon, quali l’alto costo, l’instabilità ai cambi climatici e la scarsa durata. Ecco dunque che sono comparsi sulla scena nuovi prodotti come il già citato PVDF per le prime corde acute, nuovi tipi di nylon (più tras p a renti e di migliore sonorità come il Cristal, costituito da poliammide 12) seguiti da poco dal Nylgut, materiale di sintesi recentemente applicato alla musica, dal colore bianco translucido, il quale, possedendo la stessa densità del budello, ne rappresenta in qualche modo la versione sintetica più rappresentativa in quanto ha una re s a acustica estremamente simile – se non identica – ad esso. Per contro esso presenta il difetto di ess e re piuttosto tenero rispetto al nylon e al narbonio (come lo è anche il budello, del resto). Il Nylgut, realizzato in forma di multifilamento – in conseguenza della sua elevata resistenza alla trazione – ha di recente permesso un’ulteriore riduzione della quantità di anima nei bassi in fav o re di una maggior quantità di metallo, apre ndo così la strada ad un’inedita generazione di corde filate caratterizzate da una performance globale sorprendente con diametri esterni – soprattutto se realizzate in puro argento – sensibilmente più ridotti. In altre parole un Mi basso può poss e d e re un diametro di poco superiore ad un La tradizionale di nylon. Il diametro dell’anima di Mi di pari grado di tensione è quindi passato prog ressivamente dai 0,67- 0,74 mm tipici della bava di seta ai 0,44-0,50 mm del nylon fino agli attuali 0,30-0,35 mm permessi dalla bava di Nylgut.
CONCLUSIONI
La storia dei produttori di corde, al contrario dei loro colleghi liutai e musicisti, fu sostanzialmente caratterizzata dal quasi totale anonimato.
Molti di loro inoltre non sapevano né leggere né scrivere e le loro umili botteghe vennero allontanate senza troppi riguardi dai centri urbani a causa dell’odore francamente nauseabondo che la produzione stessa comportava. Difficile sapere qualcosa della loro vita privata e ancora più difficile carpire qualcosa di più dei loro segreti di bottega. Ancor più difficoltoso per noi riconoscere che la nobile arte musicale si basò per millenni essenzialmente su tale rivoltante materiale: il budello animale.
Ai cordai va tuttavia riconosciuto il merito di aver reso possibile al suono da pizzico e da arco di esistere e di essere soprattutto controllabile e riproducibile. Quanto basta per permettere alla grandezza dei Bach, dei To r res, dei Sègovia, ma anche al semplice dilettante, di esprimere la propria poesia.
La spinta propulsiva data da Andrés Segovia allo sviluppo dei materiali di sintesi fu letteralmente irresistibile. Il Giorno del Giudizio per il budello era decisamente arrivato: dagli scritti del Maestro, in quegli anni frenetici densi di sperimentazione, traspare senza ombra di dubbio una vera e propria acredine da parte di un grande interprete, quale egli realmente era, che non ne poteva davvero più di corde che si sfilacciavano durante i concerti e, come se non bastasse, di costo elevato, qualità variabile e soggette alle bizzarrie climatiche: “Quelli della mia generazione che si sono dedicati, da professionisti o da dilettanti, alla chitarra ricorderanno come me quanto abbiamo tribolato quando avevamo soltanto c o rde di budello e di seta, malgrado i volonterosi sforzi dei direttori della Pirastro o di Herm a n n H a u s e r, ad esempio, che portarono i loro prodotti al massimo grado della perfezione per quei temp i . ” E ancora: “Mi irritavano sempre di più il suono stridente della prima, a volte piuttosto off e nsivo per un orecchio sensibile, la mancanza di dolcezza della seconda e il veramente ruvido e s c u ro timbro della terza. Il suono poi della quarta, quinta e sesta si spegneva subito.” Con Segovia insomma si chiude per sempre il millenario legame simbiotico degli strumenti musicali a pizzico ai materiali naturali quali budello e seta. Ma come succede spesso alle persone fortemente motivate verso una causa importante, egli si dimenticò di ricordare ai posteri le cose buone riposte in ciò che combatteva; nello specifico, la caratteristica che fa comunque del budello un materiale assolutamente unico, dotato quasi d’anima: la sua irresistibile tendenza alla “vocalità”. L’imitazione, cioè, della voce umana.
di corde di budello ad uso musicale sono soltanto tre, situati a Salle, Vicenza e Napoli.
le misurazioni qui riportate sono state da noi acquistate nel 2000 in un negozio di accessori musicali
di Vicenza.
- STEFANO GRONDONA – LUCA WALDNER,La chitarra di liuteria, L’Officina del Libro, Sondrio, 2001
- Basti pensare che a tutt’oggi in Italia i centri produttivi
di corde di budello ad uso musicale sono soltanto tre, situati a Salle, Vicenza e Napoli.
- LUIGI FORINO,Il violoncello, il violoncellista ed i violoncellisti,Hoepli, Milano, 1930, 2a ed., p. 55: “Le corde tedesche hanno il pregio della resistenza e, come tutti i prodotti di quella nazione, hanno anche quello del buon prezzo. Sono corde levigatissime, dure al tatto, tanto da sembrare di acciaio: anche il suono risente di tale durezza”.
- EMILIO PUJOL,Escuela Razonada de la Guitarra, basada en los principios de la técnica de Tárrega, Libro Primero,Ricordi Americana, Buenos Aires, 1934, p. 33. L’Escuela fu data alle stampe nel 1934 ma la sua stesura poteva risalire quasi certamente alla fine agli anni ’20. Le misure di corda riportate possono con tutta probabilità coprire anche tale periodo storico.
- CARL FLESH, The art of violin playing,2 voll., Fischer, New York, 1924-30 (edizione originale, DieKunst des Violinspiels, 2 voll., Ries, Berlin, 1924-8).
- La manifattura di corde particolarmente ‘dure’ potrebbe spiegarsi con il tentativo di aumentarne la durata e la stabilità di intonazione, seppur a discapito del suono. In tal senso devono essere forse interpretati la maggior parte dei brevetti sulla manifattura delle corde di budello di questo scorcio del secolo, soprattutto ad maggior parte dei brevetti sulla manifattura delle corde di budello di questo scorcio del secolo, soprattutto ad opera di ricercatori tedeschi opera di ricercatori tedeschi.
- ANDRÉS SEGOVIA,Guitar strings before and after Albert Augustine,“Society of the Classical Guitar”, New York, 15 October 1954.
- Vedere la Home Page della DuPont Company (www.DuPont.com) alla voce “Polyammide
- Comunicazione privata all’autore di Richard Cocco, presidente della E.O. Mari inc., anno 2001
- Vedere la Home Page della DuPont Company alla voce “tynex”.
- FRANZ JANHEL,Die Gitarre und ihr Bau, Verlag Das Musikinstrument, Frankfurt am Main, 1977
- Le confezioni di corde sulle quali abbiamo effettuato le misurazioni qui riportate sono state da noi acquistate nel 2000 in un negozio di accessori musicali di Vicenza.
Le Corde per Chitarra tra il Settecento e l’Avvento del Nylon (parte 3)
Le Corde per Chitarra tra il Settecento e l’Avvento del Nylon (parte 3)
Tipologie, tecniche manufatturiere e criteri di scelta
di Mimmo Peruffo
In questa terza parte del nostro studio prenderemo in esame le corde e i problemi inerenti alla loro manifattura durante il secolo XIX.
L’OTTOCENTO
Premessa
Cominciando ad analizzare la questione dei diametri e delle tensioni di lavoro della chitarra del XIX secolo viene spontaneo chiedersi perché, a differenza del violino e di altri strumenti a pizzico e ad arco, ben pochi metodi dell’Ottocento indichino le misure delle corde per chitarra, ad eccezione forse, in pieno XX secolo, di quello di Pujol. E ciò nonostante la grande diffusione che essa ebbe in quell’epoca. Va notato per inciso che persino nei metodi per mandolino di allora vi sono dei precisi suggerimenti per la scelta delle corde, e questo a partire già dalla seconda metà del XVIII secolo.75
Sor, ad esempio, dopo una lunga disquisizione circa la tecnica corretta di pizzicare le corde, si limita a riportare che il liutaio Manuel Martinez, dopo aver trovato le corrette dimensioni della chitarra per un cliente, si limitava a chiedergli se intendesse usare una montatura di corde leggere oppure forti e se preferisse un suono argentino o vellutato.76
Una spiegazione plausibile si è scoperta solo di recente e consiste nel fatto che i diametri in uso nel nostro strumento coincidevano totalmente con quelli del violino coevo (si parla delle prime tre corde, naturalmente) di cui oggi possediamo fortunatamente numerose informazioni.77 I chitarristi del XIX secolo, con ogni probabilità, consideravano questa totale simbiosi con il Re degli strumenti un fatto assolutamente acquisito, un patrimonio comune di conoscenza insomma: superfluo quindi trattarne l’argomento nei Metodi.
Un caso del tutto analogo lo si è riscontrato anche con la viola, la quale utilizzò la seconda, terza, e quarta corda del violino rispettivamente come prima, seconda e terza corda. La sola corda estranea al gruppo fu dunque la quarta che risultava filata come la terza. In virtù di questa consuetudine comune, nessun metodo o manuale, nel corso dell’Ottocento, si preoccupò di indicare i diametri di corda per la viola, poiché tutti sapevano già come comportarsi.
Con la transizione dagli ordini alle corde semplici la tensione di lavoro si elevò fino a raggiungere valori comparabili alla somma delletensioni data dalle due corde componenti ognisingolo coro della vecchia chitarra a cinque ordini. D’altro canto la sensazione tattile di rigidità sottointende, per forza di cose, quella fornita dalle
due corde dell’ordine assieme. E così, ad esempio, 3,3 kg circa di tensione per ogni corda del secondo ordine della chitarra di Stradivari equivalgono ad una singola corda di circa 6,6 kg (e questo si ripercuote parimenti anche sulla sensazione tattile di rigidità).
Per avere una risposta esauriente riguardo alle prime tre corde in minugia del nostro strumento, bisogna rivolgere l’attenzione (ancor più di prima) al violino. E questo, prendendo sì in considerazione la trattatistica musicale del tempo – come già fatto da altri ricercatori – ma suggerendo un angolo di visione alquanto diverso dal consueto, che tratti cioè con particolare attenzione le informazioni tecniche che ci sono pervenute dai cordai. Infatti, al di là di quanto può essere stato scritto nei trattati e nei metodi per violino, furono comunque i cordai che alla fine stabilirono (ma forse è meglio dire imposero) i diametri commerciali delle corde del loro tempo, dato indissolubilmente legato al numero di budelli di cui è costituita una corda. Le informazioni in nostro possesso per il violino del XIX secolo sono riassunte nella tabella
qui sotto riportata. Dalla tabella risulta evidente che il cantino – anche in pieno Ottocento – veniva realizzato a partire generalmente da tre budelli di agnello interi (ma talvolta anche quattro, se erano più sottili in partenza) per un diametro finale compreso mediamente tra 0,65 e 0,73 mm: esattamente come nel XVIII secolo.78
Questa stessa linea di tendenza, e cioè l’impiego di tre/quattro budelli interi per fabbricare il Mi del violino, continuò ininterrottamente per tutto il XIX secolo. Ecco quanto riportato dal Maugin,79 il quale riprende le informazioni rilasciate dal grande cordaio francese di origini napoletane Henry Savaresse:
“Les chantarelles se composent de 4, 5, ou 6 fils, selon la grosseur du boyau, et chaque fil est formé d’une moitié de boyau divisé dans sa longueur. Les mi de violon ont de 3 à 4 fils pleins, mais très fins. Les la en ont le meme nombre, mais plus forts. Quant aux re, ils en ont de 6 à 7 pleins.” [I cantini sono composti da 4, 5 o 6 fili a seconda della grossezza del budello e ciascun filo è formato da una metà di budello diviso in senso lungitudinale. I Mi del violino hanno da 3 a 4 fili pieni ma molto fini. I La hanno lo stesso numero di fili ma più forti. Quanto ai Re, ne hanno da 6 a 7 pieni.]
Philippe Savaresse nel 1874 scrisse:80
“On a longtemps attribué la supériorité des cordes de Naples aux secrets de fabrique, plus tard on l’a attribuée à la petite espèce de moutons qui permettait de faire les chantarelles à trois fils […] La chantarelle ayant trois fils, si les autres cordes sont faites avec les mêmes intestins, la seconde aura 5 ou 6 fils et la troisieme 8 et 9. […]” [Per molto tempo la superiorità delle corde napoletane veniva attribuita ai segreti della loro manifattura, più tardi è stata attribuita alla razza piccola di agnelli che permetteva di fare cantini con tre fili […] Se il cantino ha tre fili e le altre corde sono fatte degli stessi intestini, la seconda corda avrà 5 o 6 fili e la terza 8 o 9. [ … ]
È evidente che laddove il budello sia stato tagliato nel mezzo si renda allora necessario accoppiare un numero doppio di fili. Le informazioni sulla manifattura delle corde riportate dal Maugin furono riprese pari pari da altri metodi del tardo Ottocento81 e anche dal manuale Hoepli dell’Angeloni.82
La seconda e la terza corda erano costituite rispettivamente da 5 e 9 budelli.
Non bisogna dimenticare che il calibro di corde realizzate dalla stessa quantità di budelli non può risultare identico per tutte. Una certa sua oscillazione rispetto ad un valore medio è infatti normale, dato che i singoli budelli – essendo un prodotto naturale – non sono mai perfettamente eguali tra loro. Questo è un punto fondamentale oggi scarsamente noto e che è giunto il momento di chiarire.
A differenza di oggi, dove le corde di budello vengono prodotte secondo una grande varietà di misure commerciali e il cui incremento segue una pro g ressione costante imposta per mezzo di una rettifica meccanica di precisione (ad esempio 0,60 mm; 0,62 mm; 0,64 mm e così via), il calibro finale delle corde del XIX secolo e parte del secolo seguente fu determinato esclusivamente dal numero di budelli accoppiati per re a l i z z a re una corda e n o n dal trattamento di levigatura conclusivo del ciclo di lavorazione, il quale serviva soltanto a lisciare un po’ la corda grezza .
Come riportato da alcuni documenti,83 le corde in commercio erano contraddistinte, oltre che dal marchio che ne indicava la zona di provenienza manifatturiera, anche da una numerazione progressiva che indicava il numero di “fili” di budello di cui erano costituite.
Da sempre i cordai si prendevano cura di standardizzare il più possibile la qualità dei budelli da utilizzare (ricercando materiale proveniente da agnelli della stessa età, razza e zona di provenienza e infine selezionando accuratamente i budelli prima di abbinarli tra loro). Tuttavia una qualche incertezza – o, meglio, oscillazione – del calibro finale risultava inevitabile e a ciò non si poteva assolutamente porre rimedio – si diceva – con la levigatura manuale (che non è un’operazione di rettifica meccanizzata del materiale): vi era infatti il rischio tangibile di rendere falsa la corda per la difficoltà di mantenere manualmente una perfetta e uniforme pressione della mano in fase di levigatura con la pomice abrasiva. In queste botteghe non si disponeva certo del micro metro per un controllo finale della qualità del prodotto.
Corde fatte da uno stesso numero di budelli avevano dunque una varietà di diametri che può risultare ben rappresentata da una curva a campana detta gaussiana (in altre parole la maggior parte delle corde si situava intorno ad un determinato diametro “sfrangiando” a coda un po’ verso quelli più sottili e un po’ verso quelli più grossi). L’abilità del cordaio consisteva quindi anche nel fatto che in una sua confezione contrassegnata ad esempio dal numero “tre” vi fosse una scarsa variazione del diametro medio, oltre a una certa riproducibilità dello stesso anche in partite di produzione realizzate in tempi diversi. Questo aspetto era molto apprezzato dai musicisti del tempo e non è difficile capire il perché: immaginiamo il disagio che anche noi proveremmo se dovessimo trovare corde di calibri ogni volta diversi nella usuale confezione della nostra marca preferita.
Un’idea dell’ampiezza della differenza di calibro che si poteva ottenere da corde fatte a partire da uno stesso numero di budelli la si può dedurre, come già accennato in precedenza, dagli estremi dei diametri dei tre gradi di tensione del violino suggeriti da Giorgio Hart: per il cantino 0,65-0,73 mm.84 Questo dato fornisce di conseguenza anche un’indicazione dell’escursione del diametro della prima corda di chitarra del tempo, oltre all’ampiezza della ‘finestra’ di tensione di lavoro a disposizione dei chitarristi.
Come già accennato nella precedente puntata, risulta intuitivo comprendere che mano a mano che il numero di budelli da accoppiare si incrementa – al fine di ottenere maggiori spessori – l’ampiezza della variazione del calibro prodotto decresce rapidamente a causa dell’effetto di “mediazione” indotto dai numerosi budelli accoppiati
e così pure lo scarto di calibro esistente tra due corde attigue per numero di budelli.
Tensione scalare e sensazione tattile di rigidità
Ad un occhio attento non sarà certo sfuggito che le tensioni di lavoro che derivano dai calibri riportati in tabella non conducono affatto , nel violino, ad un profilo in eguale tensione – cioè eguali kg – bensì ad un profilo di tipo scalare (Grafico 1). Sorge spontaneo chiedersi quale segreto si nasconda dietro questo particolare andamento della tensione di lavoro: finora infatti abbiamo trattato soltanto la diff e renza esistente tra una montatura in eguale tensione e quella di eguale sensazione sotto le dita, specificando che è quest’ultimo in realtà l’elemento ricercato dal musicista. La risposta è costituita dal fatto che la tensione scalare è la sola in grado di realizzare nel concreto il concetto di eguale sensazione tattile di rigidità sotto le dita inseguito fino alla noia dai trattati del Seicento e oltre .
La scalarità della tensione di lavoro infatti si manifesta al tatto mediante una sensazione di eguale tensione tra le corde e questo perché essa, riducendosi progressivamente, va a compensare l’aumento di rigidità tattile che si riscontrerebbe in corde via via più grosse. In una montatura in eguali kg, infatti, le corde più spesse sotto una eguale pressione delle dita tendono a flettersi meno delle sottili e questo a causa della loro ridotta attitudine ad allungarsi. Questo causa pertanto l’impressione empirica che esse siano più tese delle più acute. Scalando progressivamente la tensione si riesce dunque a compensare questo effetto, rendendo pertanto più omogenea la sensazione prodotta dai diversi calibri in uso sullo strumento. Le corde, in altre parole, sembreranno egualmente tese.
L’applicazione del profilo scalare di tensione si riscontra fortemente soprattutto nei set attuali per chitarra tra corde di natura omogenea (in altre parole o tra i bassi o tra i canti), come analizzeremo con maggiore dettaglio nella quarta e ultima parte di questo studio. Nel Grafico 2 vengono riportati gli allungamenti specifici di corde di diverso diametro e tipologia: osserviamo che il grado di pendenza delle curve dei calibri più sottili è maggiore di quello delle corde più grosse; il rapporto tra il grado di pendenza delle curve conduce direttamente al rapporto tra le sensazioni tattili di rigidità.
Si evidenzia che il profilo scalare di tensione risulta molto accentuato nel violino, che è accordato per quinte. Invece, nella chitarra, che è accordata per intervalli di quarta e terza, l’effetto di scalarità della tensione di lavoro dato dallo stesso gruppo di corde risulta molto meno accentuato, se non addirittura nullo. Di conseguenza, se nel violino l’accentuata scalarità porta al riscontro soggettivo di una omogenea sensazione tattile di rigidità, nella chitarra – che non è accordata per quinte – si rileva invece un certo, inevitabile incremento di rigidità tattile mano a mano che si prosegue verso la terza corda.

Tipologie e diametri delle corde
Le tipologie di corda per chitarra a disposizione a partire dagli inizi dell’Ottocento fino alla metà del Novecento si possono riassumere in due classi principali che, nella sostanza (materiali a parte), sono rimaste invariate fino al giorno d’oggi: quelle in budello naturale oliato ad uso dei tre registri acuti e le tre corde filate in seta per i bassi. Rispetto al Settecento si può osservare che sono praticamente scomparse di scena le corde demifilée (cioè con filatura metallica a spire non accostate) rendendo pertanto potenzialmente più problematico il raccordo timbrico e dinamico tra la terza corda in budello naturale (che è la più ‘ovattata’) e la seguente filata (che è invece la più brillante delle tre basse), aspetto ancor oggi assai evidente nella chitarra e solo in parte colmato con l’impiego di una terza corda filata o in fluorocarbonio.
Compare dunque in scena la seta. Non che essa fosse sconosciuta ai musicisti del Settecento (vedi Corrette, ad esempio) o anche del Seicento,85 ma la preferenza andava da sempre principalmente al budello anche per realizzare le anime dei bassi. Va sottolineato che la resa acustica di una corda in seta rivestita risulta in qualche modo superiore a quella di una corda con anima di budello, come evidenziato anche da nostre sperimentazioni (senza considerare in aggiunta il problema delle vibrazioni parassite dovute al filo metallico che sbatte contro l’anima di minugia, difetto tipico nei climi particolarmente secchi).

Questo fatto, ossia la migliore resa acustica, potrebbe essere stato l’impulso decisivo per la transizione verso le corde semplici e per l’accorciamento della lunghezza vibrante dello strumento.
Prima di trattare l’argomento dei diametri in uso si rende necessario chiarire l’evoluzione della lunghezza vibrante e della frequenza del corista; parametri indispensabili – assieme al diametro delle corde – per poter dedurre qualcosa di significativo sulle tensioni di lavoro.
La lunghezza vibrante
Dopo l’aggiunta della sesta corda e l’eliminazione degli ordini in favore delle corde singole e fino alla comparsa delle chitarre “maggiorate” di Torres (seconda metà del XIX secolo), la lunghezza vibrante dello strumento a sei corde singole si attestò intorno a 63 cm ± 1 cm, come evidenziato anche da Aguado nel suo Metodo (27 pulgadas, cioè circa 62 cm)86 e come traspare in numerosi strumenti d’epoca sopravissuti, sia di manifattura italiana che estera.87
Come già accennato, va notata la relazione proporzionale esistente tra la lunghezza vibrante della chitarra e quella del violino (32 cm circ a ) : il violino, essendo accordato un’ottava più acuta, possiede per l’appunto una lunghezza vibrante pari a circa la metà di quella della chitarra. Così, se non fosse per il diverso intervallo esistente tra le corde, la chitarra avrebbe – nei tre acuti – le medesime tensioni di lavoro.
Il corista
Il secondo elemento da pre n d e re in considerazione riguarda la varietà dei coristi in uso nel corso del XIX secolo, in altre parole la frequenza standard del La. Gervasoni ad esempio aff e rmò che
“Non in tutte le Città il tono volgarmente detto Corista si trova uguale, ma bensì nell’une si riconosce questo più alto o più basso che nell’altre.
Il Corista di Roma è difatto molto più basso di quello di Milano, Pavia, Parma, Piacenza e di tutte le altre Città della Lombardia: ed il Corista di Parigi poi non solo cresce oltre il Corista Romano, ma molto ancora oltre il Lombardo. Un Corista di mezzo, e più generalmente abbracciato, egli è pertanto quello della Lombardia: ed è questo infatti, poco più o meno, s’accostano i Coristi di varie Provincie.” 88
Nonostante il fatto che il 16 febbraio del 1859 il governo francese, per primo in Europa, avesse deciso con un decreto imperiale di fare chiarezza nella giungla dei coristi fissando il La a 435 H z ,89 in realtà esso oscillò sempre notevolmente e non solo tra Stato e Stato, ma anche nel medesimo luogo in un diverso arco di tempo.
Il supposto corista ottocentesco (pari a 435 Hz) oggi così largamente diffuso, risulta evidentemente più una chimera che la realtà dei fatti, e questo è sicuramente vero fino alla seconda metà del XIX secolo. In una lettera del febbraio 1884 lo stesso Giuseppe Verdi suggerì al governo italiano di seguire l’esempio francese:
“Signore, fin da quando venne adottato in Francia il diapason normale, io consigliai venisse seguito l’esempio anche da noi; e domandai formalmente alle orchestre di diverse città d’Italia, tra le altre a quella della Scala, di abbassare il corista uniformandosi al normale francese.’”
Con il Congresso di Vienna del 1885 il corista venne ufficialmente fissato a 870 vibrazioni semplici, cioè 435 Hz doppie, indicazione ripresa anche dal governo italiano nel 1887, ma nella realtà dei fatti le fluttuazioni del corista continuarono indisturbate. Solo con la riunione indetta nel 1939 dall’ISO venne per la prima volta proposto un corista standard di 440 Hz. Il resto è storia recente.90 Al fine di poter eseguire una stima delle tensioni di lavoro della chitarra di questo periodo, si riterrà comunque valido un valore fittizio di 435 Hz per il La. Le frequenze che ne risultano sono dunque le seguenti:
mi: 325,9 Hz
si: 244,0 Hz
sol: 193,8 Hz
Re: 145,2 Hz
La: 108,7 Hz
Mi: 81,5 Hz
Come si accennava in precedenza, i calibri delle tre corde più acute della chitarra dell’Ottocento furono gli stessi del violino coevo, rimandandoci così alle indicazioni di Stradivari e di Corrette, che per primi relazionarono il violino alla chitarra. Ecco ad esempio quanto recita il Metodo del Castellacci:91
‘Note pour la grosseur des cordes’
– Cordes de boyaux:
3e corde du N° 9
2e corde du N° 7
1ere corde du N° 4, à quatre fils.
Castellacci fornisce il numero di budelli da impiegare per realizzare le corde, indicazione straordinariamente identica, nelle proporzioni, al numero di budelli (o ‘fili’) da accoppiare per ottenere rispettivamente le tre corde superiori del violino coevo.
Pertanto se si considera – in base alla tabella riportata a p. 12 – un diametro medio di 0,68 mm ottenibile da quattro budelli per il cantino, allora 7 fili prendono in proporzione 0,90 mm, mentre 9 fili sono pari a 1,02 mm: ovvero i rapporti tipici delle corde del violino che, se si segue l’accordatura per quinte tipica degli archi, conducono ad un profilo in tensione scalare curiosamente coincidente – per grado di scalarità – con quello degli attuali set per chitarra.
Il Metodo del polacco Romuald Truskolaski, pubblicato a Varsavia intorno al 1830-50,92 è ancora più esplicito nel sottolineare il legame esistente tra il violino e la chitarra: “…le seguenti [le prime tre corde, n.d.r.] sono grosse come quelle del violino, e nella chitarra sono chiamate sol, si, mi.”
In virtù di quanto affermato, le prime tre corde della chitarra dovevano possedere quindi l’escursione dei diametri in uso generale per il violino (vedi tabella a p. 14) e cioè:
1° mi: 0,66-0,73 mm (valore medio 0,69 mm).
2° si: 0,85-0,91 mm (valore medio 0,88 mm).
3° sol: 1,10-1,25 mm (valore medio 1,17 mm).
Al fine di poter compiere un primo, utile paragone con le corde di oggi, ecco anticipati i diametri tipici delle corde di nylon che si riscontrano in diversi set commerciali:
1° mi: 0,71-0,73 mm (valore medio 0,72 mm)= 0,65 mm (se fosse di budello)
2° si: 0,83-0,85 mm (valore medio 0,84 mm)= 0,77 mm (se fosse di budello)
3° sol: 1,01-1,07 mm (valore medio 1,04 mm)= 0,94 mm (se fosse di budello)
Ecco i valori medi di tensione che ne derivano (Lunghezza vibrante 65 cm; corista 440 Hz):
1° mi (329,6 Hz): 8,0 Kg
2° si (247,0 Hz): 6,4 Kg
3° sol (196,0 Hz): 6,0 Kg
Il valore medio dei calibri della prima tabella riprende quasi esattamente i calibri commerciali del Ruffini (1880). Andrea Ruffini fu probabilmente il più grande cordaio italiano del tardo Ottocento. Abruzzese di Salle, egli aveva una forte produzione di corde musicali a Napoli e in parte anche nel paese di origine. Il suo mercato fu piuttosto florido: smerciava corde in tutta Europa, ma specialmente nella Londra vittoriana, seconda patria, come è noto, di numerosi chitarristi.93 Considerando ora una lunghezza vibrante di 62 cm e un corista di 435 Hz, si ricava la finestra delle tensioni di lavoro:
1° mi (325,9 Hz): 7,4-9,0 Kg (8,2 Kg media)
2° si (244,0 Hz): 6,9-7,9 Kg (7,4 Kg media)
3° sol (193,8 Hz): 7,4-9,3 Kg (8,2 Kg media)
Valore medio =7,8 Kg
Ammettendo che il valore medio della tensione risulti valido anche per i tre i bassi, si ricava una tensione totale di 46,8 Kg, in sintonia con le indicazioni di Aguado, che indicò un carico globale pari a 80 o 90 pounds, cioè 39-44 Kg (1 pound=489,5 gr; cfr. HO R A C E DO U R S H E R, Dictionnaire universel des poids et measures…, Antwerp, 1840; facsimile, Amsterdam, 1965), pari rispettivamente all’83% e 94% di quanto da noi calcolato. Va tenuta in debita considerazione la pura indicatività – anche se significativa – di questi valori numerici, soprattutto se si considera il fatto che, mentre ci è nota almeno la misura della lunghezza vibrante della chitarra di Aguado, non conosciamo affatto il corista a cui egli si riferiva. Questo può influire largamente sull’oscillazione della tensione di lavoro, che nel caso di una variazione di frequenza pari a ± un semitono risulta di ± 0,97 kg. Come si può osservare si tratta di tensioni di lavoro comunque superiori ad ogni aspettativa e piuttosto simili – se non superiori – alle nostre attuali, profilo di tensione a parte (come poi vedremo). Il metodo di Maugin & Maigne, la cui sezione sulle corde è stata aggiunta nel 1869, riporta quanto segue:
“Pour les cordes de guitare, on emploie des fils plus fins que pour celles de violon.” [Per le corde della chitarra si usano fili più sottili rispetto a quelli del violino.]94
Poiché le indicazioni fornite sulla costruzione delle corde del violino – Mi: 3-4 fili di budello intero, La: lo stesso numero ma più grossi oppure 5 fili dello stesso budello; Re: sette/nove fili – viene spontaneo chiedersi come mai, per Maugin e Maigne, la prima corda della chitarra prenda sì lo stesso numero di budelli del violino, ma di una qualità un po’ più sottile. Perché non farle allora con lo stesso tipo di budello utilizzato per le corde del violino, ma con meno fili? Due ad esempio, nel caso del cantino.
La spiegazione più plausibile potrebbe consistere nel fatto che, se con tre fili ci si attesta intorno a 0,70 mm, con due fili dello stesso budello si andrebbe solamente a circa 0,58 mm: un calibro forse un po’ troppo leggero per i criteri del tempo. Pertanto, soltanto tre fili di un budello un po’ più sottile del consueto potevano garantire un diametro intermedio utile alla chitarra e cioè, nel nostro esempio, pari a 0,64 mm (la media tra 0,58 e 0,70 mm, cioè tra due e tre fili di budello rispettivamente).
Le altre corde (Si e Sol) seguivano ovviamente in proporzione. Per puro esercizio possiamo tentare una stima delle tensioni di lavoro di una chitarra di 62 cm di lunghezza vibrante al corista francese di 435 Hz (come fissato in Francia nel 1859), per i calibri che in proporzione seguano il profilo di tensione scalare tipico del violino a partire da un cantino di 0,64 mm:
mi 0,64 mm: 7,0 Kg
si 0,85 mm: 6,9 Kg
sol 1,09 mm: 7,1 Kg
Non si sottolineerà forse mai abbastanza al chitarrista moderno, abituato alla precisione e alla riproducibilità manifatturiera delle corde sintetiche, il fatto che i dati da noi riportati non vanno presi alla lettera, ma intesi come valori indicativi, siano essi diametri o tensioni. In questo caso la tensione di lavoro raggiunge una media di 7,0 Kg per un valore totale delle sei corde (qualora i bassi filati seguano i criteri delle tre più acute in budello) pari a 42 Kg, richiamando ancora una volta alla mente Aguado.
Misure di spezzoni di corde del XIX secolo
Questo argomento appare subito piuttosto interessante perché il ritrovamento di campioni di corda originali permette non solo di poterne ricavare il diametro (misure che possono pertanto confermare o smentire l’interpretazione della documentazione del tempo) ma consente anche una valutazione visiva ed analitica delle stesse; in particolare la quantità di torsione impartita al budello, il grado di finitura superficiale etc.
Il vero problema consiste nella datazione certa dei campioni: un autentico scoglio. Infatti, una datazione per mezzo di radioisotopi (metodo di per sé a carattere distruttivo) non è praticabile a causa dell’esiguo lasso di tempo trascorso. Comunque, in base ai diversi campioni raccolti sia per violino che per chitarra – alcuni ritrovati ancora nelle loro confezioni originali – possiamo affermare che essi vanno sostanzialmente a confermare l’esattezza di quanto sinora elaborato dagli antichi documenti e dalle prove sperimentali. In merito ai campioni di corda ritrovati, quelli di Paganini (1782-1840) costituiscono di gran lunga – e sotto tutti i punti di vista – il reperto più recente ed interessante tra quelli componenti il lascito. Tali reperti95 consistono in un ponticello da violino, due archi (di cui uno rotto in più punti), una confezione di pece di manifattura Vuillaume e un rotolo di corde di budello [vedi foto] in discreto stato di conservazione. 96
La nostra attenzione si concentra su questo ultimo reperto, il quale rappresenta forse il primo se non unico caso esistente al mondo di campioni di corde di budello antiche la cui datazione sia certa, risalente in altre parole ai primi decenni del XIX secolo. Il materiale da noi visionato nell’aprile del 2001 era conservato in una busta timbrata “Cartoleria Rubartelli Genova”, con sigillo in ceralacca rossa con impresso il simbolo del comune di Genova e una dicitura manoscritta in inchiostro nero: “Corde e ponticello che t rovansi sul violino di Paganini all’atto della consegna al municipio”. All’interno si tro v a v a una busta, realizzata con un foglio piegato in due, con una seconda dicitura manoscritta in inc h i o s t ro: “Antiche corde del Violino di Nicolò Paganini’.97

I calibri delle corde sono stati quindi da noi misurati per mezzo di micrometro e le misure hanno confermato pienamente i diametri tipici del tempo di cui alla tabella di p. 12. Come evidenziato dal compianto Edward Neill,98 Paganini già in alcune sue missive fornì interessanti dettagli in merito alle corde da lui utilizzate sul violino:
“Ho bisogno di un favore: ponetevi tutta la cura, e la diligenza. Mi mancano i cantini. Io li desidero sottilissimi […] . Quantunque tanto sottili devono essere di 4 fila per resistere. Badate che la corda sia liscia, uguale, e ben tirata […] Vi supplico di sorvegliare i fabbricanti e di far presto e bene.”
In una lettera spedita poco prima da Napoli all’amico e confidente Germi, datata 29 maggio 1829, così si legge:
“Il tuo Paganini desidera sapere […] quanti mazzi di cantini e quanti di seconde, e a quante fila si desiderano da Napoli, perché ora si avvicina il mese di Agosto, epoca giusta per fabbricar le corde”.99
Sembrerà strano, ma l’importanza di questo reperto non riguarda tanto il fatto che le corde siano appartenute al grande violinista quanto semmai il fatto che siano sicuramente databili e… per violino (cioè… per chitarra!). Non è inverosimile infatti pensare che questi stessi calibri fossero utilizzati (possiamo dire sicuramente?) anche per il nostro strumento, visto che Paganini ne era un più che discreto cultore. Le corde del ritrovamento, colorate in giallo-paglia, fragili, leggermente rugose e integre, cioè mai utilizzate, si possono presumibilmente riassumere in due Re, tre La, due Mi da violino.
Le corde di Mi sono realizzate in media torsione, mentre quelle di La e Re decisamente in alta torsione: in queste circostanze una corda di budello si presenta discretamente elastica; non stupisce affatto che esse dovettero manifestare al meglio le proprietà acustiche.
Ecco i diametri:
Corda Mi Diametro 0.70-0.72 mm Osservazioni Media torsione
Corda La Diametro 0.87-0.89 mm Osservazioni Alta torsione
Corda La Diametro * 0.80-0,83 mm Osservazioni Alta torsione
Corda Re Diametro 1.15-1.16 mm Osservazioni Alta torsione
* questa misura si è presentata soltanto in un solo spezzone di corda
Come si può notare, manca la quarta corda, che al tempo era la sola ad essere filata. La cosa non deve però stupire, poiché, come di consueto per l’epoca, essa veniva realizzata a parte dai liutai stessi (se non proprio dagli stessi musicisti) utilizzando una seconda un po’ sottile poi rivestita di filo d’argento o altro metallo meno nobile.100
Ecco ora riportate le misure di alcuni campioni di corde di budello ritrovati nella custodia di una chitarra costruita da Louis Panormo nel 1845 (lunghezza vibrante = 63,3 cm) di collezione privata:
Corda mi Diametro 0,59 mm Osservazioni Media torsione
Corda si Diametro 0,83 mm Osservazioni Alta torsione
Corda sol Diametro 1,14 mm Osservazioni Alta torsione
Per quanto riguarda la corda di Mi, si è riscontrato che essa non risulta affatto coerente, nel suo aspetto visivo e nella manifattura, alla seconda e terza corda: si tratta probabilmente di un’aggiunta successiva. Una datazione certa di queste corde non è possibile, anche se il proprietario assicura che la chitarra in questione rimase per molto tempo – forse un centinaio d’anni – inutilizzata entro la custodia originale.
Può forse servire come utile traccia il fatto che gli estremi delle corde filate (dotate di nodo da un lato e dall’altro capo di una spaziatura della filatura) non permetterebbero di coprire una lunghezza vibrante maggiore di 64 cm: si possono quindi escludere montature per chitarre del “dopo Torres”. Resta comunque il fatto che i calibri in questione – cantino a parte – risultano in linea con le informazioni del XIX secolo. L’analogia dei calibri di Si e di Sol con quelli del reperto paganiniano (il La e il Re) risulta evidente.
I bassi filati nel XIX secolo
Per realizzare le corde filate ci si serviva di un’apposita macchina a movimento manuale101 (come quella rappresentata nella prima puntata ne “il Fronimo” n. 117, p. 28) in uso almeno fino alla fine del XIX secolo e sostituita poi da macchinari a filatura automatica o da macchine ancora di tipo manuale ma con trazione sincronizzata proveniente da entrambi i ganci di supporto del multifilamento in tensione (vedi foto qui sotto). Con il sistema in uso nel XVIII e XIX secolo – ruotante da un solo lato – la giusta quantità di bava di seta veniva fissata ad un gancio fisso ad un capo; l’altro capo si fissava ad un altro gancio collegato ad un peso, che garantiva la messa in trazione del materiale, consentendo però allo stesso tempo la libertà di rotazione mediante un giunto lubrificato di collegamento. A questo punto l’operaio poteva avvolgere le spire del filo metallico mettendo in rotazione l’anima di seta per mezzo della ruota con manovella.
Interessante la tecnica di deposizione dell’argento sul filo di rame – qualche micron di spessore – mediante semplice spostamento chimico: il procedimento galvanico non era ancora stato inventato, poiché cominciò a pre n d e re piede verso la metà del secolo successivo.102
Essendo le corde rivestite costituite dall’accoppiamento di materiali di natura eterogenea come metallo e seta, si è convenuto di caratterizzarle in termini di budello equivalente: ci si riferisce in pratica al diametro di una corda di budello teorica che possiede lo stesso peso della corda filata per lunghezza unitaria; in queste condizioni si può quindi determinarne il calibro per mezzo di formule matematiche specifiche. Alla stessa intonazione e lunghezza vibrante si avrà pertanto la stessa tensione di lavoro. Ma attenzione, seppur a parità di budello equivalente, si possono ottenere innumerevoli rapporti tra la quantità di metallo e quella della seta. Ovvio che all’aumentare dell’uno corrisponda il calare dell’altro, al fine di mantenere costante il peso totale della corda; in altre parole il suo ‘budello equivalente’. Maggiore sarà la prevalenza della seta rispetto al metallo e più la sonorità tenderà ad essere opaca e scarsamente brillante. L’esatto contrario nel caso vi sia più metallo.
Con quali criteri di scelta fu deciso il giusto rapporto tra metallo e seta nei bassi, così da garantire una resa timbrica e dinamica equilibrata? Nella chitarra, a diff e renza degli strumenti ad arco, questa scelta non lasciò molto margine : una volta decisa quale fosse la tensione di lavoro (in altre parole il diametro equivalente della corda filata) si sceglievano le proporzioni tra metallo e seta per ottenere la maggiore resa dinamica da parte della corda; a questo scopo si sceglieva il filo più grosso possibile e si riduceva al minimo la quantità di seta fino quasi al limite del carico di rottura: in altre parole si puntava ad avere la massima prevalenza del metallo rispetto al ‘core’. Solo in queste condizioni le corde dei bassi potevano fornire la massima resa dinamica. Nonostante questo accorgimento, le corde filate su seta – anche se ritrovate intatte nella loro confezione – appaiono alle nostre orecchie piuttosto percussive e povere di armonici superiori. Per quanto riguarda il metallo impiegato per la filatura, va sottolineata la scelta pressoché esclusiva del rame argentato: normale rame cui in superficie è stato depositato un leggero rivestimento d’argento per preservare al meglio il rame dalla rapida ossidazione, accentuata per giunta dal sudore e dall’umidità proprie delle dita del suonatore. Va quindi sfatato “il mito” che una sottile ricopertura d’argento serva a migliorare il suono del rame nudo. La scelta del rame come materiale di base si giustifica con il fatto che era il metallo che coniugava – ieri come oggi – il più alto peso specifico al minor costo possibile. Questo si traduceva in un filo di ridotta sezione. Qualcuno, al tempo, poteva certamente utilizzare con vantaggio l’argento puro (si impiegava pertanto un filo di minor diametro), ma in tal caso i costi lievitavano notevolmente. Ta l i considerazioni valgono anche per le corde basse da chitarra del giorno d’oggi.103 Ecco ora i suggerimenti di Jean Baptiste Phillis (1804):104

“Je ne saurois trop reccomander aux Amatours de bien monter leurs instruments; car la négligence de le faire a toujours existé et déprecié la Guitarre. Il ne faut pas que les Cordes filées soient trop chargées de Soye; cela les assourdit et empêche la vibration.” [Non potrò mai raccommandare abbastanza agli Amatori di incordare bene i loro strumenti; poiché la negligenza verso questo aspetto è sempre esistita e ha sempre penalizzato la chitarra. Le corde filate non devono essere troppo cariche di seta perché questo le rende sorde e impedisce le vibrazioni.]
Per quanto riguarda il calibro del filo di metallo (o “gauge”) da adoperare: “On doit faire filer le Re du trait N° 15, le La du trait N° 13 et le Mi du trait N° 12. Les sons alors en seront parfait’.
Vediamo ora Romuald Truskolaski:105
‘Troppa seta fa la corda troppo grossa, quindi essa ha un tono piatto e corto’.
E ancora:“ …la prima corda E deve essere filata con il N° 10, la seconda A con N° 13, la terza D con il N° 18.’”
E ora Castellacci:106
Cordes de soie 6e Brins de soie 10 Trait pour filer la corde N° 10
Cordes de soie 5e Brins de soie 8 Trait pour filer la corde N° 12
Cordes de soie 4e Brins de soie 6 Trait pour filer la corde N° 16
Assolutamente interessante – e unico nel suo genere – il riferimento alla quantità di fili di seta da utilizzare come anima delle corde rivestite. Mentre i bassi moderni mantengono costante lo spessore del multifilamento tra tutte le corde, nel caso di Castellacci esso invece aumenta mano a mano che si scende verso quelle più gravi. Questo si traduce in una resa acustica sempre più ovattata. Si osserva in aggiunta che la variazione di diametro esistente tra i vari fili metallici componenti l’avvolgimento per il Re, per il La e per il Mi risulta meno accentuata rispetto ai criteri dei bassi attuali. Va infine rilevato che non è ancora noto a cosa corrisponderebbe un “brin” (cioè un filo) di seta secondo i criteri tecnici attuali; vale a dire in Dtx (decitex) o in “Denari”, che sono entrambi delle unità di misura dei filati.
Per quanto riguarda la conversione dei numeri di “gauge” dei fili metallici di questi esempi in millimetri, le ricerche finora compiute non hanno portato purtroppo ad alcun esito positivo, anche perché la numerazione dei gauges risulta qui stranamente invertita rispetto alla consuetudine, vale a dire che all’ingrossarsi del diametro del filo, corrisponde una diminuzione della numerazione.107
Così non si sa se questi autori si riferissero al filo d’argento puro o al rame argentato, anche se l’esame di antichi spezzoni di corda e la documentazione reperita fanno propendere verso il secondo materiale.
Vediamo ora le caratteristiche delle corde filate ritrovate sulla Panormo prima citata. La lunghezza di corda filata compresa tra il nodo presente in un tratto finale (che serviva per fissare la corda tramite piolini al ponte) e quello opposto dove il filo si allarga non permette di coprire la lunghezza necessaria a chitarre con 65 cm di lunghezza vibrante (come quelle apparse qualche decennio dopo), facendo presagire che si tratti di campioni originali per questo tipo di chitarra.
Re ø esterno / ø filo/ ø budello equiv./
La ø esterno1,08 mm ø filo 0,18 mm* ø budello equiv. 2,04 mm (seta verde)
Mi ø esterno 1,26 mm ø filo 0,26 mm* ø budello equiv. 2,50 mm (seta gialla)
* Il diametro di partenza del filo, che è in rame argentato, risulta essere superiore di almeno il 10%. Questo accade a causa dell’allungamento che il filo subisce
durante la fase di filatura della corda.
In base alla nostra sperimentazione, i fili originari di partenza dovrebbero essere stati compresi tra 0,20-0,22 mm per il La e 0,30-0,33 mm per il Mi.
Considerando i valori di diametro espressi come “budello equivalente”, è possibile ricavare il valore complessivo della tensione di lavoro delle corde della chitarra Panormo per un corista pari a 435 Hz:
mi: 6,1 kg**
si : 6,8 kg
sol: 8,0 kg
Re: / La: 8,1 kg
Mi: 6,7 kg
** Per un migliore allineamento della tensione del cantino (in pratica almeno 8 kg di tensione ) ci si deve aspettare un diametro di almeno 0,68 mm. È comunque chiaro che ne risulta sostanzialmente un profilo di eguale tensione per un totale di circa 45 kg, il che conferma i dati citati in precedenza e, ancora una volta, Aguado.
Interessante osservare che a partire da questo periodo le corde per chitarra cominciarono probabilmente ad essere confezionate in buste specifiche e non più in mazzi di corde arrotolate, e una prima avvisaglia di una certa autonomia rispetto alle confezioni per violino si può riscontrare forse in un catalogo di Luigi Forni datato 1867:
“-Corde da Chitarra Italiana alla dozzina…………..…
-Da 30 al mazzo di Roma, Napoli a 2.3.4. fila a 2.3.4. tirate.…….…
-Nazionali delle migliori fabbriche……………..
-da contrabasso ramate e non ramate cad………..…..”.
Va sottolineato che fino ad almeno la fine del XIX secolo le corde non si vendevano una per bustina, bensì a mazzi di corde composte dallo stesso numero di fili.
CONCLUSIONI
La documentazione storica reperita dimostra con chiarezza che la chitarra del XIX secolo seguiva in generale dei principi profondamente diversi da quanto oggi diffusamente ritenuto: non ebbe affatto, in altre parole, tensioni di lavoro più ridotte rispetto alla chitarra di oggi. La documentazione del tempo dimostra semmai che fu vero il contrario.
Non può non rilevarsi inoltre come il profilo di tensione delle corde si discosti di misura da quello dei nostri set tradizionali: notevolmente scalare il nostro (come poi si vedrà), quasi, se non proprio in eguale tensione, quello di allora.
Come se non bastasse, i bassi del tempo, oltre ad essere proporzionatamente più tesi dei nostri, utilizzavano materiali (la seta) e seguivano criteri di bilanciamento tra l’anima e filo metallico che al giorno d’oggi sarebbero considerati assolutamente sbagliati. Ne conseguiva pertanto una sonorità piuttosto percussiva, per nulla persistente e ricca di armonici superiori come oggi riconosciamo ai bassi.
Piccoli spostamenti del pirolo bastavano inoltre a causare forti escursioni di frequenza dei bassi, dato che la bava di seta risulta meno propensa a cedere longitudinalmente rispetto al multifilamento di nylon.
Il budello stesso poi – come vedremo meglio nella quarta e ultima parte – presenta di per sè prestazioni acustiche profondamente diverse dal nylon e, per certi versi, molto più affini al carbonio.
Parlare quindi di esecuzioni storiche (o come si usa dire filologiche) soltanto perché si utilizza una Panormo o una Fabbricatore montata con corde in materiale sintetico (che seguono i criteri attuali, non certo quelli di allora) sembra francamente, alla luce di quanto sinora esaminato, un’affermazione un po’ azzardata.
Ma la verità che traspare dai documenti, con il suo carico per noi indubbiamente destabilizzante , non deve spaventare: ci indirizza semmai alla voglia di provare, di percorrere nuove strade.
In una frase: la sonorità autentica della chitarra dell’Ottocento è, in buona parte, ancora tutta da scoprire. Con questa nota conclusiva si chiude così il capitolo riguardante le corde per chitarra nel XIX secolo.
Il secolo seguente segnerà, con brutale rapidità, la fine del predominio millenario della seta e del budello in conseguenza della straordinaria scoperta del Dott. Carothers, chimico ricercatore della Du Pont americana e del determinante, pionieristico contributo di uomini del calibro di Albert Agustine e Andrés Segovia: l’era del nylon era giunta.
“1 pulgada = 0,9132 of an inch”: cfr. J. H. ALEXANDRE, Universal Dictionary of Weights and Measures Ancient and Modern, New York, 1867, p. 90.
Ophee, comunicazione privata all’Autore, anno 1999.
- GIOVANNI FOUCHETTI,Méthode pour apprendre facilement à jouer de la Mandoline à 4 et a 6 cordes, Paris, 1771. Reprint: Minkoff, Genève, 1983, p. 5.
- FE R N A N D O SO R,Méthode pour la Gui tarre, Ferdinand Sor, Paris, L’Auteur. 1830’, Madrid, Biblioteca Nacional, n. M2654, pp. 17-18 “Maniére d’Attaquer la C o r d e”. “La montez-vous avec des cordes fines ou fortes?” […] “Aimez-vous le son argentin ou velouté?”
- PATRIZIO BARBIERI,Giordano Riccati on the diameters of strings and pipers, “The Galpin Society Journal”, XXXVIII, 1985. Cfr. anche MIMMO PERUFFO,Italian violin strings in the eighteenth and nineteenth centuries: typologies, manufacturing techniques and principles of stringing, in ‘Recercare’ IX, 1997, pp. 155-203.
- Ecco ad esempio parte di una curiosa ricetta del XVIII secolo: “Libro contenente la maniera di cucinare e vari segreti e rimedi per malattie et altro”, “Corde da Violino, modo di farle”: “Si prendino le budella di castrato o di capra fresche […] e per fare cantini se ne prende tre fila e si torcono al mulinello…”. Biblioteca Municipale Panizzi, Mss. Vari E 177. Pubblicato da G. Bizzarri e E. Bronzoni, Il lavoro Editoriale, Bologna, 1986.
- JEAN-CARL MAUGIN-WALTER MAIGNE,Nouveau manuelcomplet du luthier, 2nda edizione, Roret, Paris, 1869, p. 184.
- PHILIPPE SAVARESSE,Cordes pour tous les instruments de musique, in: CHARLES P. L. LABOULAYE,Dictionnaire des arts et manufactures, 3 ed., vol. I, Lacroix, Paris, 1865, alla voce “corde”.
- Ad esempio EDWARD HERON-ALLEN,Violin-making as it was and is[…], Ward, Lock & Co., London, 1884,
- DO M E N I C O AN G E L O N I,Il Liutaio, Hoepli, Milano, 1923, pp. 279-298.
- JAQUES SAVARY DES BRUSLONS,Dictionnaire universel de commerce, d’histoire naturelle, et des arts et métiers, vol II, Cl. & Ant. Philibert, Copenaghen, 1759 alla voce “Corde”, p. 248: “ensorte que celles du N° 1, ne sont faites que d’un seul filet; celles du N° 2, de deux filets, celles du N° 3, de trois fillets; & ainsi des autres cordes…”.
- GEORGE HART,The Violin: its famous makers and their imitators, Dulau and Co., London, 1875, pp. 46-47
- Cfr. JOHN PLAYFORD,An introduction to the skill of music…The fourth edition much enlarged,William Godbid for John Playford, London, 1664.
- DI O N I S I O AG U A D O,Nuevo Método para Guitarra, Madrid, 1843, Chapter VI, 26. “1 pulgada = 0,9132 of an inch”:cfr. J. H. ALEXANDRE, Universal Dictionary of Weights and Measures Ancient and Modern, New York, 1867, p. 90.
- Cfr. LORENZO FRIGNANI,Chitarre e Mandolini,Piccola collezione di strumenti italiani dell’800 e del ’900, Poligrafico Mucchi, Modena, 1998.
- CARLO GERVASONI,La Scuola di Musica, Piacenza 1800, parte prima, p. 126 nota a piè di pagina.
- DOMENICO ANGELONI, op. cit., p. 281.
- PIETRO RIGHINI,La lunga storia del diapason,Bérben, Ancona, 1990, pp. 23-24. Vedere anche ALEXANDER ELLIS, The History of musical pitch, London, 1880.
- LUIGI CASTELLACCI,Grande Méthode de Guitare, Paris, 1824 ca.
- Krzysztof Komarnicki, Varsavia, comunicazione privata all’Autore, 1998. ROMUALD TRUSKOLASKI,Szkola/ na/ Gitare Hiszpanska/ ulozona i ofiarowana/ W. Karolowi Kurpinskiemu/ …/ przez/ Romualda Truskolaskiego’Warsaw 1820, p. 10. W. TOMASZEWSKI, Bibliografia warszawskich drukowmuzycznych 1801-1850, Warsaw 1992, Biblioteka Narodowa.
- WILLIAM HUGGINS,On the function of the sound-post and the proportional thickness of the strings of the Violin, Royal Society proocedings, XXXV, London, 1883 pp. 241-248.
- JEAN-CARL MAUGIN-WALTER MAIGNE, op. cit., p. 183.
- Il materiale è stato ritrovato e si trova tuttora presso l’Archivio di Palazzo Rosso a Genova
- Le corde si presentano avvolte a rotolo tutte assieme e tenute strette da due nastrini di seta rossa.
- Si presume che tale lascito possa essere stato consegnato in allegato al violino al Comune di Genova da Achille Paganini, figlio di Nicolò, nel luglio del 1851 (cfr. EDWARD NEILL,Nicolò Paganini il cavaliere filarmonico,De Ferrari Editore, Genova, 1990, p. 313).
- EDWARD NEILL, Nicolò Paganini:Registro di lettere, Graphos, Genova, 1991, p. 80. Lettera scritta a Breslau, il 31 Luglio 1829 indirizzata al ‘signore profre Onorio de Vito, Napoli’.
- EDWARD NEILL, Paganini: epistolario, Comune di Genova, Genova, 1982, p. 49.
- FRANCESCO GALEAZZI, op. cit 19, p. 74, nota a piè pagina: ‘Non sarà, cred’io, discaro al mio lettore, che io qui gli descriva una picciola semplicissima macchinetta, e l’uso glie ne additi per filarsi, e ricoprirsi d’argento da sé i cordoni’.
- FRANCESCO GALEAZZI, op. cit 19, p. 74, nota a piè pagina: ‘’E’ noto ad ogniuno qual pesante, e lorda Macchina si soglia a tale effetto comunemente adoperare…’.
- Vedere ad esempio WILLIAM NICHOLSON,A dictionary of Chemistry, II, London, 1795, pp. 820-824.
- Paganini ad esempio preferì l’argento sopra altri metalli per la quarta del suo violino: ‘Non so se prima, ma dopo una o due settimane di soggiorno colà mi restituirò a Milano per li tuoi Violini e ti farò fasciare delle quarte di filo d’argento.’ (Epistolario, op. cit. 100, p. 67.
- JEAN BAPTISTE PHILLIS,Nouvelle Méthode Pour la Lyre ou Guitare A Six Cordes…par Phillis Op. 6,p. 6, Paris, Bibliothéque Nationale, N° Vma. 903. Matanya Ophee, comunicazione privata all’Autore, anno 1999.
- ROMUALD TRUSKOLASKI, op. cit., p. 10
- LUIGI CASTELLACCI, op. cit. p. 92.
- Marco Tiella, comunicazione privata all’autore del 1999.
Le Corde per Chitarra tra il Settecento e l’Avvento del Nylon (parte 2)
Le Corde per Chitarra tra il Settecento e l’Avvento del Nylon (parte 2)
Tipologie, tecniche manufatturiere e criteri di scelta
di Mimmo Peruffo
Esaminiamo in questa seconda parte quali furono i criteri di scelta delle montature di corda sul nostro strumento nel corso del XVIII secolo, facendo riferimento ai pochi documenti rinvenuti.
LE TIPOLOGIE DI CORDE PER CHITARRA
Il Settecento
La chitarra allora disponeva di quattro corde doppie (i cosiddetti “cori”, ma preferiamo chiamarli “ordini”) più un cantino solitamente, ma non sempre, semplice e tasti costituiti da spezzoni di corda di budello. L’accordatura (in Mi per la maggior parte dei casi, ma talvolta anche in Re) prevedeva, come è noto, diverse varianti per quanto riguarda i due ordini bassi, che potevano essere accordati all’ottava o all’unisono. La gamma di lunghezze vibranti di questo strumento era notevolmente superiore – 69÷74 cm – rispetto ai 62÷63 cm tipici delle chitarre del tempo di Sor.
Perché proprio queste misure e non altre?
Per comprendere al meglio questo argomento si devono prima spendere due parole sul comportamento delle corde di quei tempi, quando il solo materiale disponibile era sostanzialmente il budello. In altre parole è un po’ come se noi oggi avessimo a disposizione – pur nei vari spessori necessari – soltanto fili di nylon e ci trovassimo nella difficile condizione di dover garantire una resa acustica accettabile in tutti i registri della chitarra (o del liuto). Quando una corda di un materiale qualsiasi viene progressivamente tesa tra due punti fissi (la lunghezza vibrante), si arriva ad un’altezza di frequenza provoca la rottura della corda perché si è raggiunto il suo carico di rottura, che per il budello oscilla mediamente intorno a 34 Kg/mm2, 43 valore che si può ritenere valido – per una serie di dimostrati motivi – anche per le corde realizzate nel XVIII-XIX secolo. In altre parole, le corde di allora avevano più o meno la stessa resistenza tensile delle nostre. Il valore di tale frequenza limite, detta “frequenza di rottura”, risulta completamente indipendente dal diametro e questo lo si può facilmente verificare sia per via matematica (applicando la formula
generale delle corde) che per via sperimentale.
Questa frequenza “di confine” è inversamente proporzionale alla lunghezza vibrante della corda stessa; così se la lunghezza vibrante si dimezza, la frequenza si raddoppia (e viceversa). In altre parole, il prodotto tra lunghezza vibrante – in mt – e frequenza di rottura – in Hz – è una costante definita “indice di rottura” .
L’indice di rottura sperimentale di una moderna corda di budello è compreso tra 220 e 290 Hz/mt, pari ad una media di circa 260 Hz/mt cui corrispondono appunto 34 Kg/mm2 di carico di rottura.44 Ciò sta a significare che alla lunghezza vibrante di un metro, una corda si romperà, almeno in via teorica, a 260 Hz.
Se si divide l’indice di rottura per la frequenza di intonazione richiesta alla prima corda (che è il dato di partenza del liutaio), si otterrà la lunghezza vibrante in cui – per l’intonazione data – la corda si romperà di netto.
Considerando ad esempio la frequenza del cantino di una chitarra barocca per un ipotetico corista seicentesco di 415 Hz – cioè Mi =311 Hz – ecco che la lunghezza vibrante teorica in cui il cantino si spezzerà sarà pari a 83 cm: basta dividere l’indice di rottura per la frequenza del Mi.
La scelta della lunghezza vibrante di lavoro dovrà per forza di cose considerare un accorciamento prudenziale di questa lunghezza limite. Ma di quanto? Per poter rispondere a questo quesito apriamo una breve parentesi.
Abbiamo già in precedenza visto come i musicisti del Cinque-Seicento che suonavano strumenti a pizzico (o ad arco) si preoccupavano affinché le corde di uno strumento si presentassero né eccessivamente tese né eccessivamente molli al tatto, sensazione da ritrovarsi poi identica tra tutte le corde della montatura.
Esattamente come faremmo noi se non esistessero più sets precostituiti, bensì corde sciolte di vario diametro. La ricerca di un giusto e soggettivo grado di tensione sottintende pertanto la scelta dei calibri più appropriati.
Vi è ora un secondo elemento da prendere in considerazione, da sempre croce dei musicisti e liutai nei tempi che precedettero l’avvento delle corde basse filate: mano a mano che una corda di budello aumenta di sezione – in condizioni di parità di tensione e di lunghezza vibrante – questa raggiunge sì frequenze sempre più gravi (diametro e frequenza sono infatti tra loro inversamente proporzionali), ma la resa acustica globale, in termini di dinamica, ricchezza di armonici e persistenza di suono, si riduce sempre di più, fino a raggiungere – oltre certi calibri – livelli assolutamente insoddisfacenti. Le corde, in pratica, a causa dell’aumento della loro rigidità dovuta ai grossi diametri, diventano sempre più smorzate e afone e questo lo possiamo agevolmente capire anche oggi se confrontiamo su di una comune chitarra le prestazioni acustiche del Sol rispetto a quelle del Mi cantino. Un Re e un La in puro nylon, anziché rivestiti, avrebbero un diametro di circa 1,4 mm e 1,9 mm rispettivamente: non è difficile immaginare cosa accadrebbe alla loro sonorità. Come se non bastasse, calibri di questa mole – qualora premuti sulla tastiera – risultano maggiormente crescenti in frequenza rispetto alle corde più sottili; modeste variazioni di pressione delle dita sui legacci determinano poi una notevole variazione nella frequenza di emissione. Tutto questo perché le corde di grosso diametro realizzate con un solo materiale (ad eempio in solo nylon) risultano per loro natura estremamente rigide.
Volendo perciò salvaguardare al meglio le prestazioni dei registri bassi tastati e non disponendo di altri materiali se non del budello (le corde di metallo c’erano ovviamente, ma oltre ad avere una timbrica completamente differente dalla minugia ponevano limiti tali da incidere pesantemente nelle caratteristiche progettuali dello strumento) l’unica strada percorribile dai liutai del tempo fu dunque quella di ricercare la massima lunghezza vibrante. Solo percorrendo questa via (dato che lunghezza vibrante e diametro sono tra loro inversamente proporzionali) si poteva infatti sperare di ridurre al massimo il diametro delle corde e ottenere da loro la migliore sonorità. Ricordiamo che la lunghezza vibrante era però vincolata dai limiti imposti dalla resistenza tensile del cantino, secondo quanto prima descritto.
Questo chiarisce alla rovescia la regola valida per il liuto, la chitarra e altri strumenti del Cinque-Seicento, oggi decisamente poco compresa: quella di tendere la prima corda al più acuto consentito. Solo il rispetto di questa condizione poteva infatti permettere – a parità di tensione – la massima riduzione dei diametri di corda, liberando al meglio il suono in tutte le sue componenti dinamiche e timbriche. Risulta facilmente intuibile che le lunghezze vibranti, calcolate dai liutai in base alle proprietà meccaniche e acustiche delle corde a loro disposizione, non potevano che far rientrare la frequenza del cantino – anche se poi intonato empiricamente dal liutista – in una finestra comunque ristretta di frequenze, pena o la rottura immediata della prima corda (se si è andati troppo in acuto) oppure una resa acustica deficitaria (se si è intonato lo strumento in un campo troppo grave per quella data lunghezza vibrante). Una lunghezza vibrante di 59 cm tipica di alcuni liuti storici come quello a sette ordini di Vendelio Venere45 fu calcolata appunto per ottenere una potenziale accordatura in Sol al corista veneziano del tardo Cinquecento, che era circa un semitono più acuto del nostro corista moderno (pari a 440 Hz), e fa presagire che i liutai di allora ebbero ben presente il concetto di indice di rottura.46 La stessa considerazione la si può estendere anche ai liuti tedeschi del XVIII secolo a 11 e 13 ordini con accordatura in Re minore: sapendo in questo caso per certo che la prima nota era un Fa “Kammerton”,47 – in pratica un semitono abbondante sotto il nostro moderno48 – con l’escursione di lunghezze vibranti tipiche di questi strumenti (68÷72 cm), emerge che il cantino lavorava automaticamente nei pressi della frequenza di rottura. In base a queste considerazioni – estendibili anche alla famiglia delle viole da gamba, almeno fino alla seconda metà del XVII secolo – i ricercatori hanno da tempo calcolato che la lunghezza vibrante di lavoro richiedeva un accorciamento prudenziale di circa 2-3 semitoni rispetto a quella “di rottura”, pari ad un indice di lavoro di 230 ÷240 Hz/mt.49 Questo valore si ricava anche nel Liuto della Tavola XVI n. 3 di Michael Praetorious (“Syntagma Musicum”, ‘Sciagraphia’, Elias Holwein, Wolfenbüttel 1615-20), dove il prodotto della lunghezza vibrante (che è determinabile, poiché l’autore precisa l’unità di misura) per la ipotizzata frequenza del cantino è pari a 235 Hz/mt.
Questa teoria trova infine un forte avallo sperimentale se si osserva il comportamento di un cantino di budello intero (così come venivano realizzati al tempo) all’aumentare pro g ressivo della frequenza di intonazione: proprio a circa due tre semitoni dalla rottura, esso comincia a perdere vistosamente la capacità di allungarsi, come se si trattasse di un filo di acciaio.50 In pratica, all’aumentare della tensione la frequenza della corda ad un certo punto sale molto più rapidamente del previsto, anche per piccoli avanzamenti del pirolo, fino a raggiungere in breve la rottura.

[fig 1] Questo fu indubbiamente un ottimo segnale per i liutisti/chitarristi di allora, ma anche per coloro – come i liutai – che dovevano dimensionare con perizia una chitarra, un liuto o una viola da gamba. La corda, in altre parole, segnalava automaticamente al suonatore quando il limite era raggiunto: essa suggeriva quindi al liutaio il giusto criterio per ben proporzionare uno strumento del quale conosceva soltanto l’intonazione del cantino (cui seguiva per proporzione quella delle altre corde) richiesta dalla committenza in funzione del corista del luogo dove poi lo strumento si doveva utilizzare. È noto infatti che non tutti i Mi, i Sol etc. delle varie regioni d’Europa erano uguali tra loro, ma variavano tra Stato e Stato anche di 2-3 semitoni e ciò doveva essere preso in dovuta considerazione dal liutaio di turno. Questo spiega perché un ipotetico arcileuto in Sol costruito dal veneziano Matteo Sellas nel 1640 abbia una lunghezza vibrante tastabile di soli 58 cm mentre uno strumento simile costruito da Bassiano Haim a Roma nel 1668 possieda ben 64,5 cm di lunghezza vibrante tastata.
La differenza tra le due lunghezze vibranti è di circa due semitoni e questo coincide esattamente con quella che si ritiene possa essere stata la diff e renza di frequenza tra il corista veneziano e quello romano del Seicento.
Che poi lo strumento fosse destinato ad assumere una forma a “otto” come la chitarra e la vihuela de mano, o a “pera” come il liuto o che si suonasse a pizzico o ad arco, nulla incideva su questo criterio di principio. Ecco perché la costruzione di copie esatte di strumenti originali del Cinquecento/primo Seicento – in particolare viole da gamba e liuti rinascimentali – pone a tutti un dubbio francamente irrisolvibile:
ammesso che tutte le parti siano in condizioni originali, per quale corista essi furono dimensionati? Non è infrequente infatti trovare oggi copie esatte di liuto in Sol (cioè “Mezano”, detto oggi “Tenore”) con lunghezze vibranti di 65 cm o peggio arcileuti con 68 cm tastati da accordare in Sol però al nostro Corista, cioè a 440
Hz. Il semplice prodotto tra la frequenza del Sol attuale (392 Hz) e la lunghezza vibrante farebbe immediatamente capire a chiunque che l’indice di lavoro, invece di limitarsi a 230-240 Hz/mt, balzerebbe oltre le possibilità offerte dal budello e che in tal caso sarebbe inutile montare un cantino più sottile nella speranza che non si rompa. In pratica, un liuto in Sol moderno montato con budello non dovrebbe mai superare la lunghezza vibrante di 61-62 cm.
In base a tali considerazioni, alla lunghezza vibrante di rottura prima indicata per la chitarra – pari a 82 cm – corrisponde dunque una lunghezza di lavoro di 69-73 cm che, guarda caso, è un intervallo di valori tipico degli strumenti a cinque ordini del Seicento e prima metà del XVIII secolo sopravissuti. Intonando il cantino a Mi (La=415 Hz), questo si trova così a due-tre semitoni dalla ipotetica rottura. La funzione originaria delle ottave appaiate alle corde dei bassi nel corso del Cinquecento ebbe molto probabilmente lo scopo di restituire per altra via (tramite cioè questo ingegnoso artificio) gli armonici superiori pesantemente penalizzati nelle corde più spesse (come sottolineato anche da Sebastian Virdung in Musica getusch…, Basel, 1511) e rimase stranamente in uso anche dopo l’invenzione delle corde rivestite.
Italia

Nel Museo Stradivariano di Cremona sono presenti numerosi disegni e sagome di carta o cartoncino riguardanti strumenti musicali a pizzico e ad arco. Uno di questi (disegno n° 375) riveste un particolare interesse (vedi fig. 2) poiché porta segnata la descrizione delle corde necessarie per i cinque ordini tastati della “chitarra tiorbata”, che è in pratica una chitarra a cinque cori con cinque bordoni singoli in tratta:
– 1a e 2a corda (primo ordine): “Questi deve essere compani due cantini di chitara”.
– 3a e 4a corda (secondo ordine): “Queste deve essere compane due sotanelle di chitara”.
– 5a e 6a corda (terzo ordine): “Queste deve essere compane doi cantini da violino grossi”.
– 7a corda (quarto ordine): “Questa altra corda deve essere un canto da violino”.
– 8a corda (quarto ordine): “Questa altra corda deve essere una sotanella di chitara”.
– 9a corda (quinto ordine): “Questa altra corda deve essere un canto da violino ma di più grossi”
– 10a corda (quinto ordine): “Questa altra corda deve essere un cantino da violino”.51
Il Sacconi ritiene che queste indicazioni, che risalgono alla prima metà del XVIII secolo, siano ad opera di un figlio di Stradivari il quale, sebbene morì nel 1737, a partire dal 1725 fu obbligato a delegare molti lavori ai suoi assistenti.52
Tentiamo una stima dei diametri in gioco. Così come si verificherà per la chitarra del secolo seguente, va osservato il riferimento – il primo in ordine cronologico – ai calibri del violino coevo. Attraverso il Conte Riccati (che fu, oltre che un grande fisico, un discreto violinista dilettante amico del Tartini) sappiamo per certo che i termini “Cantino” e “Canto” si riferiscono rispettivamente al Mi e al La di questo strumento.53 Sempre in base alle indicazioni del Riccati – il quale intorno al 1740-50 compì alcune interessanti misurazioni sulle corde del suo violino – sappiamo che le misure del Cantino e del Canto erano rispettivamente intorno a 0,70 e 0,90 mm. 54 Ricordiamo che tali stime sono confermate indirettamente anche dai dati forniti dal viaggiatore francese e astronomo De Lalande – 1760 ca.55 – c i rca il numero di budelli utilizzati per realizzare le corde di mandolino, violino e contrabbasso dal celeberrimo cordaio abruzzese – operante in Napoli – Domenico Antonio Angelucci 56 e, fatto importante, che queste proporzioni si sono mantenute rigorosamente costanti fino alla fine del secolo seguente, sia in Italia che in Francia.57 Per quanto riguarda la dicitura cantini/canti “grossi”, consideriamo pertanto come traccia il valore di calibro più grosso (“thick”) di corde di Mi e La realizzate a partire da uno stesso numero di fili di budello, come indicato da George Hart.58

Sottolineata la grande standardizzazione nel processo manifatturiero delle corde da violino, ecco che allora è possibile azzardare l’ipotesi che un cantino a tre fili di tipo “grosso” possa aggirarsi intorno a 0,73 mm (che è all’incirca il massimo diametro ottenibile da tre fili di budello di agnello di 8-9 mesi, come peraltro da noi cordai verificato sperimentalmente) e 0,90 mm per il Canto “normale” e 0,95 mm per quello “un po’ grosso”.
Poiché il terzo ordine di questa chitarra utilizzava un cantino di violino (da sempre realizzato con tre budelli, detti altrimenti “fili”, Fig. 3) il secondo ordine, per semplice proporzione matematica, doveva essere costituito da due fili (come il cantino del mandolino e del pardessus di viola, secondo il De Lalande) e il primo di un budello soltanto, esattamente come i cantini del liuto.59 In condizioni di calcolo teorico, infatti, il rapporto esistente tra i diametri risulta pari alla radice quadrata del rapporto tra il numero dei fili utilizzati.
La prima corda non poteva che avere lo stesso calibro di quelli dell’ormai quasi tramontato liuto, visto che la chitarra del tempo non faceva altro che rispettarne gli stessi principi guida, vale a dire la ricerca della massima lunghezza vibrante così da lavorare con la prima corda prossima alla rottura. Visto che con tre “fili” si ottiene un diametro oscillante intorno a 0,70 mm, per semplice rapporto matematico si possono ricavare i diametri del primo, secondo e quinto ordine. Ecco pertanto l’ipotesi dei diametri:
1° coro: ~ 0,42 mm (un budello).
2° coro: ~ 0,57 mm (due budelli).
3° coro: ~ 0,73 mm (cantino “grosso” di violino: tre budelli).
4° coro: ~ 0,90 mm (canto di violino).
4° coro: ~ 0,57 mm (due budelli).
5° coro: ~ 0,95 mm (canto un po’ grosso di violino).
5° coro: ~ 0,70 mm (cantino di violino: tre budelli).
Come si può osservare, il quarto e quinto ordine sono costituiti da un basso fondamentale accoppiato alla sua ottava, sistema tipico più della scuola italiana del primo Seicento (vedi Benedetto Sanseverino etc.) che dei Francesi contemporanei a Stradivari, come ad esempio Corbetta e De Visée. Questi ultimi infatti prediligevano le due corde del quinto coro accordate in unisono all’ottava superiore, mentre il quarto era costituito dal basso fondamentale accoppiato ad una corda più sottile disposta in ottava. Per quanto riguarda la lunghezza vibrante della chitarra in oggetto, ci può venire in aiuto la sagoma n° 374 riguardante un’altra chitarra di cui Stradivari fornisce diverse misurazioni e così, per comparazione dei dati, si deduce una lunghezza vibrante di 68,3 ± 5mm.60 Ai fini della stima della tensione di lavoro resta da valutare il corista che per convenzione fissiamo a 415 Hz. Il fatto che le prime tre corde di questo strumento prendano rispettivamente uno, due e tre budelli (esattamente come accade per il liuto) suggerisce l’interessante ipotesi che gli intervalli di quarta tra le corde del liuto, chitarra e altri strumenti a pizzico fossero stati dettati non tanto da questioni di carattere musicale, filosofico o semplicemente di miglior posizione delle dita sulla tastiera ma, più banalmente, dal fatto che solo tali intervalli, tra tutti, permettevano di ottenere da corde di budello composte da uno, due e tre budelli (e così via) l’eguale sensazione tattile di rigidità.
Mano a mano che il numero di budelli accoppiati aumenta, lo scarto di diametro tra corde adiacenti (come ad esempio tra una corda composta da dieci budelli e una fatta da undici) tende naturalmente a diminuire; invece, la differenza di calibro che si riscontra nelle corde composte da pochi budelli è piuttosto significativa.
Ecco dunque i valori della tensione di lavoro per ogni singola corda; è evidente che essi sono
da ritenersi doppi (o sommati nel caso del 4° e 5° ordine) se consideriamo che le due corde di un ordine si comportano al tatto pressappoco come se fossero un’unica corda:
1° ordine: ~ 3,3 Kg a corda (6,6 Kg totali se è doppio)
2° ordine: ~ 3,3 Kg a corda (6,6 Kg totali)
3° ordine: ~ 3,5 Kg a corda (7,0 Kg totali)
4° ordine ottava: ~ 4,6 Kg
4° ordine basso: ~ 3,0 Kg
5° ordine basso: ~ 1,87 Kg [!]
5° ordine ottava: ~ 4,0 Kg
Il valore di tensione per il basso del quinto ordine risulta decisamente inferiore alla media, mentre i rimanenti valori sembrano mantenere all’incirca la medesima tensione, eccetto le due ottave. Le indicazioni di Stradivari ci consentono di osservare come la corda del secondo ordine veniva utilizzata anche per realizzare l’ottava appaiata al basso del quarto. Un calibro un po’ più sottile del terzo ordine realizzava invece l’ottava appaiata del quinto. La spiegazione più plausibile per la ridotta tensione di lavoro della corda del basso risiede nel fatto che questo calibro indica con tutta probabilità la misura dell’anima da utilizzare per la successiva filatura metallica. Vi sono a tal proposito esempi simili nei riguardi della quarta corda (la sola ad essere filata) del violino presi dai misuracorde del tempo (fig 4).61

Dall’Italia non abbiamo purtroppo altre informazioni.
Francia

Le Cocq, nel 1729, fornì utili indicazioni sulla scelta delle corde per la chitarra del suo tempo. 62
Dopo aver puntualizzato che tutte le corde sono in budello e spiegato il metodo per riconoscere una corda buona da una falsa (Fig. 5) nonché aver dato spiegazioni sui legacci, Le Cocq precisa che per il secondo e terzo ordine e per l’ottava del quarto si utilizzano corde di spessore similare; in pratica, se si è capito bene, con una sola misura di corda si “coprivano” ben tre cori: “‘Tout les autres rangs, ou cordes [cioè oltre la chantarelle, che era semplice] peuvent étre d’une même grosseur…”. Per quanto concerne l’ottava del quinto ordine basso, o bordone, essa doveva avere un calibro impercettibilmente più grosso di quello delle corde del terzo ordine. I bassi del 4° e 5° coro erano filati e prevedevano l’impiego di un’anima grossa pari alle rispettive ottave appaiate, caricate poi con un sottile filo di ottone o meglio argento “[…] che ne les charge qu’à demi: c’est à dire qu’il reste un espace vide à le corde, de
la grosseur du dit filet ou même un peu plus…” […che le carica solo a metà: cioè lasciando su la corda uno spazio vuoto grosso quanto il filetto stesso o anche un po’ di più.”]
Va notato che la filatura non risulta a spire accostate come le corde generalmente disponibili nei negozi di Francia “completamente filate o t roppo grosse” (“…que celles qu’on trouve aux boutiques sont entierement chargées ou trop grosses … ”), bensì di tipo “demi”, cioè con le spire distanziate quanto il diametro del filo o poco di più e …“fatte in casa”. In questo modo, spiega Le Cocq (convinto di essere l’unico ad agire così nel suo Paese), il suono risulta meno secco e duro che utilizzando le comuni corde filate con le spire accostate che si trovano comunemente nel mercato, le quali sono anche a suo giudizio troppo grosse. Anche qui va sottolineata la presenza di bassi fondamentali al quarto e quinto ordine, in parziale difformità con i criteri adottati da De Viseé e Corbetta. Un buon esempio iconografico dove si possono osservare la quarta e quinta corda di colore bianco (filate quindi presumibilmente con argento o rame argentato) di una chitarra a cinque cori è una tela di Jean Baptiste Oudry (1686-1755): “Allegorie der Künste” , 1713 (Schwerin, Staatliches Museum). Nonostante queste informazioni, non vi sono comparazioni con i calibri di altri strumenti e così non è possibile fornire alcuna ipotesi di diametri di corda. Michel Corrette, 1761: “La guitarre se mont en cinq rangs de cordes, le 1er n’en a qu’un qui se nomme chantarelle, et les quatre autres rangs en ont chacum deux… Il faut observer que les deux cordes du 3me rang et la petite corde a l’octave du 5me rang soient égales en grosseur pas si forte que la chantarelle de violon. Les deux cordes du second rangégales et plus fines que les précédentes. La chantarelle et la plus petit du 4me rang égales en grosseur et plus fines que celle du 2me rang. La 1re du 4me rang demi-filèe, plus fortes que celle du 3me rang. La 1re du 5me rang, filée en plein plus forte que la 4me. On peut faire filer des cordes de soye à la manière des Chinois qui ne’en usent pas d’autres à leur instruments à cordes, ce qui rend le son plus agréable et plus sonor…”.63
Osservazioni: il punto di riferimento risultano il terzo ordine e l’ottava del quinto, che pre s e ntano un calibro pari al cantino del violino del tempo, cioè intorno a 0,70 mm (tre fili di budello di agnello di 8-9 mesi d’età.). Appare pertanto evidente che il secondo ordine e il cantino non potevano che prendere rispettivamente due e un budello, in analogia ai diametri dei primi tre cori e alle considerazioni fatte per la “Chitarra Tiorbata” di Stradivari. A differenza del liutaio italiano, però, si osserva che l’ottava appaiata al quarto coro possiede lo stesso diametro del cantino (con Stradivari invece il calibro di questa corda è pari a quello delle corde del secondo ordine), mentre per quella del quinto si usa il calibro del terzo, quasi similmente alla “Chitarra Tiorbata” del celebre liutaio. Piuttosto interessante il suggerimento di utilizzare, in alternativa alle consuete a n i m e di budello, anche anime di seta ritorte alla maniera cinese (in pratica avvolte come un cordonetto) da ricoprire poi con il filo metallico. Questa è la prima indicazione pratica del XVIII secolo che suggerisca l’impiego della seta come anima per le filate.
Ecco ora i supposti diametri:
1° ordine: (~ 0,42 mm: un budello).
2° ordine: (~ 0,57 mm: due budelli).
3° ordine: ~ 0,70 mm (cantino medio di violino: tre budelli).
4° ordine basso: ?
4° ordine ottava: ~ 0,42 mm (= al cantino: un budello).
5° ordine basso: ?
5° ordine ottava: ~ 0,70 mm (cantino di violino: tre budelli).
Considerando una lunghezza vibrante che sia tipica di una chitarra francese, come ad esempio uno strumento di Alexandre Voboam del 1676 (Paris, Conservatoire, E 1532) pari a 69,4 cm, ecco dedotti i valori di tensione (per un corista francese intorno a 390 Hz):
1° ordine: ~ 3,0 Kg a corda (6,0 Kg totali se è doppio)
2° ordine: ~ 3,1 Kg a corda (6,2 Kg totali)
3° ordine: ~ 3,0 Kg a corda (6,0 Kg totali)
4° ordine ottava: ~ 2,4 Kg
4° ordine basso: ?
5° ordine basso: ?
5° ordine ottava: ~ 3,8, Kg
Si riscontra una certa discrepanza tra le tensioni delle ottave appaiate ai bassi del 4° e 5° ordine, mentre i cori superiori presentano valori comparabili all’esempio italiano.
P. J. Baillon, 1781: “La guitarre doint être montée au ton ordinaire d’un orchestre. Il faut avoir soin que les
cordes soient bien choisies et bien égales. La meilleur méthode est de la monter à cordes doubles; la chantarelle seule doint être simple: les secondes doivent être plus grosses que la chantarelle et montées à l’unisson: les troisiemes doivent être plus grosses que les secondes et montées de même à l’unisson: la quatrieme doint être en soie filèe en entier accompagnée d’une corde à boyau un peu plus grosse que la chantarelle et montée à l’octave de la corde filée: la cinquieme doint être aussi en soie filée en entier et plus grosse que la quatrieme; elle doit être accompagnée d’une corde a boyau un peu plus grosse que les secondes et montée à l’octave de la corde filée. Il faut observer que les cordes qui accompagnent la quatriesme et la cinquieme doivent être posées après les cordes filées, c’est a dire, il faut qu’elles soient les premierès du coté du pouce.”64
– Osservazioni: per quanto riguarda i primi tre cori, non vi sono indicazioni particolari tranne la precisazione che il cantino è semplice. Interessante invece quanto indicato per le ottave del quarto e quinto ordine: dovevano essere un poco più grosse rispettivamente delle corde del cantino e del secondo coro, anziché del secondo e terzo come per Stradivari. Per quanto riguarda i bassi, va notata ancora una volta quella che ora compare come l’unica indicazione, filare cioè le corde basse su seta.<strong>65 Un’ulteriore osservazione concernente le ottave dei bassi: per il quarto ordine va rilevata la sostanziale analogia con i criteri adottati da Corrette, vale a dire l’impiego di una corda da cantino – anche se un po’ più grossa – per l’ottava appaiata. Come per Le Cocq non è purtroppo possibile dedurre alcun diametro di corda. – Un’ultima notizia di fonte francese, tratta dall’Encyclopédie Méthodique riporta quanto segue: “Les bourdons filés ont deux inconvéniens, l’un d’user & de couper les touches; l’autre plus grand, est de dominer trop sur les autres cordes, & d’en faire perdre le son final par la durée duleur, principalement dans les batteries. Il est des accords oú ils peuvent bien faire, c’est lorsqu’ils produisent le son fondamental; mais comme cela n’arrive pas le plus souvent, il vaut mieux s’en tenir aux bourdons simples, à moins qu’on ne veuille que pincer. Visé, célèbre maitre de guitarre sous Louis XIV, n’en mettoit point au cinquième rang; mais il y perdoit l’octave du la, & par conséquent une demi- octave”.66
L’usura dei legacci di budello ad opera dei bassi rivestiti fu forse l’elemento scatenante che fece decidere la transizione ai tasti di avorio o metallo; questo spostò però il problema dell’usura alle stesse corde filate e tale si presenta anche oggigiorno.
Messico
Può forse apparire strano che notizie riguardanti la chitarra possano provenire da una delle colonie spagnole in America, anche perché, in analogia con gli altri strumenti, ben poco di significativo oltre oceano si è sinora riscontrato. Il trattato di Antonio Vargas y Guzman (1776) merita un’attenzione particolare perché indica le corde da utilizzare nella chitarra a sei ordini, strumento in auge in Spagna nel tardo Settecento fino ai primi decenni del XIX secolo.67
Vargas precisa che la chitarra possiede sei ordini: i primi tre in unisono, mentre i bassi filati (detti entorchados) vanno normalmente all’ottava. Viene ulteriormente precisato che se la chitarra viene usata per accompagnare – soprattutto quando si tratta di una “grande” formazione orchestrale – allora anche i bassi vanno in unisono.Altro non viene purtroppo aggiunto.
Nel trattato in questione le corde del terzo ordine possiedono un calibro pari alla seconda corda del violino (quindi ~ 0,90 mm) e il secondo ordine pari a quelle del cantino dello stesso strumento, cioè ~ 0,70 mm di media.
Possiamo ora stabilire un’ipotetica lunghezza vibrante di 66 cm come quella della chitarra di Sanguiño di Siviglia (1759), che ha appunto sei o sette cori.68 Per quanto riguarda il corista le ipotesi sono ad ampio spettro poiché non abbiamo sottomano nulla di significativo; ma se per pura speculazione consideriamo quello di 415 Hz siamo in grado di stimare la tensione di lavoro per il secondo e terzo coro:
Si ~ 0,70 mm: ~ 4,8 Kg
Sol ~ 0,90 mm: ~ 5,0 Kg
La cosa certamente più significativa è che tra questi due ordini (ma con tutta probabilità anche tra le corde seguenti) si manifesti una condizione prossima all’eguale tensione di lavoro, in analogia ai casi precedentemente esaminati.
Va da sé che probabilmente anche il cantino dovrebbe prendere ~5,0 Kg di tensione determinando un diametro prossimo a 0,53 mm: grossomodo ciò che si ottiene con due “fili” di budello, impiegato come cantino del mandolino o del pardessus di viola.69
Con questi documenti si chiude quanto da noi conosciuto in merito alla chitarra del Secolo dei Lumi; come evidenziato dai pochi dati ritrovati sembra emergere un profilo di eguale tensione tra le corde.
Del Seicento invece non possediamo a tutt’oggi nulla di significativo tranne alcuni inventari di bottega che riportano le spese per l’acquisto di corde di vario genere, tra cui anche quelle per chitarra. Si può tuttavia affermare che la chitarra non potè beneficiare – almeno fino alla seconda metà del secolo XVII – dei bassi rivestiti.
In virtù della stretta parentela progettuale (i criteri di scelta della lunghezza vibrante in relazione all’intonazione della prima corda etc…) si ritiene tuttavia che i calibri in uso nella chitarra del XVII secolo non furono altro che gli stessi in uso comunemente nel liuto.
Per quanto riguarda la zona di provenienza delle corde da chitarra va sottolineata come per il violino la pre f e renza dei francesi verso il prodotto italiano – considerato insuperabile, soprattutto nei cantini – rispetto ad altre manifatture. Ecco ad esempio Michel Corrette: Les bonnes cordes à boyaux sont ordinairement de Rome, de Florence, de Naples, et de Lyon etc.70
La preferenza per le corde di provenienza romana e, ancora di più, napoletana emerge chiaramente anche dalle lettere del violista da gamba Forqueray e si mantiene intatta, anche per gli altri strumenti ad arco, almeno fino alla fine del XIX secolo.71
In concomitanza con il diffondersi dei bassi filati su seta nella chitarra (i quali presentano una resa acustica indubbiamente migliore di quelli filati su budello) la regola di ricercare la massima lunghezza vibrante, rispettata anche nella prima metà del Settecento, non ebbe più motivo tecnico di esistere. Questo rese accessibile ai liutai del tardo Settecento un consistente accorciamento della lunghezza vibrante (pari a circa un tono) anche nel nostro strumento, a beneficio dell’agilità di esecuzione, aspetto che si rendeva ora particolarmente necessario in conseguenza delle mutate esigenze musicali. Agilità ancor più favorita da una concomitante graduale eliminazione degli ordini in favore delle corde singole, dall’abolizione delle tastature in budello sostituite da quelle fisse in avorio o metallo e, finalmente, dall’aggiunta determ i n a n t e della sesta corda nel basso accordata in Mi, aggiunta che causò la fine dell’utilizzo degli accordi sempre rivoltati tipici dello strumento a cinque ordini. Va puntualizzato che uno strumento a pizzico a corde semplici possiede per sua natura una maggiore versatilità dinamica e agilità
esecutiva rispetto ad uno con i cori. In relazione ai motivi che poterono ispirare l’aggiunta della sesta corda nel basso non può trascurarsi probabilmente la mandora a sei chören, strumento in gran voga in Austria, Germania, Boemia e Moravia nell’epoca in cui avvenne questa importante trasformazione.72 Tale strumento presenta caratteristiche fortemente affini – nella quantità e disposizione di corde nonché nel tipo di prestazioni – a quella che sarebbe poi divenuta la chitarra a sei corde: tutto un altro mondo rispetto alla chitarra coeva di cinque ordini.
Questo a patto di trascurare il fatto che essa appariva morfologicamente assai simile al liuto di sei-otto ordini del periodo rinascimentale. Un discorso particolare merita l’incatenatura, che nell’area sotto il ponte si realizzava (stando almeno agli esemplari di mandora sopravissuti) emblematicamente con cinque catenine disposte a ventaglio e non secondo la disposizione classica del liuto (cioè due catenine oblique dalla parte del cantino e una catena assai sottile curvata un poco verso le doghe e posta trasversalmente alla tavola armonica a metà strada tra il ponte e il fondo della tavola ed estesa in lunghezza non o l t re la parte del ponte occupata dai bassi).
Esperimenti comparativi eseguiti tra l’incatenatura tradizionale e quella a ventaglio hanno evidenziato che quest’ultima presenta la particolarità di sostenere acusticamente in modo particolare il registro medio e basso di un liuto.73 La mandora possedeva poi un’accordatura generalmente in Re, ma con gli stessi intervalli della chitarra. Considerando che la lunghezza vibrante di molti esemplari conservati nei musei oscilla intorno a 70-72 cm, per semplice proporzione si ricava una lunghezza vibrante di 62-64 cm (guarda caso!), qualora sia teoricamente p roporzionata per un’accordatura in Mi. Strumenti di questo tipo erano ricercati Oltralpe per la loro agilità e per la presenza di suono nella realizzazione della parte del basso, in strenua concorrenza alla tiorba e al liuto. La concorrenza era ancora più temibile per la chitarra a cinque ordini, la quale non godeva ormai più del seicentesco distinguo di suonarsi a botte che in qualche modo la differenziava dagli altri strumenti a pizzico e che si trovava pertanto nell’assoluta necessità di adattarsi in qualche maniera per poterla contrastare. Ecco cosa dice in proposito
Simon Molitor nel 1807:
“Ora, la chitarra ha ottenuto un secondo miglioramento mediante l’aggiunta della sesta corda, esattamente il Mi basso, che da noi divenne subito comune. In questo modo la chitarra divenne del tutto simile alla mandora”.74
Non sono chiaramente espliciti i motivi per cui la chitarra si accorciò proprio di circa due tasti: visto però lo stretto legame simbiotico che essa sempre ebbe con il violino, viene da pensare che solo con questo preciso accorciamento si potessero utilizzare pari pari le prime tre corde di questo strumento garantendo allo stesso tempo un valore di tensione ritenuto giusto. Significativo il fatto che la chitarra assunse una lunghezza vibrante esattamente doppia di quella del violino presentando anch’essa il cantino in Mi: la chitarra del tempo di Sor e Giuliani era nata.
cantino Dritto 17/80 Rovescio 20/100
seconda Dritto 25/80 Rovescio 28/100
terza Dritto 29/80 Rovescio 35/100
Cordone – Rovescio 29/100
Queste misure si rifanno al misuracorde del Foderà e sono riferite ai due lati dello stesso. Un altro illuminante esempio è tratto dal misuracorde per violino di LO U I S SP O H R, “Violinschule […].”, Tobias Haslinger, Wien 1832,sulpp. 13-14, plate 1, figura IV, dove sono marcate le seguenti numerazioni: E 18, A 23, D 31 e G 25. L’unità di misura ci è purtroppo sconosciuta. Il misuracorde era costituito da una piastrina di metallo provvista di un intaglio graduato ad angolo molto acuto con delle tacche incise: la corda veniva infilata in tale spaccatura e, sposandosi verso il vertice interno, ad un certo punto – a causa del suo spessore – arrivava a toccare i due lati dell’intaglio graduato fornendo una misura approssimativa ma efficace. Tale strumento fu in uso a partire forse dall’inizio del sec. XIX fino alla metà di quello seguente.
- La sezione di un mm2 corrisponde ad una corda di circa 1,13 mm di diametro
- DJILDA ABBOT – EPHRAIM SEGERMAN,Strings in the 16th and 17th centuries, “The Galpin Society journal”, XXVII 1974, pp. 48-73. In base a nostre sperimentazioni il valore di carico di rottura medio del budello indicato da Segerman (32 Kg/ mm2) risulta troppo basso
- “Vendelio Venere in Venetia 1596”, liuto a sette cori, Bologna, Accademia Filarmonica. Vi sono altri validi esempi di liuti veneziani presenti nei musei: ‘”Giovane Hieber in Venetia”,seconda metà del XVI secolo, lunghezza vibrante 59 cm, Bruxelles, Musée Royal Instrumental, n° 1561; “Matteo Sellas in Venetia, 1638”, liuto attiorbato a 14 cori, lunghezza vibrante 58 cm, Paris, Musée de la Musique, n° 1028.
- ARTHUR MENDEL,Pitch in western music since 1500: a re-examination, “Acta musicologia”, L, 1978, pp. 1-93.
- Cfr. ERNST GOTTLIEB BARON,Historisch-theoretisch und practische Untersuchung des Instruments der Lauten, Johan Friedrich Rüdiger, Nürnberg 1727, tradotto da Douglas Alton Smith, Instrumenta Antiqua Publications, Redondo Beach (Cal.) 1976, p. 98.
- EPHRAIM SEGERMAN,On German, Italian and French pitch standards in the 17thand 18 th centuries, “Formhi quarterly”, n° 30, January 1983, comm. 442.
- R. THOMAS WILLIAM & J. J.K. RHODES,The string Scales of Italian Keyboard Instruments, “The Galpin Society Journal”, XX, 1967, p. 48.
- DANIELLO BARTOLI,Del Suono, de’ Tremori Armonici e dell’Udito,Trattato del P. Daniello Bartoli della Compagnia di Giesu, Roma 1679. A spese di Nicolò Angelo Tinassi. 4to, 8 + 330 + 1pp.; Proprietà Roberto Regazzi Bologna; ‘Capo Quinto’, “Disgressione. Se le corde in ogni lor parte sieno tese egualmente: e per qual cagione troppo tese si rompono.” Il Bartoli a pagina 263 così si esprime: “Una corda [da Liuto, n.d.r] stràpparsi allora che non può più allungarsi: cioè, che finche può allungarsi, non può strapparsi: e mi pare tanto vera, quanto è, il non venirsi nelle operazion naturali e necessarie, all’estremo, che prima non si sien passati tutti i mezzi, e vinte le lor resistenze, che si trovano sempre minori. Ma lo strapparsi, è l’estremo dello stiramento, adunque non si viene ad esso, mentre la corda, coll’allungarsi puo non strapparsi.”
- PA T R I Z I A FR I S O L I,The Museo Stradivariano in Cremona, “The Galpin Society Journal”, XXIV, July 1971 p. 40.
- S. SACCONI,I segreti di Stradivari, Cremona, 1972. Manca il nome completo e la casa editrice
- PATRIZIO BARBIERI,Giordano Riccati on the diameters of strings and pipers, “The Galpin Society Journal”, XXXVIII, 1985, pp. 20-34: “Colle bilancette dell’oro pesai tre porzioni egualmente lunghe piedi 1 _ Veneziani delle tre corde del Violino, che si chiamano il tenore, il canto e il cantino. Tralasciai d’indagare il peso della corda più grave; perchè questa non è come l’altre di sola minugia, ma suole circondarsi con un sottil filo di rame.”
- PATRIZIO BARBIERI, op. cit. Cfr. anche: MIMMO PERUFFO,Italian violin strings in the eighteenth and nineteenth centuries: typologies, manufacturing techniques and principles of stringing, “Recercare”, IX, 1997 pp. 155-203.
- FRANCOIS DE LALANDE,Voyage en Italie […] fait dans les annés 1765 & 1766, 2a edizione, vol IX, Desaint, Paris 1786, pp. 514-9, Chapire XXII “Du travail des Cordes à boyaux…: “…on ne met que deux boyaux ensemble pour les petites cordes de mandolines, trois pour la premiere corde de violon…”.
- UBERTO ANDREA,L’antico abitato di Salle…,vol. I, Casamari, Tipografia dell’Abbazia, s.d., p.77: “Tra i cordari che lavoravano spessissimo fuori paese o vi tenevano negozio, si distinguevano Carlo Antonio Ruffini, Domenico Antonio De Domicis, Domenico Antonio Angelucci e Giosafatte Di Rocco...”. Archivio di Stato di Chieti, fondo della Regia Udienza di Chieti n. 77. Catasto di Salle del 1746.
- FRANCOIS DE LALANDE, op. cit., p. 174.
- GEORGE HART,The violin and its music, Dulau and Schott, London 1881, pp. 46-7.
- AT T A N A S I U S KI R K E R,Musurgia Universalis sive Ars Magna Consoni et Dissoni in X. Libros Digesta, Roma, 1650, Caput II, p. 476:“…ita hic Romae gravissimam tesdudinis chordam ex 9 intestinis consiciunt, secundam ex 8, & sic usque ad ultimam, & minimam, quae ex uon intestino constat.” .
- MARTYN HODGSON,The stringing of a baroque guitar, in “FOMRHI Quarterly”, n. 41, October 1985, pp. 61-67.
- Cfr. FILIPPO FODERÀ,Metododel 1834 citato da PATRIZIO BARBIERI in Acustica, accordatura e temperamento nell’illuminismo veneto, Istituto di Paleografia Musicale, Torre d’Orfeo, Roma, 1987, p. 42: Misura delle corde alla trafila delle grossezze Violino di Guarnerio Grado della trafila delle grossezze
cantino Dritto 17/80 Rovescio 20/100
seconda Dritto 25/80 Rovescio 28/100
terza Dritto 29/80 Rovescio 35/100
Cordone – Rovescio 29/100
Queste misure si rifanno al misuracorde del Foderà e sono riferite ai due lati dello stesso. Un altro illuminante esempio è tratto dal misuracorde per violino di LO U I S SP O H R, “Violinschule […].”, Tobias Haslinger, Wien 1832,sulpp. 13-14, plate 1, figura IV, dove sono marcate le seguenti numerazioni: E 18, A 23, D 31 e G 25. L’unità di misura ci è purtroppo sconosciuta. Il misuracorde era costituito da una piastrina di metallo provvista di un intaglio graduato ad angolo molto acuto con delle tacche incise: la corda veniva infilata in tale spaccatura e, sposandosi verso il vertice interno, ad un certo punto – a causa del suo spessore – arrivava a toccare i due lati dell’intaglio graduato fornendo una misura approssimativa ma efficace. Tale strumento fu in uso a partire forse dall’inizio del sec. XIX fino alla metà di quello seguente.
- FRANÇOIS LE COCQ,Recueil des pieces de guitarre composees par Mr. Francois Le Cocq, Brussels, Bibliothèque du Conservatoir Royal de Musique, Ms. Littera S, no. 5615, 1730. Capitolo: “Des chordes”.
- MICHEL CORRETTE,Les Dons d’Apollon, Paris 1763, p. 22, Capitolo XVI.
- P. J. BAILLON,Nouvelle Méthode de Guitarre, Paris, 1781, p. 3. “La chitarra deve essere montata al tono solito dell’orchestra. Bisogna stare attenti che le corde siano ben scelte e uniformi. Il miglior metodo è di montarle doppie; solo il cantino deve essere semplice. Le seconde devono essere più grosse del cantino e montate all’unisono; le terze più grosse delle seconde e anch’esse all’unisono. La quarta deve essere di seta interamente filata e accompagnata da una corda di budello un po’ più grossa del cantino e montata all’ottava della corda filata. La quinta deve essere anch’essa di seta interamente filata e più grossa della quarta e va accompagnata da una corda di budello un po’ più grossa delle seconde e montata all’ottava della corda filata. Bisogna far sì che le corde che accompagnano la quarta e la quinta siano poste dopo le corde filate, e cioè devono essere le prime dalla parte del pollice.”
- Per la verità i bassi filati su seta erano già stati descritti da Playford nel 1664(An introduction to the skill of music […]. The fourth edition much enlarged,William Godbid for John Playford, London, 1664), quando la recente invenzione delle corde filate fu annunciata ufficialmente al mondo musicale del tempo; anche se poi non esiste una sola fonte storica che documenti di un loro impiego prima della seconda metà del sec. XVIII.
- Encyclopédie Méthodique, Paris, 1785, Capitolo:L ’ a r t du faiseur d’instruments de musique. “I bordoni filati hanno due inconvenienti: l’uno è che consumano e tagliano i tasti; l’altro, il più grande, è che predominano sulle altre corde, di cui fanno sparire la fine del suono, specie nelle batterie, a causa della durata del proprio suono. Negli accordi in cui producono la nota fondamentale possono andare bene, ma visto che ciò non avviene spesso, è meglio limitarsi a tenere i bordoni semplici a meno che si debbano suonare solo pizzicando. Visée, celebre maestro di chitarra durante il regno di Luigi XIV, non ne metteva affatto al quinto ordine, perdendo così l’ottava del La e, di conseguenza, una mezza ottava.”
- RO B E R T ST E V E N S O N,A neglected Mexican Guitar Manual of 1776, “Inter. American Music Rewiew”, 1, 1979, pp. 205-10: “Explicacion para tocar la guita[r] rade punteado por musica o sifra y reglas vtiles para acompañar la parte del bajo dividila en dos tratados por D. Juan Antonio Vargas y Guzman. Professor de este ynstrumento en la Ciudad de Veracruz Año de 1776” , Newberry Library, Chicago, Case MS VMT 582 V29e; p. 291.
- Come suggerito, nel 1999, dal Dr. Paul Sparks in una comunicazione privata all’autore
- FRANÇOIS DE LALANDE, op. cit., p. 174.
- MICHEL CORRETTE, op. cit. p. 22. “Le buone corde di budello provengono di solito da Roma, da Firenze, da Napoli e da Lione.”
- Vedere la lettera di Forqueray al Principe Wilhelm, fine 1767-inizi 1768:”…que les deux dernières petites cordes soient romaines, les cinqe dernières de Naples...”. Citato da YVES GÉRARD InNotes sur la fabrication de la viole de gambe et la manière d’en jouer, d’après une correspondance inédite de J.B. Forqueray au prince FrédéricGuillaume de Prusse, Recherches sur la musique francais classique, II 1961-2 lettre 7: “A son altesse royale monseigneur le prince de Prusse”.
- PIETRO PROSSER,Calichon e Mandora, ovvero: das non plus ultra satis est,“il Fronimo”, n. 109, parte I, Aprile 2000, pp. 44-52.
- GEOFF MATHER,Enigmatic bars and below the bridge bars (some observations),“FOMRHI Quarterly”, Bulletin 23, April 1981, comm. 334, p. 47.
- PIETRO PROSSER,Calichon e Mandora, ovvero: das non plus ultra satis est,“il Fronimo”, n°110, parte II, Luglio 2000, p. 33, nota 56 a piè pagina.
Le Corde per Chitarra tra il Settecento e l’Avvento del Nylon (parte 1)
Le Corde per Chitarra tra il Settecento e l’Avvento del Nylon (parte 1)
Tipologie, tecniche manufatturiere e criteri di scelta
di Mimmo Peruffo
“Las cualidades sonoras del mejor instrumento desmerecen si está provisto de cuerdas mediocres.” (Emilio Pujol, Escuela razonada dela Guitarra, Buenos Aires, 1934)
INTRODUZIONE
In fatto di corde e criteri di scelta delle montature per chitarra nel corso del XVIII, XIX e parte del XX secolo, lo studio del materiale storico recentemente reperito non ha mancato disuscitare una certa sorpresa, forse perché ben poco in questo campo è stato finora indagato. Inoltre è tuttora radicata l’opinione che tutto ciò che faccia parte del passato di questo strumento sia in qualche modo riconducibile semplicemente ad una serie di passaggi intermedi di quel lungo processo evolutivo che avrebbe portato alla cosiddetta “meta” finale: l’avvento della chitarra “di Torres” (e sue varianti), 1l’uso delle unghie della mano destra e l’abbandono delle primordiali corde di minugia in favore dei materiali sintetici. Vige poi l’idea – presa a prestito forse dagli strumenti ad arco riadattati per eseguire la musica barocca – che la chitarra dell’Ottocento e di parte del secolo seguente fosse caratterizzata da incordature assai leggere rispetto ai criteri odierni. Trattandosi infine nello specifico di corde di budello, è ancor più radicata l’opinione che le prestazioni acustiche globali dovessero essere in qualche modo inferiori a quelle delle corde di nylon o di PVDF (polivinil dilenfluoruro), il cosiddetto “carbonio”, nonostante siano ben pochi coloro che hanno provato sulla propria chitarra una sola corda di minugia. Ciò che ha cominciato in realtà a trasparire dall’esame della documentazione reperita – opportunamente integrata da una certa sperimentazione pratica – spinge con forza verso realtà sostanzialmente differenti. Questo contributo sembra rendersi dunque necessario, non soltanto perché si va sempre più ingrossando la schiera di coloro che stanno riscoprendo il gusto di suonare determinati repertori con strumenti d’epoca o copie degli stessi, ma perché, più semplicemente, si tratta di un atto di per sé doveroso per il recupero della storia (non solo musicale) del nostro strumento e, non ultimo, per poter ascoltare con spirito ancor più consapevole le incisioni chitarristiche anteriori agli anni Cinquanta, epoca in cui budello e seta regnavano indisturbati. Così, se la ricostruzione filologica degli antichi repertori musicali e il recupero degli strumenti ad essi relazionati non possono assolutamente prescindere dall’indagine, a sua volta puntuale e comparata, dei vari elementi a disposizione, allora la corda, quale essenza generatrice del suono, ne rappresenta certamente l’elemento cardine di partenza; essa è infatti – come già ormai dimostrato da numerosi studi –non più “pietra scartata dal costruttore” (semplice accessorio, insomma) bensì “pietra angolare del tempio”. Uno strumento privo di corde – Stradivari o Torres che sia – risulta privo di vita musicale propria, se non quella dovuta alla semplice percussione dello stesso.
Nella nostra trattazione si sono evitate di proposito le corde di metallo, le quali, nel mondo della chitarra, cominciarono a prendere piede, a partire dalla seconda metà del XIX secolo inconseguenza della comparsa dell’“acciaio da pianoforte” (1840 circa), materiale questo di elevatissima resistenza tensile rispetto al ferro fino ad allora impiegato (assieme ad ottone e bronzo)negli strumenti a tastiera e a penna (come ad esempio il mandolino) ma non nella chitarra asei corde. Nel mondo della chitarra – soprattutto se “còlta” – vi sono state, infatti, ben poche eccezioni al budello; circoscritte essenzialmente intorno alla popolana “Chitarra Battente” o a scelte particolari come quella di Agustín Barrios.2
LE QUATTRO ETÀ DELLE CORDE DI BUDELLO
Il budello è un un materiale di impiego millenario: sono state ritrovate ad esempio corde diminugia in antichi strumenti a pizzico egizi risalenti alla Terza Dinastia3. Nel corso dei secoli si assistette ad un processo di affinamento delle tecniche necessarie a produrre una buona corda, ma solo verso la seconda metà del secolo XVII questa lunga parabola evolutiva portò alla rivoluzionaria scoperta e diffusione delle corde gravi filate, costituite da un’anima di budello completamente rivestita da un sottile filo metallico, generalmente argento ma anche rame e ottone. La ricerca ha permesso di formulare l’ipotesi che la tecnologia di manifattura delle corde di budello si sia sviluppata non tanto attraverso una lenta progressione ma, piuttosto, per bruschi cambiamenti dovuti all’apporto di qualche novità tecnologica che si è poi ripercossa con sorprendente rapidità sugli strumenti musicali coevi, determinando la comparsa/scomparsa di alcune classi che si erano mantenute in relativo stato di quiete nei periodi “di transizione”. Questa affermazione può essere efficacemente verificata esaminando ad esempio gli effetti causati in alcuni strumenti musicali dalla comparsa delle corde gravi filate, responsabili dirette del rapido abbandono degli ingombranti bassi di violino in uso fino alla fine del Seicento –o poco oltre – in favore del nascente violoncello4. La comparsa delle stesse permise inoltre l’aggiunta della sesta corda ad una chitarra di limitata lunghezza vibrante rispetto a quelle del recente passato e questo senza conseguenze negative nella resa acustica. È da sfatare nel modo più assoluto la concezione ricorrente che le corde degli antichi fossero in qualche modo “primordiali”, lontane cioè dalla presunta perfezione delle nostre. La ricerca, si diceva, ha permesso di formulare l’ipotesi di quattro “età” caratteristiche della tecnologia di manifattura delle corde di budello. La “prima età” delle corde musicali si perde nella notte dei tempi ed è stata identificata in quel lungo processo di selezione empirica delle materie prime naturali atte a possedere un certo grado di resistenza tensile e una certa predisposizione spontanea a produrre suono una volta intrecciate tra di loro, prime fra tutti la seta e il budello. Quest’ultimo, forse a causa della più facile reperibilità, prese il sopravvento nell’occidente cristiano e nelle civiltà del bacino mediterraneo.
Ne sono seguite l’individuazione e la messa a punto progressiva del sistema di fabbricazione più idoneo, quello indicato, in buona sostanza, dai numerosi ricettari “fai da te” del Medioevo: procedimento sorprendentemente simile a quello attuale. Ecco ad esempio una ricetta di anonimo tratta dal Secretum Philosophorum, Secolo XV:
Ad faciendum cordas lire Cum autem volumus facere cordas lire […] recipe intestina oviumet lava ea munde et pone ea in aqua vel in lexivia per dimidium vel plus usque caro se separetleviter a materia corde que est similis quasi nervo. Post depone carnem de materia cum pennavel cum digito mundo. Post pone materiam inlescivia forti vel rubio vino per 2 dies. Post extrahe et sicca cum panno lineo et iunge 3 vel 4simul secundum quantitatem quam volueris habere et atturna ea usque sufficiat. Et extende easuper parietem et permitte sicare […].5
Il prodotto finito, in virtù del fatto che la manifattura non risultava ancora professionalizzata, doveva con tutta probabilità caratterizzarsi da una variabilità qualitativa piuttosto ampia.
La seconda tappa evolutiva si può senz’altro collocare tra la seconda metà del XV secolo e la metà del secolo seguente. Essa sembra coincidere con la comparsa della figura del cordaio, il quale perfezionò e razionalizzò le tecniche manufatturiere già in uso portando la qualità delle corde armoniche ai massimi livelli meccanici e acustici. Emblematica in tal senso la scomparsa pressoché totale, dai ricettari del tempo, dei procedimenti per far da sé le corde, ricette piuttosto diffuse nel Medioevo. Lungo il corso del Cinquecento, i centri più rinomati nella produzione di corde armoniche furono anche importanti centri di tintura e filatura di seta e cotone, basti ad esempio citare Barcellona, Monaco, Norimberga e Lione. Non possiamo escludere pertanto una possibile acquisizione, da parte dei cordai di queste città, delle più complesse tecniche di filatura in uso per le sete, acquisizione che permise una prima importante riduzione della rigidità delle corde più spesse utilizzate nei registri gravi degli strumenti.
Questi bassi dovettero per forza di cose essere ancor più elastici ed efficienti del solito, se ci si poté permettere un primo mutamento in ambito morfologico: il liuto, ad esempio, già verso la seconda metà del XV secolo poté espandersi decisamente verso il grave di un intervallo di quarta, talvolta quinta, con l’acquisto di una sesta corda doppia (il cosiddetto “coro”); così accadde anche per le viole da arco.
La terza tappa evolutiva si può collocare verso la seconda metà del XVI secolo quando vi fu un ulteriore, importante salto di qualità da parte degli strumenti musicali: al liuto venne aggiunto un settimo coro più grave (e inseguito diversi altri sulla tastiera) accordato già da subito addirittura una quarta, talvolta una quinta, al di sotto del sesto. Negli strumenti ad arco si è accreditata l’ipotesi di una certa contrazione delle lunghezze vibranti – a parità di intonazione, s’intende – rispetto a quelle precedentemente in uso.6
Studi recenti7 tendono a dimostrare che la ragione di queste repentine modifiche sia da ricondurre all’applicazione di un’idea rivoluzionaria: l’incremento del peso del budello utilizzato per fare le corde dei bassi mediante opportuni trattamenti di carica con metalli pesanti. Nell’iconografia musicale del Seicento non è infrequente infatti osservare che le corde di questi registri – che dai trattati per Liuto del tempo si sa essere sempre e solo di budello – si presentano con colorazioni che vanno dal rosso cupo fino al marrone, completamente differenti quindi da quella gialla, tipica del budello naturale: queste colorazioni compaiono proprio là dove oggi si utilizzano i bassi filati moderni. I fori per i bassi dei ponticelli (presunti) originali di numerosi liuti storici presenti nei musei risultano inoltre troppo stretti rispetto a ciò che si renderebbe necessario se si impiegassero corde di solo budello; a meno che dette corde non siano state appositamente appesantite. La matematica dimostra infatti che solo un peso specifico doppio del budello naturale permetterebbe a corde in grado di passare per questi sottili fori di raggiungere tensioni di lavoro opportune. Tale trattamento avrebbe permesso dunque la produzione di corde molto più sottili e sonore di quelle in uso fino ad allora, garantendo contestualmente una corretta tensione di lavoro. Questa terza fase evolutiva, che caratterizzò l’età di Monteverdi e Stradella, fu esattamente quella in cui la complessità manufatturiera generale delle corde di budello raggiunse probabilmente vertici rimasti poi assolutamente insuperati.

La quarta e ultima “età” delle corde da musica – quella che a noi interessa e che continua ancor oggi – si caratterizzò per la rivoluzionaria comparsa delle corde basse filate, costituite da un’anima di budello – ma anche di seta – su cui è avvolto strettamente, a spire accostate o spaziate, un sottile filo metallico: si trovò dunque un sistema alternativo e molto più efficiente per appesantire il budello invece di caricarlo per mezzo di trattamenti “chimici”.
La più antica testimonianza cartacea manoscritta a nostra disposizione risale al 1659: “[…]Goretsky hath an invention of Lute strings covered whith silver wyer, or strings which make a most admirable musick. Mr Boyle.”[…il Goretsky ha inventato delle corde per liuto rivestite da filo d’argento, ossia corde che fanno musica inmaniera assolutamente ammirevole] e ancora: “[…]string of guts done about with silver wyer, makesa very sweet musick, being of Goretsky’s invention.” […corda di budello ricoperta da filo d’argento, fa un suono dolcissimo ed è un’invanzione di Goretsky].8
A questa seguì, in ordine temporale, il Trattato per Viola da gamba di John Playford del 1664,il quale rappresenta per così dire l’annuncio “ufficiale” dato al mondo musicale del tempo9.
La diffusione di questi nuovi e più efficienti bassi non fu tuttavia rapida come si potrebbe pensare: emblematico il fatto che il violista da gamba Sainte Colombe le introdusse in Francia solo verso il 1675.10
In Italia, paese da sempre produttore di rinomate corde armoniche, se ne ha notizia dal 1677;11 risalgono comunque al1681/85 circa le prime raffigurazioni pittoriche europee a noi note di strumenti (violino e violoncello) in cui si possono osservare corde basse filate (la quarta corda grave di questi strumenti è bianca: filata in argento o rame argentato, con tutta probabilità).12 Riguardo agli strumenti a pizzico come il liuto non risulta però a tutt’oggi alcuna evidenza iconografica o scritta degna di nota che testimoni un loro utilizzo.

L’influenza in campo costruttivo e musicale di questa nuova invenzione fu, inutile dirlo, rivoluzionaria, tanto che si può senz’altro parlare di un vero e proprio “muro divisorio” tra il prima e il dopo. Infatti, se negli strumenti più acuti come il violino le lunghezze vibranti rimasero comunque “a misura d’uomo”, esse furono da sempre assai sproporzionate negli strumenti più grossi, rispetto all’estensione raggiungibile con facilità dalle dita della mano sinistra, almeno fino alla comparsa delle corde rivestite. Si intuisce facilmente che non appena gli antichi poterono disporre di bassi molto più esuberanti, la prima cosa che probabilmente venne loro in mente fu proprio quella di ridurre sistematicamente le lunghezze vibranti di alcuni di loro (il basso di viola, ad esempio) o introdurne addirittura di nuovi (violoncello) acquistando in agilità esecutiva: questo spianò del tutto la strada a nuove forme musicali e finalmente permise, verso la fine del XVIII secolo, l’aggiunta alla chitarra della sesta corda grave, con una contestuale, forte riduzione della lunghezza vibrante dello strumento e l’abbandono dei cori (e delle tastature per mezzo di legacci) in favore delle corde semplici.
LA TECNICA MANUFATTURIERA DELLE CORDETRA LA METÀ DEL ’700 E LA FINE DEL ’800.
Il procedimento manufatturiero delle corde nei secoli XVIII e XIX risulta a prima vista sorprendentemente analogo a quello odierno, ma in realtà vi sono alcune differenze sostanziali che portano a concludere che le corde di allora – e almeno fino alla fine del XIX secolo – fossero più elastiche e quindi, assai probabilmente, migliori delle nostre dal punto di vista della durata e della resa acustica. La procedura dell’epoca prevedeva normalmente l’impiego di budello intero di agnello(che, per inciso, vuoto e sgrassato appare come una membrana piatta semitrasparente di soli 34 mm di larghezza) di lunghezza pari ad almeno cinquanta piedi.13
Dopo essere stato accuratamente svuotato e sciacquato per alcuni giorni in acqua corrente, esso subiva una serie di trattamenti volti ad eliminare le parti inutili al fine di lasciare libera e perfettamente sgrassata la sola membrana muscolare, ovvero ciò che interessava al cordaio. Questo risultato si otteneva lasciando le budella in immersione per alcuni giorni in bagni alcalini a concentrazione via via crescente; in seguito, con una semplice e delicata raschiatura effettuata con il dorso di un coltello o per mezzo di un frammento di canna palustre, si asportavano con facilità le membrane non muscolari e il grasso che sempre accompagna la minugia. I bagni alcalini erano costituiti da ceneri vegetali stemperate in acqua (potassa). L’aumento progressivo della concentrazione dei bagni si può spiegare forse con il fatto che all’inizio del trattamento di sgrassatura sono sufficienti soluzioni diluite di prodotto alcalino, le quali sono già in grado di asportare le sostanze grasse più facilmente solubili. Si riserva la massima concentrazione di potassa solo alla fine, quando si rende necessaria un’azione molto più energica verso tutto ciò che risulta ancora difficilmente asportabile. In questa fase poteva essere anche aggiunta una modesta quantità di allume di rocca, il cui effetto astringente e conciante induriva un po’ il budello.
I bagni alcalini, in altre parole, provocavano un processo di fermentazione e saponificazione della materia organica tale da facilitare il distacco meccanico delle parti inutili. I budelli sgrassati venivano quindi accuratamente selezionati e riuniti in fasci paralleli in quantità variabile (a seconda del diametro di corda richiesto; fino anche a cinquanta nel contrabbasso), annodati agli estremi e successivamente ritorti per mezzo di un apposito mulinello (il capo opposto della protocorda veniva fissato ad un piolo bloccato a sua volta ad un lato del telaio di essiccamento. Dopo aver ritorto a dovere la corda, il capo libero veniva a sua volta fissato all’altro piolo dello stipite opposto del telaio, mettendo così in tensione la corda umida.
Quando il telaio risultava ben guarnito di corde lo si trasportava in un’apposita stanza di ridotte dimensioni, dove si provvedeva all’imbianchimento delle corde stesse per mezzo dell’insolforazione: esse venivano sottoposte per giorni all’azione sbiancante dell’anidride solforo sa che si sviluppava dalla combustione, in un bacile, di fiori di zolfo. Al termine di questa operazione le corde venivano ulteriormente ritorte, quindi si provvedeva al loro essiccamento finale in aria libera, operazione che prendeva poche ore. Essendo il budello fresco simile ad una spugna intrisa d’acqua, l’essicamento dello stesso comporta una notevole riduzione di diametro: in pratica una corda fresca e perfettamente bianca di circa 5 mm di diametro, una volta essicata, si riduce ad una giallastra di circa 1 mm soltanto. L’ultima fase consisteva nella levigatura, tramite sfregamento, della loro ruvida superficie, per mezzo di un’erba dotata di proprietà abrasive (imbevuta del liquido alcalino di sgrassaggio, o “tempra”): l’equiseto, asperella o coda di cavallo; solo nel corso del XIX secolo si cominciò a preferire maggiormente l’impiego della pomice in polvere.

Le corde, perfettamente levigate, si ungevano quindi con olio di oliva, venivano tagliate ai capi del telaio e confezionate in circoli; ogni confezione di carta oleata poteva contenere dalle quindici alle trenta corde o più.14 Potrebbe a prima vista sembrare che la modernizzazione della centenaria e immutata tecnologia per far corde sia stato un fatto totalmente positivo, ma le cose non stanno entro questi termini. Alcuni passaggi apparentemente banali del vecchio sistema di manifattura non sono mai stati investigati a dovere; la differenza pratica la si può riscontrare se si compie un confronto tra i pochi campioni di corde superstiti –anche dell’inizio del secolo – con quelle oggi disponibili: estremamente ritorte, morbide ed elastiche le prime, quanto generalmente rigide e poco ritorte le seconde. Le nostre corde inoltre, se non verniciate, possiedono in genere una durata nel tempo – una volta montate sullo strumento – decisamente breve.
La questione della durata si spiega facilmente in base al fatto che una corda fatta da budelli interi, trattata solo con una leggera levigatura con erba abrasiva o pomice, presenta un numero assai ridotto di fibre superficiali spezzate rispetto ad una corda costituita da fettucce di budello il cui diametro finale sia stato imposto per mezzo di una rettifica meccanica, la quale può asportare anche discrete quantità di materiale dalla superficie della corda grezza rendendola più soggetta a sfilacciamento prematuro. Il secondo importante aspetto – il quale va a influire pesantemente sulle prestazioni acustiche generali – verte sul fatto che le corde di budello di oggi sembrano in qualche modo indirizzate a rinunciare alla ricerca della massima elasticità in favore della sola resistenza tensile a causa della scarsa torsione a loro impartita: ci si dimentica che il compito di una corda armonica è quello di suonare al meglio, non certo di competere con una fune da traino. In altre parole, esse devono avere la capacità di trasformare l’impulso meccanico trasmesso dal dito in un moto vibrazionale che, per quanto possibile, deve essere scevro dagli attriti interni alla corda che ridurrebbero il rendimento di trasformazione dell’energia meccanica trasmessa al materiale.

Che le corde attuali siano in genere scarsamente ritorte rispetto a quelle del passato lo si deduce, oltre che dalle informazioni provenienti dagli antichi documenti, anche dall’esame di spezzoni sopravvissuti; superfluo ricordare come il fattore torsione risulti basilare nel determinare il grado di elasticità di una corda di budello: una corda molto ritorta è sempre meno rigida e maggiormente sonora.15 La conclusione porta a ritenere che le corde armoniche di un tempo fossero probabilmente superiori – dal punto di vista acustico e di durata – alle nostre, le quali, se non altro, vantano il fatto di essere almeno di dimensioni precise e quindi raramente “false”: vero e costante problema delle corde prima dell’avvento della rettifica meccanica introdotta soltanto dopo la metà del XX secolo.
I CENTRI DI PRODUZIONE
Nel corso del Seicento il centro più prestigioso di produzione di corde armoniche italiano ed europeo fu certamente Roma che nel 1735 vantava una ventina di botteghe cordaie (regolate da precisi ordinamenti statutari) in grado di rifornire tutta l’Europa di allora di corde armoniche di ottima qualità.16I cantini romani rimasero rinomati fin’oltre la fine del Settecento, secolo in cui fu sciolta la potente corporazione dei cordai dell’Urbe. Il primato della qualità venne quindi portato avanti per tutto l’Ottocento e oltre dai valenti cordai di Napoli, seguiti a ruota da quelli della città di Padova (nel 1786 spiccano i nomi del cordaio Antonio Bagatella e la bottega “Antonio fratelli Priuli detto Romanin”, fondata nel 1613 da Antonio Romanin, forse originario di Roma) dove la produzione di corde armoniche cessò per sempre nel 1911.17
Il De Lalande scrisse che: “La fabbricazione di corde di violino è pressochè un monopolio italiano, visto che Roma e Napoli ne forniscono tutta l’Europa ed esiste sempre molto mistero nei settori esclusivi del commercio…”.18
Ecco ora le indicazioni del Galeazzi: “Veniamo finalmente alle corde: devonsi provveder le corde alle migliori Fabbriche d’Italia; quali sono quelle di Padova; di Napoli; di Roma; di Budrio sul Bolognese; e dell’Aquila nell’Abruzzo. Vi sono ancora altre fabbriche in Città di Castello; Perugia; Rieti; Teramo; ed altri luoghi; ma le prime portano il vanto; specialmente quelle di Padova; e di Napoli.”.19 Il violinista Spohr riporta quanto segue: “Vi sono corde italiane e corde tedesche, delle quali le prime devono essere preferite; quantunque anche nelle corde italiane ve n’abbia delle cattive. Ordinariamente le migliori sono le corde Napolitane, poi vengono quelle di Roma ed infine quelle di Padova e Milano; ma queste ultime valgono poco.”20

La qualità impareggiabile dei cantini da violino – ma anche per altri strumenti21 – prodotti a Napoli costituì da sempre un autentico rompicapo per i francesi, abili a costruire qualunque tipo di corda fuorché i cantini per questo strumento. Questi venivano pertanto importati in grossa quantità dall’Italia e, pare, a prezzi proibitivi. I francesi, verso la fine del XVIII secolo, istituirono addirittura un riconoscimento per colui o coloro che fossero stati in grado di eguagliare la qualità del prodotto napoletano. La medaglia d’oro fu alla fine assegnata al cordaio parigino di origini… napoletane Savaresse, il quale risolse brillantemente il caso: il “segreto” era costituito dal fatto che a Napoli e in numerose altre zone d’Italia si utilizzavano – diversamente dalla Francia – budelli di bestie piuttosto giovani; ma questo era già stato scritto in verità dal De Lalande nel suo Voyage alcuni decenni prima.22 Il primato della qualità delle corde fabbricate in Italia si ritrova inalterato anche alla fine del XIX secolo, tanto che George Hart scrisse:
“Le corde musicali sono fabbricate in Italia, Germania, Francia e Inghilterra. Gli italiani sono al primo posto, visto che in passato in questa produzione la loro abilità era evidente nei tre requisiti principali che le corde devono avere: alto grado di rifinitura, grande durata e purezza di suono. Vi sono fabbriche a Roma, Napoli, Padova e Verona […] Le corde tedesche si classificano subito dopo quelle italiane e la sede della loro fabbricazione è la Sassonia […] I francesi si trovano al terzo posto […] Gli inglesi fabbricano tutte le qualità, ma principalmente quelle meno costose […]”23
Il Forino (1905) ci riporta a sua volta quanto segue:
“…furono celebri le fabbriche di Berti, di Colla a Roma, di Ruffini a Napoli. In oggi sono assai apprezzati i prodotti di Righetti a Treviso, di Raffaele di Bartolomeo a Napoli, di Nicola Morante a Tavernale di Barra (Napoli) di Nicola Di Russo e di Raffaele Pistola Profeta (successore di Ruffini) a Salle (Pescara), di Luigi D’Orazi anche a Salle e di Conti a Mugellano (Rieti) […]. All’Italia ed alla Germania segue terza la Francia che produce eccellenti corde soprattutto per arpa: le corde di Lione godono fama di ottime.”24
Emilio Pujol, unico caso di chitarrista a nostra disposizione che abbia citato espressamente la produzione di corde per chitarra scrisse nel suo metodo:
“Le corde migliori oggi ci sembrano essere quelle di marca Pirastro; e tra queste quelle con l’etichetta dorata. Il loro suono è chiaro senza essere stridulo; la loro intonazione è in genere precisa e la loro resistenza e durata rimangono tutt’ora insuperabili. Le marche “Pirazzi”, “Padova”, “Elite” e “El Maestro” sono anch’esse corde di budello con risultati eccellenti. Le corde di seta filata hanno di solito una giusta intonazione. Sono buone quelle fabbricate a Valencia da José M.Dutrá, quelle di H.Hauser a Monaco di Bavierae altre che, ignorando la loro provenienza, non posso specificare.”25
Come si può facilmente intuire la fabbricazione delle corde filate fu una prerogativa non tanto dei cordai quanto dei liutai, se non proprio dei musicisti.26
I CRITERI DI VALUTAZIONE DELLE CORDE
Ma quali erano i criteri guida che contraddistinguevano una buona corda da una pessima.
La prima cosa da sottolineare è che traspare, da parte dei musicisti professionisti del tempo chitarristi compresi , una grande abilità nel saper distinguere al tatto e alla vista il materiale di buona qualità e vibrazione (la zona di provenienza era già di per sé considerata un indice sicuro). Queste conoscenze venivano tramandate da sempre di maestro in allievo, secondo una sorta di tradizione orale ma anchescritta 27che cominciò a spezzarsi forse a partire dagli albori del Novecento, quando prese progressivamente piede la consuetudine di affidarsi ciecamente alle grosse aziende cordaie che cominciavano a svilupparsi in Germania e Francia (ma non certo in Italia: il cordaio italiano come figura artigianale volgeva ormai al declino; dopo la Grande Guerra la maggior parte di loro cominciò a chiudere bottega o preferì emigrare all’estero, America in testa, determinandola rapida fine della gloriosa e pluricentenaria tradizione italiana), le quali imposero di fatto le loro scelte in termini di strategie manufatturiere e di calibri standard commerciali.28

La consuetudine secolare della tradizione orale potrebbe spiegare il fatto che, nei metodi per chitarra del tempo, si trovi ben poco sui criteri di scelta delle corde e quel poco che si riesce a sapere lo si trova principalmente nei metodi per violino strumento intorno al quale tutto ruotava o nei manuali riguardanti la liuteria per archi in genere. Ecco qui di seguito quanto riportato dalle fonti in nostro possesso:
M. Corrette: “Quelle più compatte sotto le dita e trasparenti sono le migliori.”29
F. Galeazzi: “La buona corda dev’esser diafana; color d’oro; cioè che dia sul gialletto, e non candida come alcuni vogliono; liscia; e levigata, ma ciò indipendentemente dall’esser pomiciata; senza nodi; o giunte; al sommo elastica, e forte; e non floscia, e cedevole.”30
A. Labarraque: “La corda migliore e che si può usare più a lungo è quella il cui aspetto cambia meno quando viene montata […]31
L. Spohr: “…La buona corda si distingue pel suo colore bianco, la sua limpidezza e liscezza[…]. Corde vecchie, guaste, oppure quelle di cattiva fabbrica si conoscono subito al loro colore giallo e fosco; esse non sono trasparenti, né elastiche come le corde buone”.32
Maugin et Maigne: “I cantini, dice il Signor P. Savaresse, devono essere trasparenti, perfettamente compatti e molto regolari nel calibro.
Non devono essere né troppo bianchi, perché ciò proverebbe che sono stati fatti da agnelli troppo giovani, e quando si preme con la mano un pacco di cantini, essi devono sembrare elastici e ritorna re subito sù come una molla d’acciaio. […] Le corde grosse, cioè la seconda e la terza, devono, al contrario, essere trasparenti e molto bianche. Devono inoltre essere molto molli quando se ne comprime un pacco, ma non devono cambiare colore e devono subito ritornare al loro stato cilindrico; se si presentano troppo rigide, ciò proverebbe che sono state fabbricate di budelli troppo resistenti e, in tal caso, produrranno un suono di cattiva qualità. ”33
G. Hart: “Scegliete quelle più trasparenti; le seconde e terze, essendo fabbricate con più fili, sono raramente molto chiare […] e perciò la mancanza di trasparenza nel loro caso denota l’uso di materiali di qualità inferiore.”34
L’ultimo documento che presentiamo fu dato alle stampe nel 1905 e costituisce probabilmente l’ultimo testo che indichi ancora i criteri di scelta di una corda armonica secondo la tradizione ottocentesca:
L. Forino: “Le corde tedesche hanno il pregio della resistenza e, come tutti i prodotti di quella nazione, hanno anche quello del buon prezzo. Sono levigatissime, dure al tatto tanto da sembrare di acciaio [!]: anche il suono risente ditale durezza […]. La buona corda deve essere non troppo liscia e bianca, chè l’azione della pomice non giova alla buona sonorità: deve essere molto elastica e perfettamente cilindrica […].Per provare l’elasticità basterà comprimere con le dita una corda ancora attorcigliata e fare l’esperimento, per esempio, fra una tedesca ed una italiana.”35
LA TENSIONE DI LAVORO E LA SENSAZIONE TATTILE DI RIGIDITÀ
L’aspetto più importante e universale che caratterizzò la scelta delle montature di corda per qualsiasi strumento, a pizzico o ad arco, dal Rinascimento fino ad almeno la metà del secolo decimonono, consistette nel fatto che in tutte le corde dello strumento, premute nel medesimo punto, si doveva manifestare una eguale sensazione tattile di rigidità.36 Questo criterio fu ribadito, nel corso dei secoli, fino alla noia dai più autore voli trattatisti che scrissero anche come le corde non dovessero presentarsi né troppo “dure” né troppo “molli”. Si capisce che mentre il criterio di “eguale sensazione di rigidità” tra tutte le corde risulta un criterio di natura universale (eguale significa eguale), viceversa il concetto di quanto“ dure o molli” debbano essere (in pratica la scelta dei calibri giusti) risulta invece di natura estremamente soggettiva, legata alla sensibilità individuale, al tipo di strumento etc:
T. Mace: “Un’altra osservazione generale, in realtà la più importante, è questa: qualunque sia il diapason del liuto che state per incordare, dovete scegliere le corde in maniera tale che (nel tipo di accordatura che intendete ottenere) tutte le corde abbiano una rigidità proporzionata e uguale, altrimenti si presenteranno due grandi inconvenienti: uno per l’esecutore e uno per l’ascoltatore. Nota bene che quando diciamo che un liuto non è incordato in modo uguale, significa che alcune corde sono dure e altre molli.”37
Robert Dowland: “[…] Anche questi bassi gravi non devono essere tirati troppo né troppo poco in maniera tale che, quando percossi dal pollice e dalle altre dita, producano in voi la stessa sensazione che producono le corde acute”.38
The Burwell Lute Tutor: “[…] quando suonate tutte le corde con il pollice dovete avvertire eguale rigidità […]39
Ma queste regole, estremamente funzionali, risultano oggi quasi completamente ignorate (anche da quei pochi che cercano di capire cosaci sia dietro un set commerciale di corde), sostituite oltremodo dal concetto di tensione di lavoro espressa in Kg o, peggio ancora, dai termini “light”, “medium”, “thick” etc. che appaiono sulle confezioni togliendo così spazio a qualunque ragionamento consapevole e alla voglia di sperimentazione da parte del musicista. Si ritiene che l’eguale sensazione tattile di rigidità tra le corde (che in uno strumento musicale a pizzico o ad arco è regola universale) corrisponda in tutto per tutto all’eguale tensione, ma questo non è vero.40
Vediamo di chiarire questo punto fondamentale, che ha inciso in termini negativi sulla ricostruzione delle montature di tutti gli strumenti a pizzico e ad arco del Rinascimento e del Barocco, nonché sulle montature moderne per chitarra barocca a cinque ordini o a sei corde semplici del periodo Romantico e oltre. Mentre la tensione di lavoro è un dato numerico in sé perfettamente definito dal suo stesso valore, la sensazione tattile di rigidità – essendo appunto una sensazione – è soggetta a diverse variabili .
Ecco alcuni esempi: tra due corde identiche sottoposte alla stessa tensione di lavoro – ma sottoposte a lunghezze di vibrazione diverse – quella più lunga risulterà più cedevole al tatto; così, tra due corde di budello di pari calibro, tensione di lavoro e lunghezza di vibrazione –ma di cui una sia molto ritorta e l’altra poco –la prima risulterà più cedevole alla pressione delle dita perché dotata di un cedimento elastico longitudinale maggiore (ecco per quale motivo risulta sempre problematica la sostituzione di uno stesso diametro di corda di una data marca commerciale con una di diversa provenienza: il grado di torsione, il tipo di materiale e la sua lavorazione potrebbero essere così differenti da rendere inutile l’eguaglianza del calibro ai fini dell’ottenimento della stessa sensazione di rigidità sotto le dita). Così, infine, tra due corde di cui sia identico il grado di torsione, la lunghezza di vibrazione e la tensione di lavoro – ma non il diametro – risulterà più cedevole al tatto quella più sottile. Si intuisce con facilità quali problemi di disomogeneità tattile si vengono a generare in un chitarrone (il quale presenta la caratteristica di avere le corde montate in due differenti lunghezze vibranti) qualora si disponga tutto – come comunemente oggi si fa – in eguale tensione anziché seguendo i criteri degli antichi. Ricapitolando, quando i documenti di allora– e per “allora” si intende almeno fino alla metà del XIX secolo – si riferivano alla parola “tensione” nei riguardi di una montatura reale di corde (cioè non nel caso si trattasse di pure speculazioni teoriche circa i rapporti esistenti tra vari parametri fisici come la frequenza, la lunghezza vibrante, il diametro etc, come ad esempio nel Trattato di Mersenne e altri), essa riguardava sostanzialmente la sensazione tattile di rigidità, non la tensione – in Kg – come oggi viene da tutti intesa. Il Galeazzi ci ha fornito un esempio decisamente pertinente: “…la tensione [nel Violino, n.d.r.] dev’esser per tutte quattro le corde la stessa, perché se l’una fosse più dell’altra tesa, ciò prudurrebbe sotto le dita, e sottol’arco una notabile diseguaglianza, che molto pregiudicherebbe all’eguaglianza della voce”.41
È trasparente il fatto che “tensione” coincide con sensazione tattile di rigidità. Nel trattato del Bartoli risulta altrettanto evidente la coincidenza tra “tensione” e sensazione tattile: “Quanto una corda è più vicina al principio della sua tensione, tanto ivi è più tesa […]. Consideriamo hora una qualunque corda d’un Liuto: ella ha due principi di tensione ugualissimi nella potenza, e sono i bischeri dall’un capo, e ’l ponticello dall’altro: adunque per lo sopra detto, ella è tanto più tesa, quanto più lor s’avvicina: e per conseguente, è men tesa nelmezzo”.42
introducono per primi il concetto che le corde di budello erano realizzate sia in bassa che in altatorsione. Più precisamente, secondo Segerman, fino alla fine del Medioevo le corde erano scarsamente ritorte; soltanto in seguito – e cioè in pieno XVI secolo – i cordai si accorsero che ritorcendo maggiormente una corda si otteneva una migliore resa acustica. Il nostro punto di vista sostiene invece l’ipotesi che fin da sempre le corde furono prodotte con un alto grado di torcitura – tranne forse le corde più sollecitate in assoluto: i cantini del liuto – e che questo non costituiva affatto un segreto, vista la banalità di realizzazione, consistente nel dare più o meno giri alla ruota del mulinello nella fase di torcitura.
qui est presque réservée à l’Italie, Naplés & Rome en fournissent toute l’Europe & il y a toiours beaucoup de mystère dans ces branches exclusives de commerce…” FRANCOIS DE LALANDE, Voyage en Italie […] fait dans les annés 1765 & 1766, 2a edizione, vol IX, Desaint, Paris, 1786, pp. 514519.
et, dans ce cas, elles auraient une mauvaise qualité de son.” JEANCARL MAUGINWALTER MAIGNE, Nouveau manuel complet du luthier, 2a edizione, Roret, Paris, p. 184.
e dell’Udito, Trattati del P. Daniello Bartoli della Compagnia di Giesu, Roma 1679. A spese di Nicolò
Angelo Tinassi. 4°, 8 + 330 + 1pp.; Proprietà Roberto Regazzi, Bologna.
- Per una più ampia trattazione dell’argomento vedi: STEFANO GRONDONA LUCA WALDNER, La chitarra di liuteria, L’Officina del Libro, Sondrio, 2001.
- La scelta di Barrios verso le corde di metallo potrebbe giustificarsi – oltre che per motivi puramente estetici – anche dal fatto che in Sudamerica non esisteva alcuna produzione autonoma di corde di budello, rendendo perciò necessaria la loro importazione dall’Europa a costi probabilmente proibitivi e con inevitabili lungaggini nei tempi di consegna. Una seconda ipotesi – tutt’altro che secondaria – verte sul fatto che in un clima caldo e fortemente umido come quello del Paraguay (stato in cui Barrios viveva) qualunque corda di minugia avrebbe una durata estremamente limitata. L’impiego delle corde di metallo fu osteggiato con veemenza da Segovia che durante un incontro con Barrios stesso nel 1944 a El Salvador definì senza mezzi termini la sua chitarra “a wire fence” (staccionata metallic a ) .Cfr. RICHARD STOVER, Agustin Barrios Mangoré. HisLife and Music. Part III: Cacique Nitsuga Mangoré,“ G u i t a rReview”, n. 100, Winter 1995, pp. 2021.
- WERNER BACHMANN, The Origins of bowing and the development of bowed instruments up to the thirtheen century, Oxford University Press, London, 1969 (edizione originale: Die Anfänge des Streichinstrumentenspiel, Breitkopf und Härtel, Leipzig, 1964), p. 79.
- STEPHEN BONTA, From Violone to Violoncello: A question of strings?, “Journal of the American Musical Instrument Society”, volume III, 1977, pp. 6499.
- CHRISTOPHERPAGE, Voices and Instruments of the Middle Ages: instrumental practice and songs in France,11001300, J. M. Dent & Sons Ltd; London, pp. 2345.
- DJILDAABBOT EPHRAIMSEGERMAN, Strings in the 16 th and 17th centuries, “The Galpin Society journal”, XXVII1974, pp. 4873
- MIMMO PERUFFO, The mystery of gut bass strings in the sixteenth and seventeenth centuries: the role of the loadedweighted gut, “Recercare”,V, 1993, Roma, pp.115151. ABBOTSEGERMAN, op. cit., introdussero negli anni ’70la teoria che le corde dei registri bassi fossero ritorte secondo le tecniche costruttive delle gomene marine equesto al fine di renderle notevolmente più elastiche e quindi più sonore. Da questo deriverebbe il nome “Catline”, una tipologia di corda bassa in voga nel Seicento, citata anche da Dowland.
- SAMUEL HARTLIB, Ephemerides, manoscritto (locazione non conosciuta), 1659; comunicazione privata fornita allo scrivente da Robert Spencer, 1995. Spencer suggerisce che l’informazione nei riguardi delle corde filate fu fornita a Hartlib dal noto chimico Robert Boyle.
- JOHN PLAYFORD, An introduction to the skill of mus i c[…]. The fourth edition much enlarged, William Godbid for John Playford, London, 1664; vedere pure CLAUDE PERRAULT, Œuvres de physique […], Amsterdam,1727 (1stedition, 1680) pp. 224225; capitolo: “Invention nouvelle pour augmenter le son des cordes”. Ved.fig.1 qui sopra.
- JEAN ROUSSEAU, Traité de la Viole[…], Christope Ballard., Paris, 1687
- PATRIZIO BARBIERI, Cembalaro, organaro, chitarraro e fabbricatore di corde armoniche nella “Polyantheatechnica” di Pinaroli (171832): con notizie inedite sui liutai e cembalari operanti a Roma, “Recercare I”,1989,p. 198 (da una fattura del costruttore di chitarre Alberto Platner: “…due corde di Violone, una di argento etun’altra semplice”.
- Vedere il quadro di Antonio Domenico Gabbiani ‘Ritratto di musicisti alla corte medicea” (Firenze, 16841687), Firenze, Palazzo Pitti, inv. 1890, riprodotto sulla copertina di “Early Music”, XVII/4, novembre 1990.
- FRANCOIS DE LALANDE,Voyage en Italie[…] fait dansles annés1765 & 1766, 2a edizione, vol IX, Desaint,Paris, 1786, pp. 514519.
- È interessante notare, nell’iconografia musicale del Seicento, come il tratto di corda eccedente sullo strumento venisse riposto a mazzetto, quasi si trattasse di morbido spago. Questo suggerisce fortemente che le corde del tempo fossero estremamente morbide. A partire dal Settecento le corde venivano invece confezionate secondo un profilo circolare: questo sembra confermare i cambiamenti incorsi nel campo cordaio, accaduti forse dopo la comparsa delle corde filate.
- ABBOTSEGERMAN, inStrings in the 16thand 17th centuries…, introducono per primi il concetto che le corde di budello erano realizzate sia in bassa che in altatorsione. Più precisamente, secondo Segerman, fino alla fine del Medioevo le corde erano scarsamente ritorte; soltanto in seguito – e cioè in pieno XVI secolo – i cordai si accorsero che ritorcendo maggiormente una corda si otteneva una migliore resa acustica. Il nostro punto di vista sostiene invece l’ipotesi che fin da sempre le corde furono prodotte con un alto grado di torcitura – tranne forse le corde più sollecitate in assoluto: i cantini del liuto – e che questo non costituiva affatto un segreto, vista la banalità di realizzazione, consistente nel dare più o meno giri alla ruota del mulinello nella fase di torcitura.
- Statuto dell’università dei cordai di Roma,Archivio di Stato, Camerale II, Arti e mestieri, Statuti, coll. 312, busta 12, anno 1642.
- In base a ricerche da noi compiute alla Camera di Commercio di Padova, risulta che la fabbrica del Romanin fu gestita a partire dal 1849 dalla famiglia Calegari, fino alla cessione dell’azienda alla ditta “Eredi Nicola Bella” di Drezza Giuseppe in Verona, il quale non proseguì la produzione di corde armoniche e concluse così per sempre la lunga e gloriosa tradizione cordaia padovana.
- “La fabrication des cordes de violon est une chose
qui est presque réservée à l’Italie, Naplés & Rome en fournissent toute l’Europe & il y a toiours beaucoup de mystère dans ces branches exclusives de commerce…” FRANCOIS DE LALANDE, Voyage en Italie […] fait dans les annés 1765 & 1766, 2a edizione, vol IX, Desaint, Paris, 1786, pp. 514519.
- FR A N C E S C O GA L E A Z Z I,Elementi teoricopratici di Musica, con un saggio sopra l’arte di suonare il violino[…], Pilucchi Cracas, Roma, 1791, p. 71.
- LO U I S SP O H R, Violinschule, Tobias Haslinger, Wien,1832, pp.134.
- ANTOINEGERMAIN LABARRAQUE,L’art du boyaudier, Imprimerie de Madame Huzard, Paris 1822, pp. 3132.
- DE LALANDE, op.cit.,p. 514.
- “Musical strings are manufactured in Italy, Germany, France and England. The Italians rank first, as in the past times, in this manufacture, their proficiency being evident in the three chief requisites for string, viz. high finish, great durability, and purity of sound. There are manufactories at Rome, Naples, Padua and Verona […]. The German strings now rank next to the Italian, Saxony being the seat of manufacture […]. The French take the third place […]. The English manufacture all qualities, but chiefly the cheaper kinds…”. GEORGE HART,The violin and its music, Dulau and Schott, London, 1881, pp. 4647.
- LUIGI FORINO,Il violoncello, il violoncellista ed i violoncellisti, Hoepli, Torino 1905, pp. 5556.
- “Las mejores cuerdas nos parecen ser hoy las de la marca Pirastro; y de éstas las que llevan una etiqueta dorada.Su sonido es claro sin ser chillón; su afinación es generalmente justa, y su resistencia y duración no han sido hasta ahora superadas.Las marcas “Pirazzi”, “Padova”, “Elite” y “El Maestro” son también cuerdas de tripa de excelente resultado. Las de seda hilada suelen ser, de afinacion justa. Son buenas las que fabrica en Valencia José M. Dutrá, las de H. Hauser de Munich, y otras que por ignorar su procedencia, no puedo precisar.” EM I L I O PU J O L, Escuela Razonada de la Guitarra, basada en los principios de la técnica de T a r r e g a, Libro Primero, Ricordi Americana, Buenos Aires, 1934, p. 33.
- F. GALEAZZI, op. cit., pp. 7476.
- DI O N I S I O AG U A D O,Nuevo método para Guitarra, Madrid 1843 nel capitolo VII, punto 32 scrisse che “Il chitarrista deve essere maestro delle corde”.
- ARTHUR BROADLEY,String gauges, “The Strad”, April 1900, p. 371:“[At the present time the matter of string thickness seems to rest entirely with the makers, the player has practically to take what is given to him”. [Al giorno d’oggi la questione del calibro delle corde sembra dipendere completamente dai fabbricanti di corde e l’esecutore è praticamente obbligato a prendere ciò che gli viene dato. ]
- ’Les plus unies sous le doigt et transparentes sont les meilleurs”..MICHEL CORRETTE, Les Dons d’Apollon…, Paris, 1763, p. 221.
- F. GALEAZZI, op. cit, pp. 7172.
- “La corde la meilleure et qui doit faire le plus long usage, est celle qui change le moins d’aspect quand on la monte […].LABARRAQUE, op. cit., p. 131
- SPOHR, op. cit.,p.14.
- “Les chantarelles, dit M. P. Savaresse, doivent ètre transparentes, parfaitement unies et assenz régulières de grosseur. Elles ne doivent pas être trop blanches, car cela prouverait qu’elles ont été faites avec des agneaux tropjeunes, et lorsqu’on serre un paquet de chantarelles sous la main, elles doivent paraitre élastiques et revenir promptement comme le ferait un ressort d’acier.[…]. Les grosses cordes, deuxième et troisième, doivent, au contraire, être transparentes et très blanches. Il faut, en outre, qu’elles soient très molles quand on en comprime un paquet, mais elles ne doivent pas changer de couleur et elles doivent revenir promptement à leur état cylindrique; si elles présentaient trop de raideur, cela indiquerait qu’elles ont été faites avec des boyaux trop résistants,
et, dans ce cas, elles auraient une mauvaise qualité de son.” JEANCARL MAUGINWALTER MAIGNE, Nouveau manuel complet du luthier, 2a edizione, Roret, Paris, p. 184.
- “Choose those that are most transparent; the seconds and thirds, as they are made with several threads, are seldom very clear […] and hence, absence of transparency in their case denotes inferior materia”. HART, op. cit, pp. 4950.
- LUIGI FORINO,op. cit., pp. 556.
- Per “eguale sensazione tattile di rigidità” si intende lo stesso ammontare di spostamento laterale che si ottiene tra due o più corde anche diverse nel diametro, lunghezza vibrante, grado di torsione, intonazione etc. per mezzo di una stessa quantità di peso (simile in genere alla pressione indotta dal dito o dall’arco) agente nel medesimo punto.
- “Another general Observation must be This which indeed is the Chiefest: viz. that what siz’d Lute soever, you are to String, you must so suit your Strings, as (in Tuning you intend to set in at) the Strings may all stand, at a Proportionable, and ever Stiffness, otherwise, their will arise Two Great Incoveniences: the one to the Performer, the other to the Auditor. And here Note, that when we say, a Lute is not equally String, it is, when some Strings are stiff, and some slack.”THOMAS MACE,Musik’s monument […], the author & John Carr, London, 1676, Capitolo VI, pp. 6566.
- “[…] these double bases like wise must neither be stretched too hard, nor too weake, but that they may according to your feeling in striking with your Thombe and fingers equally counterpoyse the Trebles…”.John Dowland: “Other necessary observations belonging the lute”, in ROBERT DOWLAND,Varietie of lutelessons […], Thomas Adams, London 1610, paragrafo: “Of setting the right sizes of strings upon the lute”.
39 . “[…] when you stroke all the strings with your thumb must feel an equal stiffness[…]”. The Burwell lute tutor, manoscritto ca. 1670, facsimile con introduzione di Robert Spencer, Boethius Press, Leeds, capitolo IV: “Of the strings of the lute…”.
- SEGERMAN, inStrings through the ages, part 1, p. 55, scrive:“A more real advantage of equaltension stringing is that the ‘feel’ of each string is the same in the sense that the same force at the same relative position on the string pushes aside (or depresses) each string the same amount.…”. STEPHEN BONTA in Further thoughts on the history of strings, “The Catgut Acoustical Society”, Newsletter XXVI, 1 November, 1976, p. 22, riferendosi alle indicazioni di Thomas Mace riguardo alla omogenea sensazione tattile di rigidità da riscontrarsi sulle corde del liuto, scrive: “…it seems clear that tensions [intendendo come eguali Kg] between top and bottom strings on these instruments cannot have been too disparate for the very same reasons.”
- F. GALEAZZI, op. cit., pp. 7273.
- DANIELLO BARTOLI,Del Suono, de’ Tremori Armonici e dell’Udito, Trattati del P. Daniello Bartoli della Compagnia di Giesu, Roma 1679. A spese di Nicolò Angelo Tinassi. 4°, 8 + 330 + 1pp.; Proprietà Roberto Regazzi, Bologna.[/su_lightbox_content]
Il mistero delle corde basse per liuto
Il mistero delle corde basse per liuto
(english: coming soon)
di Mimmo Peruffo
tratto da Il Liuto Rivista della Società del Liuto Numero 19, novembre 2019
For we see, that in one of the lower strings, there soundeth not only the sound of the treble, nor any mixt sound, but only the sound of the base. 1
Introduzione
Riguardo ai bassi in solo budello impiegati nei liuti del XVI, XVII e agli inizi del XVIII secolo vi sono, ancor oggi, questioni non risolte.
I problemi cominciano ad emergere quando, verso la seconda metà del XVI secolo, viene aggiunto al liuto un settimo ordine grave accordato una quarta (talvolta una quinta) al di sotto del sesto:
The Lutes of the newe invention with thirtene strynges, be not subiecte to this inconvenince, where of the laste is put be lowe: whiche accordyng to the maner now abaies, is thereby augmented a whole fowerth 2

Una domanda si pone sopra le altre: ma questi nuovi bassi furono davvero così efficienti e potenti come alcune testimonianze e fonti storiche vorrebbero farci credere? E, se fosse vero, come fecero ad ottenere quel risultato?
Il quesito è ancor più lecito visto che già nel primo Cinquecento ci si lamentava, e non poco, della qualità acustica dei bassi del liuto a sei ordini: è cosa infatti nota anche alla maggior parte dei liutisti di oggi che una normale corda di budello, anche se ritorta ai massimi livelli (al fine di guadagnare la massima elasticità e quindi ottimizzare la sonorità) oltre certi diametri non suona affatto bene, producendo una sorta di sordo ‘rumore’ di breve durata dal quale si intuisce appena la nota prodotta.
Per quella data frequenza e lunghezza vibrante si ha in altre parole un elevato grado di ‘inarmonicità’ in virtù dell’elevato coefficiente di smorzamento interno. 3
Questo fenomeno è direttamente proporzionale alla sezione della corda per cui non è possibile scendere ulteriormente verso il grave.4
Se già non erano per nulla soddisfatti dei bassi del liuto a sei ordini, come mai tutto ad un tratto si comincia ad aggiungerne altri ed esserne anche soddisfatti?
Comunque essi abbiano operato, il segreto sta esclusivamente nel contrastare la rigidità della corda (in altre parole nel ridurre la sua ‘inarmonicità’).
Ad oggi ci sono soltanto due ipotesi che tentano di risolvere il dilemma. La prima immagina l’uso di budello intrecciato secondo il sistema utilizzato per le gomene da imbarcazione (sia che si mantenga visibile la tipica struttura ‘nodosa’, sia che si arrivi ad una superficie levigata). Questo secondo i ricercatori permetterebbe di giungere alla massima elasticità consentendo così di arrivare al limite di un intervallo di quarta (talvolta una quinta) al di sotto del sesto ordine.
La seconda ipotesi prevede invece che il budello allo stato fresco abbia subito un particolare trattamento di ‘carica’ per mezzo di metalli pesanti ridotti in polvere finissima (o suoi composti insolubili come ad esempio solfuri ed ossidi) al fine di incrementare la densità finale della corda. Così appesantita, una corda perde una buona parte del suo diametro (densità e diametro sono inversamente proporzionali) diventando pertanto molto più sonora e può essere realizzata sia in ‘alta torsione’ che secondo la struttura a gomena (con finitura liscia o ‘nodosa’) incrementando pertanto ancora di più la sua resa acustica (densità ed elasticità lavorano qui in sinergia).
In questo lavoro esaminerò le due ipotesi alla luce dei sette requisiti che ho identificato e che derivano direttamente dalla lettura delle fonti storiche e/o da considerazioni tecniche, sempre però legate ad una base di natura storica.
I sette requisiti sono i seguenti:
- i diametri dei fori per i bassi, nei ponticelli di molti liuti originali sopravvissuti, presentano misure veramente ridotte rispetto a come dovrebbe essere se si usassero delle normali corde di budello;
- il netto miglioramento delle qualità acustiche dei bassi a partire dalla seconda metà del XVI secolo, rispetto a quelli in uso nel periodo storico immediatamente precedente, così come registrato dalle fonti del tempo;
- eguale tensione/eguale sensazione tattile di tensione: implicazioni generali riguardo ai diametri delle corde;
- il colore delle corde gravi nei quadri dell’epoca;
- quando fu veramente introdotta la struttura che imita una gomena marina/ fune nelle corde sonore;
- i bassi del liuto e la loro superficie: finitura liscia o nodosa?
- dipinti che testimoniano il grado di flessibilità/morbidezza dei Bassi.
1) I diametri dei fori per i bassi nei ponticelli di liuti originali
Agli inizi degli anni ‘80 del secolo scorso Ricardo Brané5 prima e quindi io, osservammo che i fori al ponticello per le corde dei bassi dei liuti sopravvissuti erano troppo stretti per poter installare delle corde di budello naturale che avessero diametro sufficiente al raggiungimento di una tensione di lavoro ragionevole (vale a dire maggiore di 2,5 Kg).6 Indipendentemente dal fatto che sappiamo molto poco circa le ‘tensioni di lavoro’ usate dai liutisti del passato, si constata che a valori inferiori a circa 2,5 Kg, in un tipico liuto rinascimentale in Sol, la corda non può più essere controllata dal pollice della mano destra. Si perde vistosamente in potenza acustica e comincia a manifestarsi una notevole distorsione di frequenza quando questa viene premuta sui tasti.7
In tema di fori va tenuto in debita considerazione il modo in cui venivano realizzati: nella maggioranza dei casi risultavano infatti leggermente conici, non cilindrici.
Risulta evidente che non siano stati fatti nel modo impiegato oggi, cioè con una punta da trapano. Penso piuttosto che gli antichi liutai utilizzassero una serie di tondini di ferro, leggermente conici, dotati di punta resa rovente alla fiamma.
Infatti, su diversi ponticelli da me esaminati, si presentavano degli aloni bruciacchiati sia intorno al foro che all’interno di esso.
Comunque, in forza delle prime scarse evidenze, raccolte da Branè nel Museo degli strumenti musicali e all’Accademia Filarmonica di Bologna, cominciai una lunga ricerca, durata più di un decennio, che mi portò a studiare i ponticelli di numerosi liuti originali, disseminati in almeno una dozzina di musei musicali europei (Figg. 2-4), con l’intenzione di raccogliere sistematicamente tutte le misure dei diametri passanti al ponte per le corde basse. In totale sono riuscito a rilevare i diametri di più di 100 strumenti.



Alla conclusione delle osservazioni ho però preso in considerazione soltanto una metà degli strumenti rilevati: quelli che conservavano serie evidenze che il ponte fosse originale. In seguito ho scritto alcuni articoli che riportano tutte le misurazioni e i relativi calcoli.8
Dopo questa prima indagine riuscii ad effettuare ulteriori misurazioni su strumenti di collezioni private. Nel 2005 ho avuto modo di visitare il monastero benedettino di Kremsmünster (Austria) dove ho potuto analizzare alcuni interessanti liuti in re minore a 11 e 13 ordini,9 di proprietà del monastero stesso (Figg. 5-9), che mi hanno confermato ancora una volta la presenza di fori troppo stretti per corde basse di budello naturale calcolate con una ‘ragionevole’ tensione di lavoro. (Fig.10) In questi strumenti si osservano, ben visibili sulla tavola armonica, i segni delle posizioni delle dita della mano destra, aprendo così spazio per altre interessanti indagini e testimoniando quanto intensamente questi strumenti siano stati suonati.






Vale la pena di sottolineare che il diametro del foro al ponte non coincide certamente con quello della corda passante. In altre parole i fori devono avere, per forza di cose, un certo empirico sovradimensionamento rispetto alla corda stessa, altrimenti questa si incepperebbe e non lo attraverserebbe con facilità.
Basandosi su tutti i miei dati, il ricercatore e fisico Ephraim Segerman calcolò quindi il range di tensioni che avrebbero posseduto i bassi del tempo. Queste risultarono comprese tra 1,1 e 1,8 Kg.
Nel suo lavoro egli considerò corde con un diametro pari all’85% del massimo diametro passante per quel dato foro del ponte e ritengo che questo sia stato un buon criterio.10
È importante che quei calcoli siano stati fatti da lui e non da me. Egli è infatti il ricercatore che negli anni ‘70 ha introdotto la teoria che le corde gravi per il liuto e per gli archi, al fine di poter essere sonore, fossero rese più elastiche mediante la tecnica di torsione utilizzata nelle gomene marine e nelle funi. Segerman ancora oggi ritiene che l’ipotesi dell’appesantimento del budello non abbia alcuna evidenza storica.
Il fatto che questi fori presentino dei diametri così piccoli apre però una questione importante: potrebbero, nel passare dei secoli, essersi via via contratti?
Chiesi pertanto un parere ad alcuni famosi restauratori di oggetti d’arte in legno qui in Italia (Firenze e Milano per precisione) e la risposta fu che il legno, con il passare del tempo, tende piuttosto ad erodersi ed a diventare debole e inconsistente sotto l’attacco batterico, dei cambi climatici e del tempo. In altre parole ci si deve semmai aspettare che dopo secoli e secoli i fori siano andati via via ad allargarsi, non a restringersi.
Altra questione che potrebbe porsi è la seguente: cosa possiamo dire circa l’eventuale traccia di polvere presente all’interno dei fori? Potrebbe contenere tracce di metalli pesanti o relativi ossidi/solfuri rilasciati dall’antica corda? Ho preso però la decisione di non svolgere questo tipo di indagine. Infatti dopo tutti questi secoli è probabile che una notevole contaminazione porti a false conclusioni.
Ho scoperto comunque una importante imprecisione nel lavoro di Segerman: egli considera, nei suoi calcoli, una densità del budello pari a 1,30 gr/cm3, che è però quella tipica di una corda realizzata in bassa torsione, (che risulta molto rigida, compatta, totalmente inadatta quindi a realizzare delle efficienti corde per i bassi).
Avrebbe invece dovuto utilizzare come valore di densità quello di 1,10 gr/cm3, che è il valore medio tipico di una corda di budello realizzata come una gomena marina con superficie nodosa (la teoria, appunto, da lui sostenuta).11
Dopo le mie correzioni, il range di valori di tensione che si ricava risulta quindi compreso tra 0,9 e 1,5 Kg.
Forse non tutti hanno una chiara idea di cosa ciò significhi.
Fate da voi il seguente test: abbassate l’intonazione del vostro liuto (che risulta probabilmente tarato intorno ai 3,0 Kg medi: il valore più comune oggigiorno) o anche di una sola corda grave, di 9, fino a 11, semitoni e così potrete avere una idea precisa di cosa significhino questi valori di tensione. Risulterà ancora possibile suonare uno strumento in queste condizioni? Che qualità acustica globale e che controllo delle dita sulle corde ancora avremo? Sarà infatti evidente a chiunque che le corde diventino come elastici di gomma, con scarsa potenza sonora, scarsa prontezza di attacco, scarso controllo da parte del pollice della mano destra, rumore piuttosto che suono e infine, come se non bastasse, avremo molto pronunciato il fenomeno della pitch distorsion (le corde premute crescono di frequenza al minimo spostamento laterale e/o cambio di pressione sulle stesse sopra i tasti).



Suggerirei di fare questo test pratico almeno una volta, specialmente se si è avversi per principio alla teoria dell’appesantimento del budello.
Per essere realmente indicativo, il test dovrebbe essere però condotto usando corde in solo budello intrecciate secondo la tecnica della gomena marina, e non con corde moderne rivestite, o in fluorocarbonio, o gimped12 etc., le quali hanno in comune il fatto di possedere un peso specifico maggiore di quello del budello naturale. Nonostante questo, effettuandolo anche con tali tipologie di corde, si arriva a comprendere nettamente cosa significhi lavorare con questi bassi valori di tensione.
La mia domanda è: perché i liutai di allora non hanno fatto i fori semplicemente più grossi? Questa operazione è in sé molto facile; diversi liutisti oggi provvedono ad allargare i fori del lato bassi del ponticello nel caso intendano passare dalle tradizionali corde rivestite ai bassi in solo budello. Se all’epoca li hanno fatti invece così ridotti un motivo preciso deve ben esserci. Considerando che i fori per i bassi furono dimensionati così dai liutai del tardo XVI e del XVII secolo, per qualunque marca di corda grave, quale altra spiegazione ci è consentita se non il fatto che la matrice comune dei Lyons, dei Pistoys e forse, nel caso di Dowland, delle Venice Catlins,13 fosse l’appesantimento del budello?
Conclusione: se le corde dei bassi non sono in qualche modo densificate non si può raggiungere un adeguato valore di tensione di lavoro.
2) Il netto miglioramento delle qualità acustiche dei bassi a partire dalla seconda metà del XVI secolo, rispetto a quelli in uso nel periodo storico immediatamente precedente
Vi sono diversi scritti che testimoniano come le corde gravi del liuto del XVII secolo (dal sesto ordine compreso fino all’XI /XII ordine grave, per un liuto in re minore e/o con tratta corta) avessero migliori performance acustiche rispetto a quelle in uso tra la fine del XV secolo, fino al 1560’65 circa.
Johannes Tinctoris scrisse:
Un arrangiamento di cinque, qualche volta sei corde principali fu prima adottato, credo da parte dei tedeschi: cioè, due interne accordate per terza e le altre per quarta […]. Inoltre, al fine di ottenere una sonorità più forte, un altra corda accordata una ottava sopra fu addizionata alle principali, eccetto le prime.14

Sebastian Virdung (Fig. 14):
[…] a tutti e tre i bassi (prummer) sono addizionate corde di spessore medio […] una ottava più alta. Perché si fa questo? Perché le corde più grosse non possono essere udite così forte alla distanza come quelle più più sottili. Perciò le ottave sono aggiunte, così che possano essere udite come le altre.15

Dalla figura 15 potere vedere cosa Vincenzo Galilei scrive nel 1584:16
Qui si sta riferendo ai primi bassi aggiunti dopo il sesto. Il suo commento è decisamente sarcastico e anche di natura puramente conservativa (non amava che il liuto adottasse bassi ulteriori). Tralasciamo di commentare la soluzione proposta dal Galilei di aggiungere una ulteriore corda, ancora più acuta del cantino, che tecnicamente è una mission impossible (le ‘Colonne d’Ercole’ vale a dire l’Indice di Rottura del cantino esistono anche per Vincenzo!).

Contrariamente alle fonti comprese tra il tardo Quattrocento e la prima metà del Cinquecento, sia il Burwell Lute Tutor (verso il 1670)17 che Thomas Mace (nel 1676)18 documentano che i bassi in puro budello del loro tempo, anche se installati su di un liuto provvisto di tratta molto corta, (Fig. 16) erano talmente efficienti da arrivare persino a coprire e confondere il suono delle corde superiori, consigliando infine di tornare indietro allo strumento tradizionale sprovvisto di estensione per i bassi.
Mary Burwell Lute Tutor:
[…] the confusion that the length of sound produce it alsoe. […] every basse sound make a confond with every string […]

e, parlando dell’XI ordine:
[…] the lutemasters have taken away that great string because the sound of it is too long and smothis the sound of the others.19

Thomas Mace:
This inconvenience20 is found upon French Lutes, when their heads are made too long; as some desire to have them […].21
Fig. 16 b: Thomas Mace, 1676: descrizione della sonorità delle corde gravi del Liuto
Bisogna essere qui ben consapevoli di una cosa molto importante: quanto riportato dai due trattati non costituisce opinione soggettiva bensì comparazione di natura oggettiva tra le corde superiori e i bassi. Lo stesso tipo di confronto può essere fatto in altre parole anche da noi. Producendo una valutazione di tipo comparativo e non di natura assoluta ci poniamo fuori da un giudizio personale, che sarebbe potuto essere improntato al gusto e alla sensibilità del tempo.
Chiunque oggi può infatti tranquillamente verificare come anche il miglior basso di budello fatto secondo una struttura a gomena non sia assolutamente in grado di coprire e confondere il suono delle corde più acute; la sua sonorità, viceversa, è invece sorda e debole, se comparata a quella delle corde superiori.
Ci sono ulteriori testimonianze, in termini questa volta soggettivi, che ci danno un’idea del tipo sonorità dei bassi del liuto alla loro epoca:
[…] L’altro è che potendosi trovare un leuto à otto ordini, come li suol fare perfettissimi un Maestro Tedesco ch’è in Padova nomato Mastro Venere Alberti faria piacere à S. Altezza [Alfonso d’Este] di presentarglielo: il qual leuto havendo poi à servir per me, desidero che sia delli ordinarij, in quanto alla grandezza, et que’ dui ordini bassi più delli sei costumati siano li bordoni fermi, et sonori d’una corda per ciascuno, et non di due, et infine che ‘l leùto sia armonioso et argentino, cioè con suono chiaro et sonoro, et che i bassi rimbombino il più che si può.22
For we see, that in one of the lower strings of a lute, there soundeth not the sound of the treble, nor any mixt sound, but onely the sound of the base.23
[…] still torturing the deep mouth’d Catlines till hoarse thundering diapason should the whole room fill […].24

Mersenne scrive che il suono/la vibrazione della corda più spessa del liuto (nel suo caso è il XI ordine) durava almeno venti secondi (Fig. 17). Personalmente non ho mai sentito qualcosa del genere, sia che si trattasse di una corda in budello ritorta come una gomena marina, ma anche nel caso di un basso moderno rivestito su anima in multifilamento di nylon (che presenterebbe in assoluto il sustain maggiore). Ritengo che questa affermazione sia esagerata, non attinente al reale oppure riferita alla durata della vibrazione più che alla sonorità propriamente detta. Una presunta vibrazione di almeno venti secondi da parte una corda di budello risulta in ogni caso lontana dalla realtà.
Conclusione: facendo un esperimento con una corda in budello nudo, ritorta come una gomena marina, ne risulta che essa non è affatto in grado di raggiungere la performance dei bassi in budello descritta dalle fonti del XVII secolo rispetto a quelle superiori. Al contrario, la sonorità risulta debole, povera di armonici, di scarsa durata e certamente non in grado di prevaricare le corde più acute.
3) Eguale tensione/sensazione tattile di tensione: implicazioni generali riguardo ai diametri delle corde
Se si considerasse un profilo di eguale tensione (o, più storicamente parlando, di eguale ‘sensazione tattile’ di tensione)25 ammettendo che i bassi davvero lavorassero con questi ridotti valori di tensione,26 la prima corda arriverebbe ad avere un diametro compreso tra 0,26 e 0,32 millimetri soltanto; quelle del secondo ordine intorno 0,36-0,38 millimetri mentre quelle del terzo ordine attorno 0,48-0,50 mm
Non ho mai visto in tutta la mia esperienza di ricercatore e cordaio una prima corda così sottile e, per quello che conosco, non credo che esista in natura un intestino intero di agnello che possa raggiungere calibri simili.
Il diametro più sottile che sono riuscito a produrre è di circa 0,34-0,42 millimetri (dopo una leggera levigatura manuale si riduce di un poco)27 partendo appunto da un singolo budello intero di agnello di circa un mese di età.28
Per la precisione, il range di diametro che ho potuto ottenere da diversi campioni di budello intero di agnello, di diversa provenienza, è il seguente: 0,38 – 0,46 mm. Conclusione: in base alla mia esperienza, non si trovano intestini di agnello che siano così sottili da produrre cantini di diametro inferiore a 0,38 mm. Questo fatto porta all’impossibilità di mantenere per l’intera montatura i valori di tensione calcolati da Segerman. Viceversa, considerando il range dei valori di diametro che si ottengono realmente da un singolo budello di agnello (0,36-0,46 mm) la tensione di lavoro balza a valori compresi tra 3,5 e 4,5 Kg.
Dovendo assicurare, per forza di cose, una eguale sensazione tattile di tensione tra tutte le corde del liuto (come sempre indicato dalle fonti storiche) ecco di conseguenza che la tensione di lavoro dei bassi si deve attestare anche essa intorno a valori di 3,0-3,5 Kg, non certo di 0,9-1,5 Kg come calcolato da Segerman e da me corretto.

4) Il colore delle corde gravi nei quadri dell’epoca
Molti ritengono che la questione del colore delle corde basse sia l’evidenza primaria che supporta la teoria dell’appesantimento del budello.
Ma questo non è vero. Il colore infatti rappresenta in realtà l’ultimo punto nella scala delle evidenze e ci suggerisce che questi bassi fossero lavorati in modo tecnologicamente avanzato. I colori, aventi una mera funzione estetica, per i Treble e i Mean menzionati dalle vecchie fonti29 sono i seguenti: blu chiaro, verde chiaro, giallo e rosso chiaro.
In taluni dipinti del tempo è possibile talvolta osservarli tra il primo e il quinto ordine, su entrambe le corde del coro o anche soltanto su una. Corde colorate sono talvolta visibili come ottave associate ai bassi.30 Invece, nei bassi rappresentati dai dipinti, quando sono colorati, è possibile osservare soltanto toni cromatici che variano dal giallo canarino, all’arancio scuro, al rosso cupo fino a tutte le variazioni del marrone e infine al nerastro. (Figg. 19-30)
Ci sono cose ulteriori da osservare: queste colorazioni partono dal sesto ordine compreso fino all’ultimo basso e presentano la stessa medesima gradazione di tonalità tra tutti i bassi del dipinto: in altre parole si trovano esattamente là dove oggi utilizziamo corde di nylon rivestito, o fatte a gomena, o in fluorocarbonio.
Esse infine sembrano piuttosto sottili.



Fig. 22: Liutista francese del XVII secolo, Anonimo, 2a metà del XVII secolo, Hamburger Kunsthalle: dettaglio







Fig. 28 a: FRANÇOIS DE TROY, Ritratto del liutista Charles Mouton, 1690 ca., Museo del Louvre, Parigi. Particolare.
Fig. 29: FRANÇOIS DE TROY, Ritratto del liutista Charles Mouton, 1690 ca. Museo del Louvre, Parigi. Particolare delle corde sulla rosa (notare i bassi rosso cupo).

Fig. 30 b: ENGLON HENDRIK van der NEER, Ritratto di liutista, 1677. Colocazione ingota all’autore (notare i bassi rosso cupo).
Fig. 30 c: ENGLON HENDRIK van der NEER, Ritratto di liutista, 1677. Colocazione ingota all’autore (notare i bassi rosso cupo)
Volendo raggiungere una densità doppia rispetto a quella del budello (più in là, sempre in questo articolo, spiegherò perché questa cosa è di una certa importanza)31 risulta indispensabile utilizzare qualche sostanza che possieda un elevato peso specifico e abbia la caratteristica di essere insolubile e macinabile in forma di polvere molto sottile.

Bene, tra le sostanze più pesanti, insolubili, largamente in uso nel XVI/XVII secolo, proprio quelle dotate di peso specifico superiore a 8-9 gr/cm3 (pigmenti minerali come ossidi, solfuri, rame metallico, risotto in polvere etc) possiedono un range di colorazioni che sono esattamente sovrapponibili a quelli riscontrati nei bassi dei dipinti e di alcune fonti storiche, variando essi infatti dal cupo rosso, al giallo, a tutte le gradazioni di marrone fino al grigio scuro: una pura coincidenza? (Fig. 31) Nessuna traccia è presente, in questi dipinti del XVII secolo, di gradazioni di verde o di blu nell’intera sequenza di bassi rappresentati come descritto invece dai trattati per le corde colorate come i Trebles e i Meanes.

Questi pigmenti pesanti e insolubili, comunemente in uso nel XVI e XVII secolo, sono ossidi e solfuri di piombo e mercurio (Fig. 32) oltre alla polvere di rame metallico parzialmente ossidato (si sono ritrovate alcune ricette delle metà del XVI secolo che spiegano come ottenerlo).
Per completare il discorso è importante chiarire che è possibile caricare del budello allo stato fresco con litargirio giallo, minio di piombo marrone chiaro oppure ossidi di mercurio, sempre marrone chiaro. Questo avrebbe consentito a un pittore dell’epoca di dipingere i bassi ancora della stessa gradazione cromatica delle corde superiori in budello naturale non caricato (giallo/marrone chiaro):
Fig 31 b: PETER PAUL RUBENS, Suonatore di Liuto (1609-1610): corde gravi giallo/maroni
In altre parole non è affatto detto che una corda appesantita debba necessariamente avere una colorazione diversa da quella realizzata soltanto in budello naturale. Una corda può essere pertanto caricata anche in maniera piuttosto generosa e presentare ancora una colorazione del tutto simile a quella del budello naturale.
Vi è ora una considerazione finale: i deep dark red color menzionati da Thomas Mace per i Pistoy possono essersi ottenuti intenzionalmente addizionando del colorante rosso a delle corde in budello fresco già caricate con qualche agente di colore differente così da avere una colorazione di brand riconoscibile a vista dal cliente.
Conclusioni: la colorazione che si riscontra sulle corde gravi rappresenta l’ultimo punto nella scala delle evidenze che ci portano a credere che i bassi del liuto subissero una lavorazione particolare. Risulta interessante la coincidenza che le poche sostanze del tempo aventi pesi specifici molto elevati, come gli ossidi e i solfuri di alcuni metalli pesanti in uso allora, possiedano la stessa gamma di colore dei bassi (rosso cupo, arancio, diverse gradazioni del marrone fino al nerastro). Non esiste alcuna menzione, nei trattati, di corde gravi verdi, blu etc. E’ possibile infine caricare il budello con pigmenti aventi la sua stessa colorazione naturale, rendendolo pertanto esteticamente simile alle corde superiori non caricate.
5) Quando fu veramente introdotta la struttura che imita una gomena marina/fune nelle corde sonore

Alcuni ricercatori, ancor oggi, ritengono che le corde gravi con un intreccio simile a quello delle gomene marine/funi (le Catline, per Segerman) siano state introdotte intorno al 1565-70 e questo abbia permesso al liuto quella decisiva espansione verso il grave avvenuta mediante l’aggiunta del settimo ordine, accordato una quarta/quinta sotto al sesto. Questo punto di vista deve però essere aggiornato. Alcuni anni fa il ricercatore Patrizio Barbieri scoprì alcune fonti risalenti alla seconda metà del XV secolo dalle quali risulta finalmente chiarito che le corde con questo tipo di manifattura erano già in uso negli strumenti da musica32. In realtà corde di questo tipo venivano già usate durante il tardo periodo imperiale di Roma. (Fig. 33)

Barbieri evidenziò inoltre la presenza di macchine avvolgitrici, chiamate ‘orditori’ (Fig. 34) e usate comunemente per realizzare funi marine e cordami in genere, già in alcune fonti riguardanti i cordai romani del XVI secolo.33
Considerando queste nuove fonti, si può dunque ritenere che le corde avvolte a gomena (anche lisce) menzionate nella seconda metà del XV secolo, grazie alla loro miglior elasticità rispetto a quelle tradizionali in altra torsione, permisero l’addizione del sesto ordine al liuto e agli strumenti ad arco coevi.
In questo modo il nuovo limite acustico raggiunse le due ottave piene.
Un particolare: la grande elasticità presentata dalle corde di questo tipo rende molto contenuto quello che gli inglesi definiscono fret sharpness (la crescita di frequenza che si manifesta quando delle corde di un certo spessore e con maggiore rigidità vengono premute sui tasti). Nessun trattato per liuto, dal primo Cinquecento in poi, espone lamentatele per questo fenomeno mentre si arriva a trattare il problema di una presunta differenza di diametro tra i due estremi di una corda (vedere Capirola 151734 e Vincenzo Galilei 156835 ).
Ecco il punto: se le corde dei bassi fossero realizzate semplicemente in alta torsione questo fenomeno risulterebbe molto presente rendendo lo strumento costantemente stonato, anche tra il basso e l’ottava all’interno dello stesso ordine.
Chiunque può infatti verificare da sé che tastando un coro grave in alta torsione si verifica una stonatura che è anche di natura ‘interna’ al coro/ordine, vale a dire tra la grossa corda del basso e quella sotti le dell’ottava appaiata, e può concludere che un liuto montato in questo modo non è per nulla funzionale.
Può la non menzione di questo problema nei trattati di allora essere una evidenza indiretta circa l’uso, nel liuto a sei ordini, di bassi realizzati con la struttura tipica della fune/gomena?
Dando quindi per dimostrato che le corde realizzate come le gomene (non sappiamo se con superficie liscia o nodosa) fossero già conosciute a partire dalla seconda metà del XV secolo, cosa realmente capitò verso la seconda metà del secolo seguente, quando nel giro di poco tempo venne addizionato al liuto un basso accordato direttamente una quarta, talvolta una quinta al di sotto del sesto? E cosa fece diventare quei bassi aggiunti, come per magia, potenti e sonori?
La questione è cruciale e ancora una volta ci chiediamo quale novità tecnologica possa essere intervenuta.
Conclusioni: ci sono chiare evidenze storiche che testimoniano che le corde di budello con struttura a gomena erano già in uso almeno dalla seconda metà del XV secolo. Di conseguenza non può essere stato questo tipo di tecnologia a determinare l’espansione delle corde gravi del liuto che avvenne nella seconda metà del Cinquecento. La nuova tipologia di bassi in puro budello risulterà molto performante rispetto a quelli precedenti, la cui resa acustica risultava al contrario deficitaria tanto da provocare delle lamentele e rendere indispensabile l’impiego di una ottava appaiata.
5) I bassi del liuto e la loro superficie: finitura liscia o nodosa?
Soltanto ai nostri giorni si ritiene che la superficie delle corde basse del tempo fosse nodosa come una fune o una gomena marina: invece tutte le fonti storiche in nostro possesso mettono in chiaro che le corde erano lisce, oppure non dicono nulla in merito. Questa evidenza documentaria può essere considerata come una risposta garbata a Charles Besnainou, un ricercatore francese che considera basate su criteri di storicità le corde da lui realizzate che presentano appunto una superficie nodosa.
Per realizzare le suddette corde uno dei metodi è quello di prendere una lunga corda, piegarla a metà e ritorcerla su se stessa in opposta direzione rispetto alla fibra di partenza. Più precisamente uno dei lati della corda vien lasciato per un tratto di pochi centimetri non ritorto così che uno dei due capi possa passare attraverso il foro del ponticello e quindi andare ad annodarsi al di sopra con l’altra porzione di corda.
Questa soluzione, secondo la sua opinione, era la via usata al tempo direttamente dai suonatori stessi e può giustificare il diametro ridotto dei fori dei ponticelli storici.36

Ma ecco in realtà cosa abbiamo trovato nei documenti del tempo in riferimento alla superficie delle corde: Mersenne afferma (Fig. 35) che le corde si presentano in generale come lisci cilindri la cui superficie viene levigata per mezzo di un’erba di natura abrasiva (Equiseto). Egli però non dice nulla che ci possa far credere che questa procedura fosse impiegata soltanto per le corde più sottili.37
Thomas Mace afferma con chiarezza che i Pistoy dal colore rosso cupo (per lui i bassi migliori) erano lisci:
They are indeed the very best, for the basses, being smooth and well-twisted strings […].
Questa affermazione non implica tuttavia automaticamente che gli altri bassi da lui menzionati, i Lyon, non lo fossero. In realtà Mace non dice proprio nulla in merito alla loro superficie.38
James Talbot scrive che ‘i Lyons’ del violino erano lisci:
Best strings are Roman 1st & 2nd of Venice catlins: 3rd & 4th best be finest & smoothest Lyons, all 4 differ in size […].39
Il Mary Burwell Lute Tutor, indica quali fossero le migliori corde per liuto (Romans per gli acuti e Lyons per i bassi e le rispettive ottave) e spiega che un importante aspetto delle corde era quello di presentarsi libere da irregolarità della superficie (libere cioè da knotte e rugged). I bassi tipo Lyons sono chiaramente inclusi.40
Thomas Mace, in aggiunta, scrive che le Venice Catlin per i Mean erano lisce, così quando aggiunge che ‘i bassi di Pistoia’ non erano per lui altro che grosse Venice Catlin, intende che anche questi fossero lisci.41
Nel quadro di Rutilio Manetti (Figg. 36a-36e) possiamo vedere un liuto e una cetra. Questo dipinto è realizzato veramente in maniera molto accurata: è possibile infatti osservare che i bassi del liuto si presentano lisci mentre le corde della cetra appaiono di metallo ritorto. Tutto questo nello stesso dipinto. Se i bassi del liuto fossero stati di aspetto nodoso, come quelli della cetra, il pittore lo avrebbe certamente rappresentato così come ha fatto per la cetra stessa.42
Fig. 36a: L’autore di questo scritto davanti al quadro di Manetti.
Fig. 36b: RUTILIO MANETTI, La vittoria dell’Amore terreno, particolare di liuto e cetra. [Foto dell’autore]

Fig. 36d: RUTILIO MANETTI, La vittoria ell’Amore terreno, Particolare della cetra. [Foto dell’autore]
Fig. 36e: RUTILIO MANETTI, La vittoria dell’Amore terreno, particolare del ponticello del liuto.
La grande precisione di molti dei pittori del tardo Cinquecento e dell’intero Seicento la si ritrova anche in altre opere. Ecco ancora due esempi (Figg. 37-38 e 38 a) in cui è fedelmente riprodotta la tipica struttura a trecciola (data da due fili metallici intrecciati assieme) delle corde usate per queste Cetre.
Conclusione: le fonti storiche in nostro possesso testimoniano che tutte le corde dei liuti, bassi compresi, avevano una superficie liscia, non nodosa. Se non fosse stata tale i pittori del tempo lo avrebbero sicuramente evidenziato esattamente come hanno fatto per le Cetre.
Fig. 37: EDWARD COLLIER, Natura morta, 1696, Tate Britain, London. Particolare.

Fig. 38a: Attribuito a ANTIVEDUTO GRAMATICA (1571-1626), Santa Cecilia: dettaglio
1) Dipinti che evidenziano la morbidezza e la flessibilità dei bassi in puro budello del liuto

In diversi dipinti risalenti al XVII secolo le corde gravi del Liuto appaiono piuttosto sottili rispetto a quel che ci si potrebbe aspettare se fossero realizzate in budello naturale. Inoltre sono all’apparenza lisce e molto flessibili: per nulla simili all’aspetto di una fune o gomena marina. (Fig. 39)
In alcuni casi (Figg. 40, 41) è possibile avere una approssimativa idea di quanto fossero flessibili questi bassi.
Conclusione: alcuni dipinti del XVII secolo mostrano le corde gravi del tempo come flessibili, lisce e più sottili di quello che ci si aspetterebbe se fossero state in normale budello.
Fig. 40: RUTILIO MANETTI, La vittoria dell’Amore terreno, dettaglio delle corde gravi lisce e flessibili.

Fig. 41b: JAN DAVIDSZ DE HEEM: dettaglio sull matassina di corda rossa (1660-1665)
Conclusioni
Esiste soltanto una spiegazione che possa comprendere assieme tutti e sette i requisiti descritti sopra: le corde di budello dei bassi del tempo dovevano avere una struttura simile a quella delle funi (ma con superficie lisciata) e dovevano essere appesantite con un qualche agente di carica al fine di incrementarne la densità. La carica doveva essere piuttosto generosa così da raggiungere il limite di una quarta/ quinta al di sotto del sesto ordine. L’agente di carica doveva essere di natura minerale, dotato di elevatissimo peso specifico, insolubile e ridotto in polvere molto sottile (se non impalpabile).
Va sottolineato che la combinazione tra l’elevata densità e l’elasticità data dalla struttura a gomena è in assoluto la via migliore per assicurare la massima resa acustica dei bassi, soprattutto quelli di uno strumento così complesso quale è il liuto

Un processo di ‘incorporazione’ in somma. Non vi è nulla di strano nel ritenere che il budello per le corde gravi possa aver subito un processo di incorporazione di materiali estranei al fine di incrementare la densità. Vi sono diverse evidenze documentarie che testimoniano come gli antichi fossero ben consapevoli che la densità del materiale con cui è fatta la corda assuma un ruolo fondamentale per il raggiungimento delle frequenze gravi. (Figg. 42, 43)
Soffermandoci su questo passaggio di Mersenne, (Fig. 43) si comprende bene come l’idea di incorporare nel budello dei «corpi più terresti e più pesanti» come i metalli, al fine di rendere le corde «più len te a muoversi» (Bartoli: Fig. 42) sia un processo perfettamente in linea con la cultura di allora, basata sui principi Aristotele e la teoria dei ‘quattro elementi’.
Mi fermo qui e passo volentieri la mano a coloro che sono più esperti di queste tematiche invitandoli ad approfondire la questione.
Ritenendo credibile l’ipotesi dell’appesantimento sorge ora spontanea una domanda: ma quale incremento di densità si doveva raggiungere?
Ho sviluppato intorno a questo quesito la seguente ipotesi: grazie alle ‘lamentele’ di Virdung, Galilei ecc, deduciamo che il diametro del sesto ordine rappresentasse in qualche modo, empiricamente, il massimo limite acustico verso il grave al limite dell’accettabilità, uditiva ed estetica, per quel tempo. Questo nonostante un ‘aiutino’ fosse dato dall’ottava appaiata. Per una serie di considerazioni tecniche riguardanti il tipo di budello allora utilizzato, possiamo identificare per il sesto ordine di liuto rinascimentale un range di diametro compreso tra 1,35 e 1,45 mm.
Per le leggi della Fisica, se si lavora sul medesimo tipo di materiale e con analoga struttura manifatturiera della corda, lo stesso diametro limite attribuito al sesto ordine del liuto risulta il limite massimo anche per l’ultimo basso dei Liuti a 7, 8 o 10 ordini (così come anche quello in Re mi nore con 11 ordini). Tutti questi strumenti hanno infatti la caratteristica comune di possedere un’escursione (detta open range), tra il cantino a vuoto e l’ultimo basso, di due ottave e una quarta, talvolta anche una quinta.
Secondo i calcoli, volendo dunque scendere di un intervallo di quarta e non superare il diametro del basso al sesto ordine del ‘vecchio’ liuto a 6 cori (1,35-1,45 mm), la densità della corda deve essere almeno il doppio di quella del budello natu rale (che è di 1,3 gr/cm3).
Tutto questo trova conferma nei diame tri dei fori per i bassi nei ponticelli dei liuti sopravvissuti.
È interessante osservare come il nuovo open range di due ottave ed una quarta/ quinta rimanga lo stesso anche nel liuto ad 11 ordini in re minore. Esso si espande so lamente con la comparsa del modello a 13 ordini (con cavalletto per gli ultimi 2 bassi per quello a collo di cigno la questione è ancora aperta) che utilizzava però, come ormai sufficientemente accertato, bassi di tipo rivestito (siamo nel 1718/19 ca.). L’escursione di due ottave più una quarta/ quinta veniva incidentalmente raggiunta anche da uno strumento ad arco la cui pri ma menzione risale, guarda la coincidenza, intorno al 1580: la viola bastarda (o ‘alla bastarda’).43
Ho eseguito naturalmente alcuni test pratici per verificare se queste considera zioni, riguardanti il grado di densità, pos sano essere tecnicamente raggiungibili ed, in effetti, si riesce a caricare il budello fresco fino a poco più del doppio del suo peso specifico (ma non oltre: la corda perde infatti la sua integrità fisica).
Nei test ho utilizzato alcuni pigmenti molto pesanti ed insolubili, come ad esempio il minio di piombo, per arrivare infine alla polvere di rame metallico, ben conosciuta anche nell’antichità. Tempo addietro avevo infatti ritrovato alcune ricette, (Figg. 44a-44c) risalenti alla metà del XVI secolo, in cui veniva spiegato come ottene re la polvere di questo metallo, ma anche quella di oro e argento.44
Qualunque ipotesi oggi avanzata per risolvere il mistero di come i bassi del liuto venissero realizzati, non può non tenere conto di tutti e sette i requisiti sopra men zionati. Qualunque critica è sempre benvenuta, ma alla condizione che nessuno di questi punti sia omesso. Essi derivano infatti da chiare evidenze storiche, non da idee generiche e non supportate.



Cosa viene opposto a queste conclusioni:
- Le corde dei bassi erano fatte a gomena e venivano realizzate dai liutisti stessi direttamente sullo strumento
Nella conferenza presentata a ‘Corde Factum’ nel maggio del 2008,45 Charles Besnainou espone la sua idea che è quella che si utilizzasse una ordinaria corda di budello, di sufficiente lunghezza e diametro, che potesse passare attraverso i fori dei ponticelli storici per poi venir piegata a metà e ritorta su se stessa direttamente sullo strumento. Un lato della treccia così realizzata verrebbe lasciata per alcuni cen timetri con i due capi di corda non intrecciati in modo che solo una corda delle due possa attraversare il foro del ponte ed annodarsi con l’altro tratto che sta fuori dal detto foro. Un’alternativa a questa operazione, secondo lui realizzata dal liutista stesso, vedrebbe invece il cordaio realizzare il suddetto basso lasciando aperti i due capi liberi per la successiva annodatura. C’è da notare che una corda di questo tipo presenterebbe necessariamente una super ficie non liscia, ma nodosa, come una fune.
Le nostre considerazioni:
- Questa ipotesi scarta la più banale delle domande: perché i liutai del tempo non hanno semplicemente fatto dei fori più grandi (esattamente come si fa oggi quando si vogliono montare bassi in solo budello di un certo diametro)?
- Un’ipotesi come quella descritta richiede che le corde siano prima inumidite per poi essere accuratamente ritorte sopra lo strumento utilizzando una speciale attrezzatura che esegua questo lavoro alla Poi andrebbero lasciate accuratamente essiccare prima di poterle annodare al ponte. Nessun trattato del tempo ha mai accennato ad una simile procedura, né alla suddetta attrezzatura, né alla necessità di procurarsi un lunga corda dei medi per poter realizzare i bassi.
- La teoria di Besnainou, se comparata ai sette requisiti sopra menzionati non arriva a soddisfarli tutti.
Esattamente come accade per l’ipotesi formulata da Ephraim Segerman, concernente una possibile struttura a gomena con conseguente nodosità della superficie della corda.
Risulta in qualche modo interessante ricordare che la connessione etimologica tra la parola catline ed un possibile termine nautico (‘line’ in inglese significa anche ‘gomena’) non sia in realtà mai stata supportata da alcuna fonte storica, come sottolineato da diversi altri ricercatori.46
Ricordiamo qui che l’ipotesi della struttura a gomena fu, negli anni ‘90 del secolo scorso, rifiutata dallo stesso Segerman il quale, avendo realizzato che la vihuela poteva ‘permettersi’ i bassi in unisono (ipotesi oggi contrastata da mie recenti ricerche) considerò da quel momento valida una possibile connessione del termine catline con la Catalogna.
Proprio la Catalogna fu invero nel passato un centro produttivo di corde di budello, ma, ancora una volta, non esistono affatto evidenze storiche che supportino questo legame linguistico. Si sa invece che la Spagna importava da Monaco ingenti quantità di costose corde armoniche.47
In realtà, quel poco che sappiamo delle ‘Catlines’ è che furono fabbricate in Italia intorno all’area Bolognese, mandate a Venezia (e questo spiega la dicitura Venice Catlins di Dowland) e da qui spedite poi in Inghilterra. Non sappiamo però come gli italiani chiamassero questo tipo di corda e soprattutto i dettagli tecnici di come venissero realizzate.
Ecco ora, nella lista che segue, il rias sunto di tutto quello che considero lontano sia dalle evidenze storiche che dalla mera funzionalità dello strumento.
- Può un liuto lavorare con tensioni di 0-1.5 Kg? Poco probabile (provate da voi calando di 9-11 semitoni la frequenza delle corde del vostro strumento).
- E’ possibile ottenere un cantino di budello da 0,26-0,32 mm? No, non è possibile: non esistono – in base alla mia esperienza – ovini che possano produrre questo diametro partendo da un singolo budello
- Corde basse in budello con superficie nodosa come una fune furono mai menzionate nelle fonti storiche? No, non esiste alcuna evidenza e sarebbe comunque stato descritto nei trattati e visibile nell’iconografia. Mersenne è un buon esempio: egli scrive che le corde metalliche più grosse per la Cetra si ottenevano prendendo un lungo filo che si piegava nel mezzo e le due metà si torcevano assieme come per realizzare una fune. Inoltre specifica che questa operazione aveva la finalità di ottenere una sonorità migliore e più Nel caso delle corde di budello invece non descrive questo metodo bensì il fatto che venissero tutte levigate fino al liscio per mezzo di un’erba abrasiva.
Vi è in questa evidenza un ulteriore fatto interessante: Mersenne è ben consapevole, e lo scrive, che una corda intreccia ta come una fune produce un suono migliore rispetto ad una derivante da un filo semplice. Nonostante questa sua consapevolezza, tale tecnica, nel caso delle corde di budello, non è menzionata anche se riteniamo che fosse utilizzata, ma non partendo da due corde secche già realizzate. Dubito però che Mersenne abbia mai visitato una corderia del suo tempo.
Le attuali corde di budello intrecciate come una fune sono potenti abbastanza da coprire e confondere la sonorità di quelle superiori? Assolutamente no: basta provare (facendo però il test con uno strumento a tratta corta come quello di ‘Gaultier l’inglese’ e usando delle corde di budello, visto che le fonti storiche a questo si riferiscono).
I bassi dei liuti furono corde nodose come funi ottenute intrecciando su se stessa una lunga corda dei ‘medi’ che sia stata prima piegata nella sua metà? Le fonti maggiormente dettagliate del XVII secolo concernenti le corde del liuto48 descrivono tre tipologie base: Treble; Mean; Bass. I ‘bassi’ furono chiamati: ‘Lyons’, ‘Venice Catlines’, ‘bassi di Norimberga e Strasburgo’, ‘i rosso cupo Pistoys’. Se questa ipotesi del ricercatore Besnainou fosse valida dovremmo aspettarci che il terzo sort di corde, i ‘bassi’ cioè, non esista: si dovrebbero infatti ottenere in situ intrecciando su se stessa una lunga corda adatta ai mean. Non dovremmo inoltre aspettarci alcun nome proprio per questi bassi, come invece, al contrario, accadde. Infine dovremo trovare da qualche parte menzione del fatto che il liutista dovesse ritorcere da se le corde per i bassi e trovare traccia del ‘torcitore da casa’ che sarebbe necessario a compiere questa delicata operazione: nulla di tutto questo è mai stato descritto dalle fonti storiche.
Esistono dipinti o altre fonti storiche che evidenziano uno speciale modo di fissare le corde al ponticello dopo aver separato tra loro i due trefoli49 con cui è normalmente realizzata una corda fatta come una fune/gomena come ipotizzato da Charles Besnainou? No, almeno per quanto ne sappia io.
Ecco da questi pochi esempi quello che in realtà possiamo osservare. (Figg. 45-49)
Fig. 46: LAURENT DE LA HYRE, Allegoria della Musica, 1649, Metropolitan Museum, New York. Dettaglio del ponticello.

- I trattati del tempo hanno mai menzionato l’esistenza di uno speciale attrezzo utilizzato dai liutisti per ritorcere da se le corde dei bassi? Secondo le mie informazioni non risulta.
- Esiste una qualche evidenza storica che porti a ritenere che ci fosse un legame tra il termine Catline/Catlins e la Catalogna? Oppure tra lo stesso termine e la gomena marina? Secondo le mie informazio ni
B) Non esiste alcuna testimonianza diretta proveniente dai cordai del tempo che le corde di budello dei bassi del liuto venissero appesantite
Le nostre considerazioni:
Se non si considera come attendibile l’idea che il budello fosse in qualche modo ‘densificato’, come spiegare il perché dei sottili fori dei ponticelli e della concomitante notevole potenza acustica manifestata dai bassi del tempo? Tuttavia è vero che non esiste alcuna testimonianza diretta da parte dei cordai del tempo riguardo ad una possibile tecnica di appesantimento del budello (una ricetta, uno scritto, una testimonianza ecc). Come a dire il vero non esiste in realtà alcuna informazione diretta, tramandata dai cordai del XVI, XVII secolo, concernente la loro arte in generale, non solo in merito alla tecnologia delle corde gravi.
In particolare non esiste alcuna testi monianza diretta dei cordai che alcune tipologie di corde in budello fossero realizzate come le funi. Abbiamo solo la segnalazione negli inventari delle botteghe di artigiani romani della presenza degli orditori, che sono torcitori a tre o quattro ganci atti a realizzare funi, ma è vero anche che i cordai di allora (e fino a pochi decenni fa), producevano corde con destinazione diversa da quella musicale, come ad esempio per battere il cotone, per cinghie di tra smissione e anche per il tennis.50
La verità sta nel fatto che l’attività cordaia fu sempre altamente preservata e secretata. Nulla fu divulgato all’esterno e tantomeno furono scritti libri o trattati in merito. Chi parlava o frodava veniva duramente punito mediante galera o fustigazione e ai discendenti era vietato fare corde per alcune generazioni.
In realtà, come abbiamo già visto, esiste una certa quantità di evidenze indirette che possono fornirci egualmente, con buo na probabilità, una panoramica di come le cose andassero.
Ecco un esempio dell’importanza delle evidenze di natura indiretta: il pianeta Plutone fu scoperto non tanto perché lo si vedesse direttamente al telescopio ma in virtù delle anomalie gravitazionali che esso induceva sul ‘vicino’ pianeta Urano. In base ai calcoli si arrivò dunque alla con clusione che non solo un tale pianeta esistesse ma si riuscì a determinarne anche massa ed orbita. Esso fu visto direttamen te al telescopio soltanto dopo una cinquantina di anni. Nonostante l’assenza della prova diretta gli astronomi sapevano tuttavia perfettamente della sua esistenza.51 Questo è una caso di evidenza indiretta che diventa una evidenza diretta gra zie ai calcoli matematici (come avviene per il requisito n.1 circa i fori nei ponticelli originali dei liuti).
Ciò detto, vorrei rimarcare come fatto d’interesse per la nostra discussione la presenza di barili di colla animale descritti negli inventari delle botteghe cordaie romane del Seicento: «Un barilozzo con dentro libbre 30 in circa di colla cerviona».52 Va opportunamente sottolineato che la colla non viene mai utilizzata/menzionata nella manifattura tradizionale delle corde di budello mentre assume un certo ruolo oggigiorno se si effettuano operazioni di carica minerale: dunque, a cosa servivano quei ‘barili di colla’ in una corderia?
Si registra anche la presenza di recipienti contenenti liquidi/vernici dal colore rosso. Naturalmente non possiamo qui affermare con certezza che si tratti di ma teriali utilizzati per la carica del budello.53 Come abbiamo prima accennato, l’incorporazione di composti insolubili quali ossidi, solfuri, metalli in polvere ecc. in sete, tessuti, carta, cera, legno, pelli ed al tro fu una pratica molto comune al tempo. Pertanto, l’idea di addizionare cariche pesanti al budello rientra perfettamente nella mentalità delle persone vissute nel XVI e XVII secolo. Per certi versi, questo tipo di procedura è molto simile alle operazioni di tintura della seta, con le quali, utilizzan do determinati prodotti di natura metalli ca, si otteneva anche un concomitante no tevole aumento di peso.
In diversi documenti del tempo si spiega, ad esempio, come incorporare del cinabro o del litargirio, o qualcosa di simile, come il minio di piombo, in materiali come cera, seta, cotone, legno, pelle, tessuti, tappeti, carta, pietra, prodotti medicali, inchiostri, vernici e così via, non esclusi persino alimenti!54 (Figg. 50, 51)


Come affermato in precedenza, sino ad oggi non è mai stata ritrovata una qualche ‘formula segreta’ dei cordai occidentali operanti nel Seicento; mi hanno tuttavia di recente segnalata una cosa molto interessante: la pratica di incorporare simili sostanze sembra fosse utilizzata dagli antichi cordai cinesi nella realizzazione delle corde per il Guquin (si usavano allo scopo polveri di ceramica, oro, argento, rame ecc.). Questa, se definitivamente provata, sarebbe un’evidenza di natura diretta, anche se riguardante l’Oriente.55
A) Le corde gravi appesantite fatte oggi non sono trasparenti alla luce (viene supposto che quelle del passato lo fossero)
Ephraim Segerman ritiene che l’idea di appesantire il budello per le corde gravi del liuto non possa essere un’opzione storica per il fatto che le corde così come oggi realizzate risultano opache alla luce. Questo ricercatore si riferisce in particolare all’osservazione di John Dowland riportata dal figlio Robert.
È necessario però precisare che i riferimenti riguardo alla possibile trasparenza/ translucenza dei bassi risulta circoscritta esclusivamente a quanto scrisse Dowland nel suo Varietie of lute-lessons.56 In altri testi come il Burwell Lute Tutor, quelli di Mace e Mersenne non esiste nulla che tratti la ‘trasparenza’ delle corde gravi in budello: non è possibile pertanto estendere quanto rilevato da Dowland anche ai bassi da lui mai menzionati, vale a dire i Lyon e/o i Pistoy.
Ma vediamo ora i passaggi più salienti. Dowland dice: (Fig. 52)

Now because Trebles are the principall strings wee neede to get, choose them of a faire and cleere whitish gray, or ash-colour, and take one of the knots.57
Egli afferma così che i Treble (i cantini) sono davvero buoni quando si presentano trasparenti chiari o anche grigiastri ma comunque sempre trasparenti alla luce.
Proseguendo dice:
This choosing of strings is not alone for Trebles, but also for small and great Meanes: greater strings though they be ould are better to be borne withall, so the colour be good, but if they be fresh and new they will be cleere against the light, though their colour be blackish.58
Qui Dowland estende lo stesso criterio estetico dei treble alle corde dei piccoli e grandi mean specificando che, sebbene siano corde più grandi, devono presentarsi egualmente trasparenti controluce.
Ora Dowland continua descrivendo le corde colorate ma in riferimento soltanto ai mean e ai treble:
Some strings there are which are coloured, out of which choose the lightest colours, viz. Among Green choose the Seawater, of Red the Carnation, and of Blew the Watchet. Now these strings as they are of two sorts, viz. Great and Small: so either sort is pact up in sundry kindes, to wit, the one sort of smaller strings (which come from Rome and other parts of Italy) are bound up by certaine Dozens in bundels; these are very good if they be new, if not, their strength doth soone decay: the other sort are pact up in Boxes, and come out of Germany: of these, those strings which come from Monnekin and Mildorpe, are and continue the best. Likewise there is a kinde of strings of a more fuller and larger sort then ordinary (which we call Gansars). These strings for the sizes of the great and small Meanes, are very good, but the Trebles are not strong. Yet also there is another sort of the smaller strings, which are made at Livornia in Tuscanie: these strings are rolled up round together, as if they were a companie of horse hayres. These are good if they be new, but they are but halfe Knots. Note there is some store of these come hither lately, and are here made up, and passe for whole Knots.59
Quindi descrive finalmente i Bassi:
For the greater sorts or Base strings, some are made at Nurenburge, and also at Straesburge, and bound up onely in knots like other strings. These strings are excellent, if they be new, if not, they fall out starke false. The best strings of this kinde are double knots ioyned together, and are made at Bologna in Lumbardie, and from thence are sent to Venice: from which place they are transported to the Martes, and therefore commonly called Venice Catlines.60
Il punto controverso è il seguente: Segerman ritiene che la frase dopo i due punti
but also for small and great Meanes: greater strings though they be ould are better to be borne withall
sia riferita ai bassi (che dovrebbero essere trasparenti alla luce). Le mie osservazioni in proposito sono le seguenti:
- Quando Dowland comincia a trattare dei bassi realizza una netta separazione con la descrizione dei mean mediante il punto di fine frase. Dei bassi non descrive l’aspetto fisico. Di conseguenza la trasparenza è espressa esclusivamente rispetto ai treble e ai mean. Questi ultimi, anche se sono più spessi, devo essere parimenti trasparenti/translucenti come i
- Quando descrive un sort di corde (come fa anche Mace) egli utilizza sempre la lettera maiuscola (ad esempio: Trebles, Meanes, Basses). Non è invece il caso di quando scrive greater strings, nel passaggio citato qui sopra, dove in realtà si sta ancora riferendo alla categoria che precede il segno dei due punti, cioè i mean. Tale segno serve appunto per questo specifico scopo e non per cambiare argomento, per la qual cosa utilizza invece coerentemente il segno del punto fermo.
- Sempre in tema di trasparenza vale comunque la pena di sottolineare che anche una corda in budello non caricata e di un certo spessore non è mai trasparente bensì opaca, specialmente poi se è stata anche tinta: questo fenomeno accade perché quando una corda di budello risulta molto ritorta, le micro fibrille non si ‘fondono’ strettamente tra loro ma realizzano micro sacche di aria che rompono la conti nuità ottica. La sola corda dotata di una certa trasparenza è quella realizzata in ‘bassa torsione’ che però, essendo molto rigida, non può avere alcun impiego come corda per i bassi.
Considerazioni finali
La domanda è banale: perché i liutai del tempo non hanno semplicemente fatto i fori del ponte di diametro maggiore? Non è necessario essere laureati alla Sorbona per eseguire questo tipo di intervento; molti oggi lo fanno già nel caso intendano montare dei bassi in puro budello. Un motivo logico deve assolutamente esserci, e questo sarà per forza di cose insito in qualche caratteristica saliente delle corde gravi utilizzate allora.
I più importanti trattati per liuto scrivono che le corde del nostro strumento devono presentarsi tra loro con lo stesso feel di tensione sotto le dita. Con diametri cosi sottili (richiesti dai fori dei ponticelli storici) come sarebbe possibile garantire un feel omogeneo di tensione tra tutte le corde? Tensioni di lavoro così basse determinerebbero la necessità di avere cantini talmente sottili (diametri inferiori a 0,36 mm) che nessun singolo budello di agnello al mondo sarebbe in grado di sostenerli.
Ancora: come è possibile che al tempo esistessero corde per i bassi in puro budello così potenti e sonore (come descritto dalle fonti) visto che l’esperienza diretta dimostra che una corda di minugia, anche se ritorta a gomena, non possiede affatto tali requisiti acustici?
A volte è piuttosto difficile comprendere alcune ipotesi decisamente complicate, illogiche ed anche lontane da quello che troviamo scritto nelle fonti storiche. Perché, dovendo andare da Milano a Roma, invece di prendere l’autostrada ci si dovrebbe recare a Londra, poi a Shanghai, poi a New York e infine a Roma dichiarando infine che questa è la strada più logica e più breve?
Il motivo più verosimile è la difficoltà di confrontarsi con la banale evidenza (mai considerata prima di noi da diversi ricercatori) dei fori così stretti nei ponticelli dei liuti sopravvissuti e della conseguente impossibilità di suonare con un solo chilogrammo di tensione se non meno; di confrontarsi con l’impossibilità tecnica di ottenere da un budello intero di agnello un diametro inferiore a 0,36 mm e, infine, con l’impossibilità di ottenere quella potente resa acustica, di cui si parla nei principali trattati del tempo, con una normale corda di budello che non sia stata ‘densificata’, ovvero caricata.
Ad esempio non ci sembra una soluzione logica (né storicamente verificata) avanzare l’idea che i bassi fossero realizzati dal liutista stesso utilizzando una lunga corda adatta ai mean opportunamente piegata a metà e ritorta su se stessa, direttamente sullo strumento, per mezzo di un attrezzo apposito (visto che a mano libera è un impresa quasi impossibile), ma non prima di aver umidificato la corda, lasciando un tratto di alcuni centimetri non ritorto, in modo che uno dei capi si passi attraverso il foro del ponte per poi annodarsi all’altro capo, sopra il ponte stesso, facendo infine asciugare la corda così realizzata.
Ecco un altro esempio di incongruenza: pur di non riconoscere come valida la teoria dell’appesantimento alcuni ricercatori hanno introdotto l’ipotesi non storicamente confermata che i liuti di allora lavorassero con due diversi gradi di tensione: una più ridotta per i bassi e una più alta per le corde dei mean e dei treble. La verità invece è che tutti i trattati più importanti del nostro strumento hanno predicato fino alla noia l’importanza di avere un feel omogeneo di tensione tra tutte le corde, fino a considerare uno strumento che presenti corde con diverso grado di tensione come uno dei più gravi errori.
Thomas Mace scrive:
The very principal observation in the stringing of a lute. Another general observation must be this, which indeed is the chiefest; viz. that what siz’d lute soever, you are to string, you must so suit your strings, as (in the tuning you intend to set it at) the strings may all stand, at a proportionable, and even stiffness, otherwise there will arise two great inconveniences; the one to the performer, the other to the auditor. And here note, that when we say, a lute is not equally strung, it is, when some strings are stiff, and some slack.61
Sul Mary Burwell lute tutor è scritto (Fig. 53):

[…] when you stroke all the stringes with your thumbe you must feel an even stiffnes which proceeds from the size of the stringes.62
John Dowland ci dà un’ulteriore conferma:
But to our purpose: these double Bases likewise must neither be stretched too hard, nor too weake, but that they may according to your feeling in striking with your Thombe and finger equally counterpoyse the Trebles.63
Secondo alcune ricerche, la maggior parte dei suonatori comincia a percepire una apprezzabile differenza di tensione tra due corde quando questa differenza è maggiore di mezzo tono: entro questo range siamo senz’altro nella condizione di rilevare un eguale feel tattile. Alcuni sono anche più sensibili ma questa è una eccezione rispetto alla statistica. Si conclude che se la differenza di tensione è superiore al mezzo tono il musicista avverte con chiarezza al tatto che lo strumento non è ben bilanciato. Con delle corde basse che lavorassero con tensione pari al 50%, o anche meno, di quella delle corde superiori, tale differenza risulterebbe assolutamente percettibile rendendo lo strumento molto lontano dai requisiti storici prima descritti, rientrando nella condizione di grave errore di montatura descritta da Thomas Mace nel 1678. L’ipotesi che i liuti del passato lavorassero con due diversi gradi di tensione è pertanto non storica oltre che illogica anche dal punto di vista strettamente tecnico/funzionale.
Quale potrebbe essere una valida alternativa all’idea che il budello per i bassi fosse stato appesantito? Pur avendo preso in considerazione qualunque ipotesi, anche la più fantasiosa, non sono mai riuscito a soddisfare tutti i sette requisiti inizialmente esposti derivanti da fondamenti storici.
Se le corde gravi non sono ‘densificate’, la tensione di lavoro diventa drammaticamente bassa per poter essere gestita dalle dita. Si perde quasi del tutto il controllo della qualità acustica finendo in una regione più vicina al rumore che al suono. Non si ha più una sufficiente potenza di emissione (mentre nel passato, come abbiamo visto, la potenza acustica era dichiarata addirittura soverchiante) e, come se non bastasse, subentrano seri problemi di pitch distorsion quando le corde vengono premute sui tasti.
Incredibile come tutto ciò sia scaturito dall’osservazione di un foro!
Vivi felice
Appendice
Le corde e le loro denominazioni
Le corde prodotte nel XVI, XVII e XVIII secolo venivano distinte con un nome che ne caratterizzasse immediatamente la zona di provenienza, a garanzia della loro qualità. Oggi avrebbero una ‘marca’ e la loro diffusione sarebbe affidata a ben altri mezzi.
Questo peculiare aspetto, in un epoca storica in cui non esisteva ancora la tutela del brevetto, spiega la particolare severità con cui le corporazioni cordaie perseguivano le frodi commerciali e gli stessi associati eventualmente sorpresi a frodare. Fornire ai clienti la garanzia assoluta che le corde di Monaco fossero state realmente realizzate a Monaco rimase una priorità assoluta nei secoli in cui il liuto fu suonato. Per ulteriore conseguenza della mancanza di protezione sul frutto dell’ingegno e dell’esperienza di qualsiasi artigiano, le tecniche e gli accorgimenti che ognuno metteva in opera erano coperti dal più rigoroso segreto.
Altro aspetto da sottolineare è la specializzazione produttiva tipica di determinate aree geografiche. In talune zone i cordai si dedicarono, ad esempio, alla produzione di corde gravi mentre in altre producevano cantini arrivando a volumi commerciali davvero incredibili. Firenze (per i bassi) e Roma (per i cantini) costituirono un esempio emblematico. Non si vuole qui affermare in termini assoluti che allora in Firenze non si producessero cantini; si vuole invece sottolineare che se talune zone si sono via via specializzate in determinati filoni ciò accadeva perché in quel settore dovevano in qualche modo aver raggiunto un modello di eccellenza.
Ciò poteva significare quindi che erano riusciti ad ottimizzare meglio di altri una determinata linea di produzione incrementando l’offerta con nuovi prodotti o scoprendo metodi di produzione più efficienti e razionali.
I documenti del Cinque, Sei e Settecento che descrivono nello specifico qualcosa in merito alle corde per gli strumenti a pizzico e ad arco (in numero piuttosto esiguo) riguardano quasi esclusivamente il liuto, che restava lo strumento più difficile da accontentare in termini di montatura. Vi è invece un singolare paradosso che riguarda il Secolo dei Lumi: mentre l’arte cordaia cominciava per la prima volta ad essere descritta con cura dagli enciclopedisti (e così anche alcuni importanti aspetti delle montature per quartetto d’archi, mandolino e soprattutto chitarra a cinque ordini), del liuto, nell’età di Weiss, non si sa praticamente nulla. Il nostro strumento stava ormai in un angolo oscuro della storia che nessuna ‘luce della ragione’ poteva illuminare.
Esaminiamo ora le fonti storiche che riferiscono sulle tipologie e le origini delle corde.
Quattrocento
Non possediamo alcuna indicazione dei nomi di varietà commerciali di corda per liuto.
Cinquecento
La prima menzione di tipologie di corda proviene dal manoscritto del nobile bresciano Vincenzo Capirola.64 Per la prima volta vengono descritte corde di qualità superiore provenienti da Monaco di Baviera e viene indicata una tipologia chiamata ganzer della quale rimane dubbia l’origine del nome (anche se alcune tracce sembrano riportare alla struttura tipica di un cordonetto).65 Capirola purtroppo non specifica se fossero destinate agli acuti oppure ai gravi.
Una seconda fonte storica di nostra conoscenza è curata da Adrian Le Roy e ci informa che le corde migliori erano fabbricate a Monaco (o nei suoi dintorni) oppure nella città dell’Aquila, in Italia:
the best come to us of Almaigne, on this side the toune of Munic, and from Aquila in Italie.66
Dopo questo interessante inizio egli passa poi a descrivere il metodo per distinguere una corda falsa da una buona. Anche Le Roy non presenta alcuna ulteriore informazione circa la posizione a cui son destinate le corde indicate.
Seicento
Il primo documento che finalmente apre uno spiraglio di luce è Variete of lutelessons che ospita il capitolo Of setting the right sizes of strings upon the lute autorevolmente scritto da John Dowland.67
Le corde sono da lui così suddivise:
- Treble (cantini): «from Rome and other parts of Italy», «from Monnekin and Mildorpe» (probabilmente Monaco di Baviera e Meldorf, entrambe in Germania); vengono anche indicate altre corde di misura piccola «which are made at Livornio in Tuscanio».
- Small and Great Mean (medi): Gansars.
- Bass (bassi): «Nurenburge, and also at Straesburge»; Venice Catalines (i bassi migliori: costruiti a Bologna in ‘Lombardia’, secondo Dowland).
Si osserva nello scritto di Dowland una certa tendenza alla confusione quando descrive la tipologia di corda dei mean. Ad esempio non si riesce a capire se le smaller strings fabbricate a Livorno siano corde per i treble o per i mean. Così come non si comprende se le corde colorate appartengano alla classe dei treble o dei mean (o ad entrambe).
A Dowland segue Michelangelo Galilei che il 6 Agosto del 1617 scrive da Monaco al fratello Galileo pregandolo di procuragli «quattro grosse corde di Firenze per suo bisogno et dei suoi scholari». Non conosciamo purtroppo il nome commerciale di questi bassi.
Nel Mary Burwell Lute Tutor leggiamo quanto segue:
The good stringes are made at Rome or about Rome and none that are good are made in any other place except the great strings and octaves that are made in Lyons att Fraunce and noe where else.68
Anche qui nulla di nuovo: come già aveva scritto Mersenne nel 1636,69 si conferma che le corde migliori provengono da Roma. La novità concerne soltanto le corde basse e le relative ottave, fabbricate a Lione.
Thomas Mace ci fornisce in assoluto la fonte più preziosa ed esaustiva.70Anche qui (come in Dowland) le corde sono suddivise in tre tipologie:
Trebles: (1a, 2a, 3a e ottava della 6a):
Minikins;
- Meanes: (4a; 5a e le restanti ottave dei bassi): Venice catlins;
- Basses: Pistoys, Lyons.
Mace descrive anche lui (come Dowland) corde colorate, ma anch’egli non è sufficientemente chiaro sulla loro destinazione (per i treble, per i mean o per entrambi).
Romans, Venice Catlins e Lyons sono nominate ancora nel manoscritto di James Talbot quali corde per il violino e per il basso di violino.71
Settecento
Non possediamo alcuna specifica terminologia di corde da liuto.
In conclusione i nomi dati alle corde per liuto del XVII secolo richiamano sempre la loro zona di provenienza, con due sole eccezioni: le Catlins (o Catlines) e le Gansars. Le prime furono corde fabbricate, almeno ai tempi di Dowland, nel Nord Italia. Non conosciamo tuttavia con che nome gli italiani chiamassero questa tipologia.
Con l’avvento del XVIII secolo i termini Catlins, Catline, Lyons, Pistoys etc. scompaiono del tutto per lasciare posto a denominazioni più generiche come ad esempio ‘corde fabbricate a…’.
Le corde gravi in budello fabbricate dai cordai cedettero il posto ai bassi filati, costruiti ora dai liutai se non (anche se raramente) dagli stessi musicisti.
Note
1 FRANCIS BACON, Sylva Sylvarum, London, 1627. «Per quello che vediamo in una delle corde più gravi di un liuto, essa suona non con la sonorità di quelle acute né un misto tra le due ma solamente con il suono del basso [cioè della fondamentale]».
2 ADRIAN LE ROY, A briefe and plaine Instruction to set all Musicke of eight divers tunes in Tablature for the Lute, London, 1574, f. 33v. «I liuti di nuova invenzione con tredici corde, non sono soggetti a questo inconveniente, dove l’ultimo è messo più basso: il quale secondo la maniera ora descritta è perciò aumentato di una intera quarta».
3 Per approfondire il ‘coefficiente di smorzamento interno’ o, più propriamente, ‘inarmonicità’ della corda, vedere EPHRAIM SEGERMAN, A closer look at pitch ranges of gut strings, «FOMRHI bull.», XL, July 1995, p. 50.
4 Diametro e frequenza sono infatti inversamente proporzionali. DJILDA ABBOTT – EPHRAIM SEGERMAN, Strings in the 16th and 17th centuries, «Galpin Society Journal», XXVII, April 1974, p. 62.
5 Ricardo Branè, architetto e liutaio proveniente dall’Argentina, operò nei pressi di Firenze tra la seconda metà degli anni ’70 gli inizi degli anni ’80 dello scorso secolo. Assieme ad Orlando Cristoforetti, allora docente di Liuto al Conservatorio di Verona, intuì tra i primi che il budello per realizzare le corde gravi del liuto dovesse essere appesantito.
6 Vi erano naturalmente degli strumenti che facevano eccezione, ma questi rappresentano la minoranza.
7 In merito alla ‘giusta’ tensione di lavoro di un liuto in Sol rinascimentale ci si orienta oggi intorno al valore di 3,0 Kg per corda di ciascun coro (2,8-3,1 Kg di range senza contare una possibile scalarità del valore tra ordine e ordine). Si è molto discusso se potesse essere vero anche per il passato. Purtroppo non è stato sinora possibile avere una risposta sia per assenza di documentazione storica diretta sia per il fatto che ci si trova in presenza di una ampia zona territoriale difficilmente eterogenea, vi sono strumenti di taglie diverse e infine standard abitudinari diversi. La recente scoperta di quale range di diametri si ottengono partendo da un singolo budello di agnello (così si realizzavano infatti i cantini romani del Seicento secondo Kircher, 1650) di giovane età ha confermato che nella media anche nel passato lavoravano probabilmente (ma non sicuramente) con range di tensioni ragionevolmente simili alle nostre. Vedere anche: MIMMO PERUFFO, Messer
Vincenzo Capirola e il segreto per legare le corde del liuto: considerazioni. Attanasio Kircher e i cantini del liuto: test pratici e risultati, «Il Liuto», XII, Maggio 2016, p 15-25; EPHRAIM SEGERMAN, String tension on Mersenne’s lute, «FOMRHI bull.», XI, April 1978, p. 65.
8 MIMMO PERUFFO, The mystery of gut bass strings in the sixteenth and seventeenth centuries: the role of loadedweighted gut, «Recercare», V, 1993, pp. 115-51. MIMMO PERUFFO, New hypothesis on the construction of bass strings for lutes and other gut strung instruments, «FOMRHI bull.», LXII, January 1991, pp. 22-36. MIMMO PERUFFO, On Venice Catlins, Lyons, Pistoy basses and Loaded- weighted bass gut strings, «FOMRHI bull.», LXXVI, July 1994,
- 72-84.
9 A proposito delle indagini compiute nel 2005 su alcuni dei liuti conservati presso l’abbazia di Kremsmünster si veda: https://it.wikipedia.org/wiki/Abbazia_di_Kremsm%C3%BCnster
10 EPHRAIM SEGERMAN, On Historical lute Strings Types and Tensions, «FOMRHI bull.», LXXVII, October 1994,
- 54-57.
11 La densità media di una corda simile ad una fune nodosa (Fig. 12) è minore, a causa della struttura fisica meno compatta ed omogenea, di una liscia. (Fig. 13) Si veda anche DJILDA ABBOTT – EPHRAIM SEGERMAN, Catline strings, «FOMRHI bull.», XII, July 1978, pp. 26-29.
12 Ritorte. Le attuali corde tipo gimped sono prodotte dalla ditta americana Gamut di Dan Larson.
13 ROBERT DOWLAND, Varietie of lute-lessons, London, 1610. Vedere il breve trattato di John Dowland, ivi contenuto, intitolato Other necessary observations belonging to the lute (pp. 13-18) e il paragrafo Of setting the right sizes of strings upon the lute, p. 14. Venice Catlins, Pistoys e Lyons sono i nomi commerciali con cui venivano chiamate le più rinomate corde gravi in puro budello tra il tardo Cinquecento e tutto il Seicento.
14 JOHANNES TINCTORIS, De Inventione et Usu Musicae, 1487 ca., p. 22. Mia traduzione dal latino. «Non omni composito cantui suppetebant: quinque et aliquando sex principalium ordinario ea subtilitate a posteris (ut reor). Germanis inventa est: ut duabus mediis ad ditonum: ceteris vero ad diatessaron temperatis: lyra sit perfectissima. Quin utium fortiorem habeat sonum: cuilibet istarum chordarum una conjungitur : que ei (excepta duntaxat prima) ad diapason conteperatur.»
15 SEBASTIAN VIRDUNG, Musica Getutscht, Basel, 1511.
16 VINCENZO GALILEI, Fronimo Dialogo, Firenze, 1584, p. 105.
17 The Mary Burwell Lute Tutor (manoscritto, ca. 1668-1671), GB-Lam614, London Academy of Music, London. Capitolo 4, Of the strings of the lute […], ff. 7r-8r.
18 THOMAS MACE, Musik’s monument, London, 1676.
19 Queste due affermazioni sono tratte da The Mary Burwell Lute Tutor, cit.. «[…] anche per la confusione che la durata del suono produce […] ogni suono del basso produce confusione con ogni corda […]»; «[…] i maestri del liuto hanno tirato via la corda più grossa perché il suo suono è troppo lungo e copre quello 19 delle altre».
20 Vale a dire l’eccessiva esuberanza acustica e persistenza di suono dei bassi.
21 MACE, Musik’s monument, cit., pp. 65-66. «Questo inconveniente lo si ritrova nei liuti francesi quando le loro teste sono fatte troppo lunghe, come qualcuno desidera avere […]».
22 M. BIZZARINI, Marenzio: La carriera di un musicista tra Rinascimento e Controriforma, Coccaglio, 1998, p. 40. Lettera del 26 febbraio 1581 di Giulio Cesare Brancaccio, indirizzata al cardinale Luigi d’ Este, concernente l’acquisto di un liuto come dono per il fratello Alfonso d’ Este.
23 Si veda la nota 1.
24 Testo attribuito al poeta inglese Edward Benlowes (1603-76) da FRANK EYLER in Sur l’employ des cordes en boyau, «Musique Ancienne», XV, Janvier 1983, pp. 29-31. Pur estrapolati dal contesto, i versi indicano quanto fosse ricco e pieno il suono di queste corde: «[…] continuando a pizzicare le Catline dal grave suono, finché un roco basso rimbombante non riempie la stanza […]».
25 Come suggerito da J. Dowland, dal Burwell Lute Tutor e da T. Mace. Vedere anche: https://aquilacorde.com/blog/musica-antica-blog/equal-tension-equal-feel-alcuni-chiarimenti-utili-per-i-nostriclienti/; EPHRAIM SEGERMAN, Strings thorough the ages, «The Strad», part 1, January 1988, pp.20-34; part 2 (Highly strung), March 1988, pp.195-201; part 3 (Deep tensions), April 1988, pp.295-299.
26 Vale a dire che siamo a meno di 1,5 Kg per corda.
27 Il dato è ricavato dalla nostra attività di corderia per la quale si utilizza come materia prima del budello intero di agnello. Questo nostro riscontro nella pratica cordaia di ogni giorno va a confermare quanto descritto da altri come ad esempio FRANCOIS DE LALANDE, Voyage en Italie […] fait dans les annés 1765 & 1766,
2a edizione, vol IX, Desaint, Paris 1786, pp. 514-9 (Chapire XXII: Du travail des Cordes à boyaux […] on ne metque deux boyaux ensemble pour les petites cordes de mandolines […] ovvero «Lavorare le Corde di budello […] per le corde piccole dei mandolini si mettono insieme soltanto due budelli […]») e dal Conte GIORDANO
RICCATTI, Delle corde, ovvero fibre elastiche, Stamperia di San Tommaso d’Aquino, Bologna 1767, p. 130. In estrema sintesi: con 3 budelli interi di agnello si ottiene un range di diametri pari a 0,65-0,75 mm. In proporzione, con un singolo budello intero si ottengono 0,35-0,45 mm di diametro.
28 Si veda ATHANASIUS KIRCHER, Musurgia universalis, Roma, 1650, Liber VI, Caput II, p. 476. (Fig. 18) Nella Roma della metà del Seicento la prima corda del liuto si otteneva a partire da un singolo budello intero di agnello. Era infatti severamente proibito tagliare in strisce l’intestino di ovino destinato a far corde musicali. Vedi anche MIMMO PERUFFO, Messer Vincenzo Capirola e il segreto per legare le corde del liuto: considerazioni. Attanasio Kircher e i cantini del liuto: test pratici e risultati, «Il Liuto», rivista della Società del Liuto. Maggio 2016, pp. 15-25.
29 DOWLAND, Varietie, cit.
30 DOWLAND, Varietie, cit.; Mace, Musik’s monument, cit., pp. 65-6. Vedere ad esempio il celebre ritratto del tiorbista Girolamo Valeriani d eseguito dal pittore Ludovico Lana: https://commons.wikimedia.org/wiki/ File:Lana_Ritratto_di_Girolamo_Valeriani.jpg
31 Si veda il paragrafo delle ‘Considerazioni finali’.
32 PATRIZIO BARBIERI, Roman and Neapolitan gut strings 1550 1950, in «Galpin Society Journal», LIX, 2006, pp. 176-177. Si riportano notizie tratte da UGOLINO DA ORVIETO, Declaratio musicae disciplinae, Liber quintus, Capitulum IX: De cordarum seu nervorm instrumentalium subtilitate et grossitie, 1430-40 ca., il testo è interamente riportato su http://www.chmtl.indiana.edu/tml/15th/UGODEC1A_TEXT.html
33 BARBIERI, Roman and Neapolitan gut strings, cit., pp. 159-162.
34 VINCENZO CAPIROLA, Compositione di meser Vicenzo capirola gentil homo bresano, ms., Newberry Library, Chicago, 1517 circa.
35 VINCENZO GALILEI, Fronimo Dialogo, II edizione, Venezia, 1584, p. 102.
36 CHARLES BESNAINOU, Les cordes et leurs mysteres, «Tablature, Revue de la Société Française du Luth», Juillet 1987.
37 MARIN MERSENNE, Harmonie Universelle, Livre Second, Des Instruments, Paris, 1636, p. 51.
38 MACE, Musik’s monument, cit., pp. 65-66.
39 MICHAEL PRYNNE, James Talbot’s Manuscript: IV, Plucked strings. The Lute family, «The Galpin Society Journal», XIV, 1961, pp. 59-60.
40 Burwell Lute Tutor, cit., ff. 7r-8r.
41 MACE, Musik’s monument, cit., pp. 65-66.
42 Sulla manifattura delle corde basse per la cetra diverse fonti storiche riferiscono che erano ottenute intrecciando assieme due fili metallici. Ad esempio MERSENNE, Harmonie Universelle, cit., pp 98-99: «[…] dans la quelle la plus grosse chorde di 3, & du 4 rang. Est tortillèe, & faites d’une chorde redoublèe & plièe en deux, a fin de faire des sons plus remplis & plus nourris.» ovvero «[…] le corde più grosse del terzo e del quarto ordine sono fatte con una corda di doppia lunghezza piegata a metà e intrecciata poi su se stessa così da ottenere un tono più pieno […]». La mia traduzione è tecnicamente precisa pur non essendo letterale. Vedere anche: BACON, cit.; PIERRE TRICHET, Traité des instruments de musique, manoscritto (Ms 1070), 1640 ca., Bibliothèque Sainte-Geneviève, Paris.; JOHN PLAYFORD, A Booke of New Lessons for Cithern, London, 1652; PRYNNE, Talbot’s Manuscript, (1695 ca.), cit.
43 Secondo MICHAEL PRAETORIUS (Syntagma Musicum, II parte De Organographia, Wolffenbüttel, 1619) si tratta di una viola a metà tra un basso e un tenore quindi uno strumento ben distino dai precedenti.
44 Vedere ad esempio le ricette di ALESSIO PIEMONTESE, I secreti, Venezia, 1555, ristampa del 1603, pp. 141, 182.
45 BESNAINOU, La fabrication des cordes, cit.
46 FRANK EYLER, The modern Venice Catlines reconsidered, Lute Society of America Bull., August 1986; EPHRAIM
SEGERMAN, More on the name ‘Catline’, «FOMRHI bull.», LXXVI, July 1994, p. 85; https://www.fomrhi.org/
uploads/bulletins/Fomrhi-076.pdf; STEPHEN BONTA, Catline Strings Revisited, «Journal of the American
Musical Instrument Society», XIV, 1988.
47 EPHRAIM SEGERMAN, Historical background to the strings used by catgut-scarpers, «FOMRHI bull.», April 1976, Comm 15, pag 42.
48 DOWLAND, Varietie, cit., pp. 13-14; Burwell Lute Tutor, cit., ff. 7r-8r; MACE, Musik’s monument, cit., pp. 65-66.
49 Viene chiamato ‘trefolo’ ciascuno dei fili intrecciati assieme per costituire una corda.
50 BARBIERI, Roman and Neapolitan gut strings, cit.; Mersenne, Harmonie Universelle, cit.
51 A proposito del pianeta Plutone si può consultare anche https://en.wikipedia.org/wiki/Pluto
52 BARBIERI, Roman and Neapolitan gut strings, cit., p. 97.
53 BARBIERI, Roman and Neapolitan gut strings, cit., p. 97.
54 GIOVANVENTURA ROSSETTI, Plichto de l’arte de tentori che insegna tenger pani, telle, banbasi et sede si per larthe magiore come per la comune, Venezia, 1568. (Fig. 50) Agli inizi della ricerca presi in considerazione la carica della seta mediante l’uso di polveri metalliche/ossidi/solfuri come possibile strada seguita dagli antichi cordai. Queste procedure erano infatti perfettamente note ai tintori già dal Medio Evo. Questa idea è stata abbandonata dopo breve per i seguenti motivi: 1) La seta effettivamente aumenta di peso ma in concomitanza si riscontra anche un certo aumento del suo volume: in altre parole la densità non aumentava più di tanto. 2) Tutte le fonti del XVI e XVII secolo che si riferiscono ai bassi del liuto descrivono soltanto il budello, mai la seta.
55 C’è stato in proposito uno scambio di comunicazioni personali con lo studioso Peter Pringle, che non ha purtroppo avuto seguito.
56 DOWLAND, Varietie, cit., p. 13.
57 DOWLAND, Varietie, cit., p. 13. «Ora poiché i Treble sono le corde principali noi abbiamo bisogno di averle scegliendo quelle più chiare e trasparenti alla luce, o di un grigio chiaro o di colore cenere prendendone una dal mazzo».
58 «Questo modo di scegliere le corde va bene non solo per i cantini, ma anche per le corde mediane grandi e piccole: le corde più grosse, anche se sono vecchie, sono comunque tollerabili, purché di bel colore, ma se sono fatte di recente e mai usate saranno chiare in controluce, anche se di colore nerastro».
59 «Alcune corde sono colorate, tra queste scegli i colori più leggeri; ad esempio tra i verdi scegli l’acquamarina, del rosso l’incarnato, del blu quello colore cielo. Queste corde sono di due tipi, vale a dire grosse e sottili. Entrambe sono impacchettate nella stessa maniera. La varietà delle corde più sottili (le quali vengono da Roma e altre zone d’Italia) sono in mazzi di dozzine; queste sono molto buone se sono nuove, se non lo sono la loro resistenza decade rapidamente. L’altra varietà è confezionata in scatole e provengono dalla Germania. Di queste, quelle che provengono da Monaco (di Baviera) e Mildorpe (?) sono e continuano ad essere le migliori. Allo stesso tempo vi è un tipo di corde più piene e più grosse delle ordinarie (che chiamiamo Gansars). Queste corde per le misure dei grossi e piccoli Mean sono molto buone, ma come Cantini non sono forti. Cè un’altra varietà di corde sottili che è prodotta a Livorno, in Toscana: queste corde sono arrotolate assieme come se fossero dei crini di cavallo. Queste sono buone se nuove però non sono altro che metà mazzo. Notare che alcuni negozi che hanno ultimamente di queste corde le passano invece come se fossero di un mazzo intero».
60 «Per la più grande varietà di corde per i bassi, alcune sono fatte a Norimberga e anche a Strasburgo, e sono arrotolate in mazzi come le altre corde. Queste corde sono eccellenti se sono nuove altrimenti peggiorano e diventano false. Le migliori sono però avvolte in doppio mazzetto e sono fatte a Bologna in Lombardia e quindi da lì spedite a Venezia da cui vengono poi mandate alle fiere e perciò vengono chiamate comunemente Venice Catlines».
61 MACE, Musik’s monument, cit., pp. 65-66. «Esiste una osservazione principale sul montare le corde di un Liuto. Un’altra osservazione generale, che sarebbe veramente la principale; cioè qualunque dimensione di liuto si abbia si deve accordarlo (al tono che uno intende) e le corde devono tutte realizzare una proporzionale e omogenea rigidità altrimenti si hanno due inconvenienti: uno per il suonatore e l’altro per chi ascolta. E qui nota che stiamo dicendo che un liuto non è equamente bilanciato quando alcune corde sono troppo tese e altre molli».
62 Burwell Lute Tutor, cit., f. 7v. «[…] Quando si percuotono tutte le corde con il pollice si deve sentire una tensione omogenea tra le corde delle diverse dimensioni».
63 DOWLAND, Varietie, cit., p. 14. «Per i nostri propositi: questi doppi bassi allo stesso tempo non devono essere troppo tesi o troppo deboli ma devono essere, in base alla sensibilità del tuo pollice e delle altre dita, equamente contrapposti ai Treble».
64 CAPIROLA, cit., f. 3v.
65 Cfr. DENIS DIDEROT – JEAN D’ALEMBERT, Encyclopedie, ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers, vol. II, Paris, 1751 ; vi si può leggere la voce «GANSE, (Manufact. en soie) petite poignée de gavassines, auxquelles les lacs sont arrêtés, & que la tireuse attache avec une corde. Faire les ganses, c’est arrêter la même poignée de gavassines, afin que tous les lacs ne tombent pas sur la main de la tireuse.» O ancora «GANSE, f. f. (Rubanier) espece de petit cordounet d’or, d’argent, de soie ou de fil plus ou moins gros, rond, & même quelquefois quarrée, qui se fabrique sur un oreiller ou coussin avec des fuseaux, ou sur un métier avec la navette […]». «GANSE [cordoncino], (prodotto in seta), fascetta di funicelle, alle quali sono fissati i lacci, e che la tiratrice lega con una corda. Fare i cordoncini, significa fissare la fascia di funicelle, affinché tutti i lacci non cadano sulla mano della tiratrice.»; «GANSE, f. femm. (rel. alla manifattura dei nastri) specie di piccolo cordonetto d’oro, d’argento, di seta o di filo più o meno grosso, rotondo, e persino talvolta quadrato, che si fabbrica su un guanciale o cuscino con dei fusi, o su un telaio con la spola […]».
66 LE ROY, A briefe and plaine Instruction, cit., f. 60v; «le migliori ci vengono dalla Germania, dalle parti di Monaco, e da L’Aquila in Italia».
67 DOWLAND, Varietie, cit., p. 14.
68 Burwell Lute Tutor, cit., f. 7. «Le corde buone sono fatte a Roma o nei dintorni di Roma e nessuna di quelle buone è fatta in altri posti eccetto per le corde più grosse e le ottave che sono fatte a Lione in Francia».
69 MERSENNE, Harmonie Universelle, cit., p. 3.
70 MACE, Musik’s monument, cit., pp. 65-66.
71 ROBERT DONNINGTON, James Talbot Manuscript, II. Bowed strings, «Galpin Society Journal», III, 1950. p. 30.
Bibliografia
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ad diapason conteperatur.»
Capitulum IX: De cordarum seu nervorm instrumentalium subtilitate et grossitie, 1430-40 ca., il testo è interamente riportato su http://www.chmtl.indiana.edu/tml/15th/UGODEC1A_TEXT.html
uploads/bulletins/Fomrhi-076.pdf; STEPHEN BONTA, Catline Strings Revisited, «Journal of the American Musical Instrument Society», XIV, 1988.
dal mazzo».
sono fatte di recente e mai usate saranno chiare in controluce, anche se di colore nerastro».
liuto si abbia si deve accordarlo (al tono che uno intende) e le corde devono tutte realizzare una proporzionale e omogenea rigidità altrimenti si hanno due inconvenienti: uno per il suonatore e l’altro per chi ascolta. E qui nota che stiamo dicendo che un liuto non è equamente bilanciato quando alcune corde sono troppo tese e altre molli».
vol. II, Paris, 1751 ; vi si può leggere la voce «GANSE, (Manufact. en soie) petite poignée de gavassines, auxquelles les lacs sont arrêtés, & que la tireuse attache avec une corde. Faire les ganses, c’est arrêter la même poignée de gavassines, afin que tous les lacs ne tombent pas sur la main de la tireuse.» O ancora «GANSE, f. f. (Rubanier) espece de petit cordounet d’or, d’argent, de soie ou de fil plus ou moins gros, rond, & même quelquefois quarrée, qui se fabrique sur un oreiller ou coussin avec des fuseaux, ou sur un métier avec la navette […]». «GANSE [cordoncino], (prodotto in seta), fascetta di funicelle, alle quali sono fissati i lacci, e che la tiratrice lega con una corda. Fare i
cordoncini, significa fissare la fascia di funicelle, affinché tutti i lacci non cadano sulla mano della tiratrice.»; «GANSE, f. femm. (rel. alla manifattura dei nastri) specie di piccolo cordonetto d’oro, d’argento, di seta o di filo più o meno grosso, rotondo, e persino talvolta quadrato, che si fabbrica su un guanciale o cuscino con dei fusi, o su un telaio con la spola […]».
Il mandolino a 6 e 4 ordini del XVIII secolo: cosa sappiamo delle montature storiche?
di Mimmo Peruffo
Introduzione
Quando si affronta il problema di che tipo di corde utilizzarono i Mandolini a sei e quattro ordini del Settecento la prima cosa che balza agli occhi è la grande eterogeneità che si ritrova in queste montature. L’aspetto che pone maggior difficoltà di comprensione è rappresentato comunque dal fatto di utilizzare, nel Mandolino a 4 ordini napoletano in particolare, un cantino di budello mentre le restanti sono di fili di metallo singolo e metallo intrecciato fino ad arrivare all’utilizzo di corde rivestite su anima di budello o seta per l’ultimo ordine. A completare il quadro, già di per sè eterogeneo, si ha infine anche un mix tra disposizione in unisono e in ottava degli ordini.
Perché si utilizzò un cantino di budello e non una corda di metallo come per gli ordini a seguire e come poi effettivamente accadde nel corso del XIX secolo?
Il quesito è lecito: il carico di rottura medio del budello è infatti di ‘soli’ 34 Kg/mm2, molto più basso rispetto a quello medio del Ferro e dell’Ottone del tempo il quale superava facilmente ì 100 Kg/mm2.
Per capirne il motivo dobbiamo partire prima dal comportamento meccanico e acustico di una corda per cercare capire a seguire quali furono che criteri guida per determinare le lunghezze vibranti degli strumenti musicali a pizzico e ad arco, Mandolino compreso.
Le corde e le loro proprietà
Le corde da musica seguono delle regole che sono riassunte nell’equazione delle corde detta Taylor-Mersenne o anche legge di Hook (anche se il primo a menzionarla fu Vincenzo Galilei intorno al 1580), la quale mette in relazione tra loro frequenza, lunghezza vibrante, diametro e densità del materiale.
All’aumentare del diametro di una corda avviene tuttavia un altro fenomeno non contemplato in questa equazione: in concomitanza di questo incremento avviene anche una parallela e progressiva perdita delle sue performance acustiche sino ad arrivare, oltre certi calibri, a divenire un corda totalmente inutilizzabile.
Questo fenomeno si chiama Inarmonicità e prima dell’avvento delle corde rivestite (seconda metà del sec XVII) fu il principale problema con cui tutti i costruttori di strumenti a pizzico e ad arco e a tastiera (si intende la famiglia del cembalo) dovettero fare i conti. (1)
L’Inarmonicità è dovuta all’aumento della rigidità della corda concomitante all’incremento del diametro; in pratica all’aumentare del calibro si riduce anche il suo cedimento elastico longitudinale e questo capita perché la tensione risulta ora ‘spalmata’ in una sezione più grande.
Tale fenomeno và a determinare chiaramente un limite al numero totale di corde verso il grave che uno strumento può adottare; una scarsa capacità di allungamento, ovvero un elevato Modulo Elastico produce anche una certa indesiderata crescita di frequenza quando questa viene tastata e questo fenomeno è particolarmente evidente negli strumenti la cui lunghezza vibrante sia molto ridotta (pitch distorsion).
Le strade percorribili affinché l’Inarmonicità rimanga limitata facendo sì che la corda suoni ancora ‘bene’ passa pertanto principalmente attraverso il contenimento dell’aumento del diametro (o in alternativa, a parità di diametro, tramite l’aumento della sua elasticità).
Per il nostro fine ci interessano soltanto queste relazioni:
– diametro e lunghezza vibrante sono inversamente proporzionali
– diametro e tensione sono inversamente proporzionali
– diametro e densità sono inversamente proporzionali
Le soluzioni che, a parità di frequenza, possono contribuire alla riduzione del diametro sono pertanto le seguenti:
- Riduzione della tensione di lavoro
- Aumento della lunghezza vibrante
Vi sono altri interventi attuabili, seguiti soprattutto nei casi in cui la lunghezza vibrante rimane immutata:
3. Aumento dell’elasticità della corda (non incide però sulla riduzione diametro)
4. Aumento del peso specifico della corda (incide nella riduzione del diametro)
Il punto 1 è una condizione di esclusiva competenza del suonatore: secondo gli antichi il giusto valore di tensione si ottiene quando le corde non sono troppo tese o troppo molli al tatto. Esiste tuttavia un limite al calo della tensione che non può essere superato altrimenti non solo si perde il controllo della corda da parte delle dita ma anche una perdita di potenza acustica, del suo ‘fuoco’ assieme all’incremento di quello che viene definito comunemente ‘pitch distorsion’.
Il punto 2 dipende solo dal costruttore dello strumento e fu la soluzione adottata sin dal lontanissimo passato per le Arpe, ma anche per gli strumenti a tastiera prima e nelle tiorbe/arciliuti poi.
I punti 3 e 4 dipendono invece soltanto dai cordai: la comparsa delle corde rivestite verso la metà del XVII secolo può essere considerato un buon esempio del punto 4.
Il punto dove un liutaio può dunque agire è soltanto il n°2; dove lunghezza vibrante e diametro sono inversamente proporzionali.
Nel Sei- Settecento il problema dell’Inarmonicità delle corde fu un aspetto ben noto ai liutai: lo si intuisce ad esempio dallo studio delle lunghezze vibranti degli strumenti a pizzico e ad arco sopravvissuti in relazione alla frequenza della prima nota e a un corista di riferimento e dalla regola del tempo di accordare la prima corda al più acuto consentito.
Al fine di ottimizzare al meglio il rendimento acustico di uno strumento musicale fu pertanto seguita dai liutai la condizione di sfruttare la massima lunghezza vibrante possibile per quella data nota assegnata al cantino a quel dato corista indicato dal committente: solo così procedendo le corde possedevano in assoluto il minimo diametro a vantaggio perciò del rendimento acustico globale.
Non si può tuttavia aumentare a piacimento la lunghezza vibrante della prima corda a causa dei limiti imposti dal carico di rottura: esiste pertanto un limite che definiamo Vincolo Superiore.
Allo stesso tempo non è possibile aumentare a piacimento la quantità di corde verso il grave perché esiste al suo opposto un altro limite detto Vincolo Inferiore.
L’estensione di frequenza a vuoto di uno strumento musicale in altre parole risulta recintata all’interno questi due vincoli.
Il cosiddetto Vincolo Inferiore però comincia a manifestarsi pesantemente solo quando l’escursione di frequenza tra la prima corda a vuoto e l’ultima eccede le due ottave. Solo il Mandolino a sei cori arriva però a questa estensione; il problema comunque fu risolto mediante l’adozione di corde rivestite nei bassi.
Il Vincolo Superiore
Quando una corda di un materiale qualsiasi viene progressivamente tesa tra due punti fissi (cioè la lunghezza vibrante), si arriverà ad un certo momento ad un’altezza di frequenza in cui essa si spezzerà di netto.
Nel caso di un corda di budello moderna il valore medio di questa frequenza per una lunghezza vibrante unitaria di un metro è di 260 Hz, che è un Do lievemente calante.
Il valore di tale frequenza limite, detta ‘Frequenza di Rottura’, risulta completamente indipendente –per quanto strano possa sembrare- dal diametro e questo lo si può facilmente verificare sia per via matematica (applicando la formula generale delle corde) che per via sperimentale.
Mutando i diametri il solo parametro che và cambiare è il valore di tensione dove la rottura avviene.
La Frequenza Limite è poi inversamente proporzionale alla lunghezza vibrante a cui è sottesa la corda.
Così, se essa dimezza la frequenza raddoppierà e viceversa.
Questo significa che il prodotto tra lunghezza vibrante (in mt) e Frequenza Limite di rottura (in Hz) è una costante definita ‘Indice di Rottura’ o più semplicemente prodotto fl (frequenza x l. vibrante); ovvero il Vincolo Superiore.
Inserendo l’Indice di Rottura nella formula delle corde considerando una sezione unitaria di 1 mm2
(pari a 1,18 mm di diametro) si ottiene per calcolo il corrispondente valore di tensione cui si manifesta la rottura: 34 Kg/mm2.
Il range di carico di rottura di un cantino moderno, secondo le nostre verifiche pratiche, risulta compreso tra 33-38 Kg mm2 che equivale ad un Indice di Rottura di 250-280 Hz/mt (valore medio: 260 Hz/mt). (2)
Lunghezza vibrante di Rottura e Lunghezza vibrante di Lavoro
Torniamo ora al nostro argomento: un liutaio ragiona però all’inverso di quanto sopra spiegato; è la frequenza che deve avere il cantino infatti il primo parametro che viene deciso quando si deve progettare uno strumento musicale come ad esempio il Mandolino.
Si tratta di fare una semplice proporzione:
260: 1 metro = frequenza assegnata alla prima corda: X (X: lunghezza vibrante da assegnare in metri).
In pratica, dividendo l’Indice di Rottura medio per la frequenza desiderata per prima corda si otterrà la lunghezza vibrante limite teorica in cui la corda si romperà di netto una volta raggiunta la nota voluta.
Nel caso di un Mandolino a sei ordini la cui prima corda sia un Sol: 698,5 Hz (ad corista francese del 18° secolo di 392 Hz) (3) ottiene: 260/698,5= 0,37 mt
Questa è dunque la lunghezza vibrante limite dove sappiamo che la
corda si rompe statisticamente di netto una volta raggiunto il Sol (riferito al ‘corista francese’ antico di 392 Hz).
La scelta della lunghezza vibrante ‘di lavoro’ dovrà pertanto considerare un accorciamento prudenziale di questa lunghezza limite.
Ma di quanto? Più essa si accorcia più le corde si ingrossano e perdono di rendimento acustico.
L’accorciamento prudenziale o Indice di lavoro
L’esame delle lunghezze vibranti degli strumenti a pizzico e ad arco delle tavole di Michael Praetorius (Syntagma Music, 1619) ha permesso di poter calcolare i loro Indici di Lavoro e metterli perciò in relazione al carico di rottura del budello al fine di capire finalmente di che entità dovette essere il margine di sicurezza adottato allora (4) (5)

Tavola tratta da ‘Syntagma Music’ di Michael Praetorius 1619
E’ stato preso però come riferimento nei vari calcoli il valore medio di carico di rottura di un corda di budello moderna che ritrovato in letteratura: 32Kg mm2 (che equivale ad un Indice di Rottura di 240 Hz/mt).
Questo valore si posiziona in realtà nel ‘quadrante inferiore’ del range di carichi di rottura da noi riscontrati sperimentalmente nelle corde commerciali di oggi (noi avremo qui suggerito il valore medio di 34 Kg/mm2, pari a 260 Hz/mt).
Rapportando quindi l’Indice di Rottura del budello di 240 Hz/mt con gli tutti gli Indici di Lavoro egli ricavò che la scelta della lunghezza vibrante di lavoro della famiglia del Liuto e di alcune Viole da Gamba (Viola Bastarda ad esempio) fu di circa 2-3 semitoni al di sotto dell’Indice di Rottura del budello (e quindi anche della lunghezza vibrante teorica di rottura prima calcolata).
Nel nostro esempio quindi, la lunghezza vibrante ‘di rottura’ accorciata di due/tre semitoni realizzerebbe pertanto la lunghezza vibrante reale poi da adottare (Sol ad un corista di riferimento di 392 Hz): 32,9/31,1 cm, valori che rientrano effettivamente nelle misure che si riscontrano effettivamente nei Mandolini a sei ordini del tempo.
Esiste una evidenza concreta di quanto sinora dedotto; abbiamo sottoposto un cantino di budello ad un condizione di tensione progressivamente crescente misurando la frequenza raggiunta rispetto al suo allungamento. Esaminando il grafico finale della funzione frequenza/allungamento si evidenzia molto bene il tratto proporzionale che segue la legge di Hook (detta anche Taylor/Mersenne).
Ma ad un certo punto si esce dal tratto proporzionale e si arriva ad una condizione in cui la frequenza (e quindi anche la corrispettiva tensione) si innalza bruscamente anche per piccoli allungamenti imposti alla corda:

La corda dunque mantiene la sua linearità sino a circa 2-3 semitoni dalla rottura; oltre tale valore si entra nella fase critica, la quale non si manifesta però secondo il fenomeno dello snervamento tipico dei metalli e delle corde di materiale plastico: da questo punto invece essa perde quasi completamente la capacità di allungarsi arrivando così rapidamente alla rottura.
Si deduce pertanto che lo sfruttamento della massima lunghezza vibrante può operarsi solo nel tratto rettilineo finale e che il massimo rendimento acustico assoluto (dato dalla massima riduzione del diametro di tutte le corde= max contenimento dell’Inarmonicità) è determinato dal fatto di lavorare proprio al limite superiore di proporzionalità, immediatamente prima che esso cambi direzione, e questo avviene proprio a due-tre semitoni dall’exitus finale.
Ecco quindi una possibile risposta tecnica.
Tale comportamento delle corde di budello fu perfettamente noto anche agli antichi e fu pertanto applicato come una delle regole base nella progettazione/costruzione degli strumenti musicali.
Ecco ad esempio Marin Mersenne (“Harmonie Universelle” 1636, Livre Troisiesme, Proposition X, p. 129):

Ecco ora quanto scrisse il Bartoli verso la fine del Seicento: (6) ‘Una corda strapparsi allora che non può più allungarsi…’.

Daniello Bartoli: ‘Del suono, de’ tremori armonici e dell’udito’ 1679.
D’altro canto è ben nota a tutti la regola del tempo di accordare il Liuto e anche alcuni strumenti ad arco al più acuto consentito e fermarsi immediatamente prima della rottura della prima corda: questa è la prova del nove di quanto da noi graficamente evidenziato.
L’esempio del Liuto
Le lunghezze vibranti che furono scelte per alcuni Liuti originali del passato riassumono in sé informazioni preziose.
Il problema principale è unicamente quello di utilizzare nelle valutazioni strumenti non solo non modificati ma il cui corista di riferimento possa essere in qualche modo ipotizzato con relativa sicurezza.
Partendo pertanto da un corista frutto di un certo ragionamento e da quanto emerso nel grafico frequenza/allungamento prima riportato l’indagine compiuta in diversi Liuti e Chitarre a cinque ordini del passato ha permesso di rilevare un range di Indici di Lavoro compreso entro 225 e 235 Hz/mt: siamo molto vicini a quanto calcolato ad esempio da Segerman: 210 Hz/mt.
Se è vero che l’Indice di Lavoro di questi strumenti da noi esaminati comprende in sè un margine di sicurezza di due-tre semitoni dalla rottura, risulta pertanto possibile stimare, procedendo ritroso, anche il carico di rottura medio dei cantini per Liuto aumentando gli Indici di lavoro da noi ricavati di due –tre semitoni.
Da questo semplice calcolo a ritroso si arriva a determinare che carico di rottura medio dei cantini del Sei- Settecento risulterebbe compreso tra 33,7-35,1 Kg/mm2 (Indice di Rottura 256- 268 Hz/mt) nel caso di due semitoni di sicurezza o 35,7-37,3 Kg/mm2 (Indice di Rottura 273-285 Hz/mt) se il margine di sicurezza è invece di tre semitoni.
Il range di tutti questi valori è perfettamente in linea con quello dei cantini di budello attuali (34-38 Kg/mm2).
Tornando al Mandolino a sei ordini con il cantino in Sol, un accorciamento prudenziale di due semitoni dal valore medio di Indice di Rottura del budello determina una lunghezza vibrante di 32,9 cm; 31,1 invece se si tratta di tre semitoni di sicurezza: sono per inciso anche le lunghezze vibranti tipiche che si riscontrano negli strumenti sopravvissuti. Il range degli Indici di Lavoro (il prodotto tra la frequenza della prima corda x lunghezza vibrante in metri) sono i seguenti:
Sol (a corista 392 Hz); 32,9 cm 31,1 cm
230 Hz/mt 217 Hz/mt
Sol (a corista 415 Hz); 32,9 cm 31,1 cm
244 Hz/mt 230 Hz/mt
Come si può osservare, un mandolino a 6 ordini eccede la condizione di lavoro tipica del Liuto solo nel caso in cui il margine di sicurezza sia di due semitoni per un Sol al corista 415 Hz.
Nel caso del Mandolino a 4 ordini napoletano con lunghezza vibrante di 33 cm (quella tipica del Violino e di molti strumenti sopravvissuti) si ricava quanto segue:
Mi (a corista 392 Hz); 33,0 cm
194 Hz/mt
Mi (a corista 415 Hz); 33,0 cm
205 Hz/mt
La conclusione è che entrambe le condizioni di lavoro sono entro i limiti di portata di un cantino di budello, il Mandolino a 6 ordini in particolare lavora esattamente come un Liuto mentre quello napoletano a 4 ordini ha una condizione di stress più ridotta per la prima corda, esattamente come per il Violino. La spiegazione plausibile è la seguente: mentre nel mandolino a 6 ordini l’escursione di frequenza tra la prima e l’ultima corda è di due ottave (24 semitoni), in quello a 4 ordini tale escursione si riduce a 18 semitoni soltanto. Di conseguenza nel secondo caso non è strettamente necessario far lavorare le corde al massimo rendimento acustico possibile, quello del Liuto, al fine di salvaguardare la resa acustica di quelle più spesse.
Rimane però ancora aperto il quesito di partenza: perché non fu usato un cantino di metallo la cui sonorità sarebbe stata molto più brillante e pronta, si avrebbe avuto una minor usura durante l’impiego e anche un maggiore carico di rottura rispetto al budello? (7)
In effetti il carico di rottura di una corda di Ferro per Clavicembalo del Settecento può raggiungere anche i 100 Kg/mm2. Per l’Ottone siamo a valori un poco inferiori ma sempre di molto superiori al carico di rottura medio del budello.
La spiegazione è data dal fatto che la massima ‘acutezza’ raggiungibile risulta sì legata in maniera direttamente proporzionale al carico di rottura ma anche in modo inversamente proporzionale al peso specifico del materiale, che nei metalli è molto elevato: 7,0 gr/cm3 per il ferro, 8,5 gr/cm3 per l’Ottone; 1.3 gr/cm3 soltanto per il budello.
Da semplici calcoli, prendendo in considerazioni sia degli antichi spezzoni di filo metallico per strumenti a tastiera che alcuni trattati del tempo possiamo elencare pertanto una serie di Indici di Rottura:
Mersenne (8)
Argento: 155 Hz/mt
Ferro: 160 Hz/mt
Ottone: 150 Hz/mt
L‘elevata densità tipica dei metalli incide in maniera piuttosto evidente nel contenimento dell‘Indice di Rottura caratteristico : una corda di acciaio ‘antico‘ che presenti un carico di rottura di 100 Kg/mm2 ad esempio (che è tra i valori in assoluto più alti tra quelli ritrovati in vecchi spezzoni di corda per tastiere), possiede invece un Indice di Rottura pari a soli 178 Hz/mt.
Questo spiega con chiarezza perché le Chitarre battenti montate con robuste corde di metallo abbiamo invece una lunghezza vibrante limitata a soli 55-58 cm mentre quelle montate con le meno robuste corde di budello essa si eleva a ben 68-73 cm (a parità di corista naturalmente). (9)
Sono stati rilevati numerosi carichi di rottura delle corde in metallo del passato (10)
Ecco ora alcuni Indici di Rottura riscontrati in vecchi spezzoni di corde metalliche per Spinetta o Clavicembalo:
‘Old’ harpsicord iron: 158-188 Hz/m; mean 173 Hz/m. (11)
‘Old’ spinet and harpsicord iron: 164-187 Hz/m; mean 175 Hz/m. (12)
Old’ spinet iron from the second half of the 17th century: 159-195 Hz/m; mean 177 Hz/m. (13)
Altri metalli:
‘Old’ copper alloys: 112-138 Hz/m; media 125 Hz/m. (14)
‘Old’ brass: 101-155 Hz/m; media 128 Hz/m. (15)
‘Old’ brass: 148-153 Hz/m; media 150 Hz/m. (16)
Si può facilmente notare che le differenza tra i dati di Mersenne e la media dei valori misurati non è particolarmente rilevante.
Il motivo del perché i Mandolini utilizzassero del budello per la corda più acuta è dunque chiaro: non disponevano di metalli puri e/o leghe metalliche che potessero raggiungere un Indice di Rottura simile al suo (260-280 Hz/mt).
Per il Ferro (il metallo con il più alto carico di rottura del tempo) questo corrisponderebbe ad un carico di rottura di 145-160 Kg/mm2.
L’evidenza stessa dell’uso di corde di budello nei cantini del Mandolino è decisamente una chiara dimostrazione che non era disponibile, nel corso del XVIII secolo e anche per i primi decenni di quello a venire, un filo metallico con questi valori altrimenti lo avrebbero impiegato immediatamente, come accadde effettivamente a cavallo tra XVI e XVII secolo e dopo il 1830 circa.(17)
Il Mandolino era pertanto inevitabilmente costretto ad utilizzare le corde di budello per mancanza di alternative.
Le fonti storiche
Vi sono pochissime fonti del XVIII secolo che forniscono indicazioni di come si doveva presentare una montatura di corde per il Mandolino a sei e quattro ordini; in pratica sono soltanto due: Fouchetti e Corrette. (18) (19)
Vediamo ora cosa scrivono e cosa ne possiamo dedurre:
Fouchetti
Quanto scritto dal Fouchetti circa la montatura di corde per il Mandolino a 4 ordini è stato sinora considerato poco attendibile se non proprio piuttosto fantasioso. Una montatura come quella dal lui descritta appare infatti come la più bizzarra ed eterogenea montatura tra quelle di tutti gli strumenti a pizzico e ad arco del suo tempo.
Troviamo infatti mescolate assieme in soli quattro ordini corde di budello, fili di Ottone, fili di Ottone intrecciati, corde rivestite su anima di budello la cui ottava appaiata è però un filo di Ottone.
In effetti il grado di eterogeneità è assolutamente sorprendente. Osservando invece le cose più da vicino e facendo alcuni calcoli ci si accorge invece che questa montatura racchiude in sé quasi la massima perfezione possibile per quel tempo sia dal punto di vista meccanico che dal punto di vista acustico con pochissime possibilità di poter agire diversamente.
Vediamo il perché (tenendo ben in mente che la caratteristica più ricercata per questo strumento era la brillantezza e prontezza di emissione, visto che doveva imitare il Clavicembalo): (20)

-Dimensionamento della lunghezza vibrante: la misura utilizzata conferma con chiara evidenza che siamo di fronte ad uno strumento che come il Liuto vuole sfruttare la massima lunghezza vibrante al fine di garantire le migliori prestazioni acustiche.
Ecco la montatura per il 4 ordini (del sei ordini Fouchetti non dice nulla):
1 usare un cantino per Pardessus (= due budelli)
2 un filo di Ottone giallo per clavicembalo di gauge 5
3 due fili di Ottone giallo per clavicembalo di gauge 6 intrecciati assieme
4 una quarta rivestita per Violino su anima di budello leggera. L’anima può anche essere di seta. Come ottava appaiata si utilizza una corda in Ottone gauge 5 del secondo coro. Talvolta il quarto ordini si monta in unisono

-Prima corda: considerando il range di Indici di Lavoro da noi determinati la prima corda deve essere obbligatoriamente di budello per mancanza si alternative possibili: Fouchetti suggerisce una prima di Pardessus. In base ai dati forniti da De Lalande (21) e da altre fonti sappiamo che il cantino per Pardessus e anche Mandolino era costituito di due budelli interi di agnello mentre quello per Violino di tre. Vi sono numerosi studi a proposito (22) (23) (24) che associano tre budelli a un diametro della prima corda del Violino del tempo compreso tra 0,68-0,73 mm.
Per semplice proporzione dunque la prima corda del mandolino a 4 ordini aveva un diametro di 0,56-0,59 mm.
-Seconda corda: Fouchetti dice che si deve usare un filo di Ottone giallo di gauge 5. L’indice di Lavoro del secondo ordine è intorno a 129 Hz/mt per cui un filo di Ottone per clavicembalo del tempo non arriva a spezzarsi. L’uso di una corda di Ottone e non di un più robusto Ferro ha una sola spiegazione, di natura esclusivamente acustica : l’Ottone, a causa del suo peso specifico più elevato del Ferro, garantisce un resa acustica maggiormente argentina e brillante.
Secondo la scala dei gauges Di Cryseul,(25) il gauge 5 corrisponde ad un diametro di 0,30 mm circa. (26)
L’Ottone giallo ha un peso specifico intorno a 8,5 gr/cm3 contro gli 8,7 gr/cm3 circa dell’Ottone rosso che però non è qui utilizzato (per la maggior quantità di rame presente nella lega).
-Terza corda
Fouchetti dice di prendere due corde di Ottone giallo per clavicembalo del gauge 6 e di intrecciarle assieme. Lo scopo è chiaro: mediante l’intreccio si realizza una corda più elastica che minimizza l’effetto di ‘pitch distorsion’ sui tasti che con un filo semplice sarebbe assolutamente evidente anche per piccole variazioni di pressione sulla corda e/o spostamenti laterali. Con una corda di filo singolo si avrebbe inoltre una notevole difficoltà di intonazione e di mantenerla costante nel tempo perché anche una impercettibile rotazione del pirolo andrebbe a produrre notevoli variazioni. Con l’intreccio di due fili si risolvono brillantemente i problemi sopra elencati; l’utilizzo dell’Ottone garantisce ancora la migliore resa acustica in termini di brillantezza tonale e potenza di emissione anche se è comunque un poco inferiore al filo singolo.
Il gauge 6 sempre secondo la scala di Cryeseul corrisponde a 0,297 mm di diametro circa. Il problema qui è stabilire il grado di torsione da impartire alle due corde, poiché Fouchetti non dice nulla in merito.
Possiamo avere una risposta realizzando nel pratico diversi tipi di intreccio e verificare la tenuta meccanica, la sonorità e soprattutto la tensione di lavoro che ne risulta e paragonarla alle tensioni di lavoro degli altri cori.
Abbiamo così rilevato che due corde di Ottone da 0,30 mm intrecciate tra loro in bassa torsione realizzano una corda in Ottone di diametro equivalente a 0,39 mm (1,30 volte il diametro del filo di partenza) e di 0,46 mm invece (pari a 1,54 volte il diametro del filo di partenza) nel caso la torsione sia molto elevata: in questo secondo caso però abbiamo riscontrato una migliore brillantezza del suono prodotto: a tensione di lavoro, per un Re 262 Hz (al corista 392 Hz), è di 3,4 Kg .
-Quarta corda
Per la quarta corda si utilizza un Sol filato per Violino ma che sia un po’ più sottile di quelle ordinarie. Passando ad una corda filata con anima di budello è evidente che si và a perdere la caratteristica brillantezza manifestata dalle tre più acute.
Ma questo problema viene però notevolmente mitigato dal fatto che a questo ultimo coro viene sapientemente addizionata una corda in ottava di Ottone giallo (e non di budello), il cui scopo evidente era quello di addizionare brillantezza così da recuperare un allineamento acustico con quelle superiori . In questo coro veniva praticata anche la disposizione in unisono ma Fouchetti ci dice che era molto meno usata.
L’autore suggerisce in alternativa l’utilizzo della seta come anima della quarta anticipando così quello che sarebbe diventato poi lo standard per i bassi della Chitarra a sei core semplici del XIX secolo.
Per la verità l’utilizzo della seta nei bassi rivestiti per Chitarra a cinque cori era già stato descritto da Juan Guerrero nel 1760. (27)

Ma come era realizzata una quarta di Violino al tempo?
Le informazioni già citate indicano che si prendeva una seconda corda dello strumento e la si ricopriva di filo di Argento o Rame argentato. Il budello equivalente di una corda di questo genere, al fine di garantire l’omogeneità del profilo scalare di tensione della montura per questo strumento ad arco, si aggirava tra 1,70-1,90 mm. Fouchetti scrive però che questa corda deve essere un po’ più fine dell’ordinario, ma di quanto?
Esiste la possibilità di saperlo: avendo la lunghezza vibrante di 33 cm, i diametri, le densità dei materiali è possibile ricavare il valore della tensione di lavoro di tutte le corde al supposto corista francese di 392 Hz:
1: 5,44 Kg (valore medio di tensione tra 0,56-0,59 mm diametro= 0,575 mm)
2: 5,3 Kg (gauge 5 = 0,34 mm)
3 : 3,4 Kg (intreccio in bassa torsione gauge 6= 0,297 mm)
4:ottava: 4,46 Kg (0,34 mm)
4: basso: 4,46 Kg (?)
Osservazioni
- L’indice di lavoro dell’ottava appaiata alla quarta corda è di circa 115 Hz/mt (122 Hz/mt a corista 415 Hz): un filo di Ottone può essere pertanto tranquillamente utilizzato.
- La montatura presenta una certa scalarità del profilo di tensione la quale porta probabilmente ad una situazione di eguale feel tattile se non fosse l’anomalia della tensione del terzo ordine che risulta abbastanza ridotta. In realtà è possibile riequilibrare la situazione se si considera un calibro più sottile per il cantino realizzato però sempre a partire da due budelli.
- Al fine di avere la medesima tensione di lavoro della sua ottava appaiata, il budello equivalente della quarta corda deve essere di 1,75-1,80 mm: effettivamente siamo in presenza di una quarta corda per Violino che tende ad essere nel range delle tensioni genericamente definibili più leggere.
Conclusione
La montatura descritta dal Fouchetti presenta da un lato una quasi perfetta coerenza del valore di tensione tra le varie corde e dal lato acustico; per l’oculata scelta dei materiali e delle tipologie di corda, raggiunge il massimo rendimento che si traduce in prontezza di emissione, brillantezza e potenza.
Va osservato tuttavia che non esistevano molti margini di manovra alternativi: la prima corda doveva necessariamente essere di budello mentre la quarta non poteva non essere una rivestita su budello o su seta. Molto probabilmente nel secondo e terzo ordini si potevano usare dei fili di Ferro per Clavicembalo ma ciò a discapito della massima brillantezza di emissione (non è scontato però che fossero disponibili fili di questo materiale che fornissero la medesima tensione di lavoro del gauge 5 e 6 di Ottone giallo) così come non era disponibile un gauge intermedio tra il n°5 e il n°6.
L’ottava del quarto ordini poteva essere di budello invece che di Ottone ma anche qui si avrebbe avuto una perdita di brillantezza di emissione, fattore questo sottolineato dal Fouchetti il quale precisa che il Mandolino deve imitare il Clavicembalo e l’Arpa.
Corrette
Esaminando il metodo di Corrette la prima cosa che balza agli occhi è che egli non sembra apportare alcuna novità a quanto descritto dal Fouchetti per il Mandolino a 4 corde doppie accordato per quinte.
In realtà vi sono differenze sostanziali e, secondo noi, diversi errori:
1 ordine denominato F: deve essere cantino di Chitarra a cinque ordini
2 ordine denominato G: deve essere un gauge 5 del Clavicembalo
3 ordine denominato H ed R: la R deve essere una demifilè: della H non dice nulla.
4 ottava: ordine denominato K e I: la I è una filata piena, della K non dice nulla.
- La prima corda di budello non è un cantino di Pardessus come per Fouchetti bensì delle chanterelles per Chitarra coeva: che diametro poteva essere?
Apriamo dunque una parentesi focalizzata a risolvere questo problema: dobbiamo sapere se esistono riferimenti diretti sul numero di strisce e le corde della Chitarra o almeno un riferimento indiretto ad un altro strumento musicale.
Si constata che al momento non abbiamo purtroppo alcun riferimento diretto; esistono invece diversi riferimenti rispetto ad uno strumento ben studiato: il Violino.
- Nel Museo Stradivariano è presente un disegno su cartoncino (disegno n° 375) che porta segnata la descrizione delle corde necessarie per i cinque ordini tastati della chitarra attiorbata, che è in pratica una normale chitarra a cinque ordini cori con cinque bordoni singoli aggiunti in tratta:

-Prima e seconda corda (primo ordine): “Questi deve essere compani due cantini di chitara”.
-Terza e quarta corda (secondo ordine): “Queste deve essere compane due sotanelle di chitara”.
-Quinta e sesta corda (terzo ordine): “Queste deve essere compane doi cantini da violino grossi”.
Etc etc. (28)
Per risolvere l’enigma dobbiamo dunque sapere che diametro medio aveva un cantino di Violino del tempo e che cosa poteva definire un cantino ‘grosso’.
Il Conte Riccati (che fu, oltre che un grande fisico, un discreto violinista dilettante amico del Tartini) intorno al 1740/50 compì alcune interessanti misurazioni sulle corde del suo Violino: dai suoi calcoli ricaviamo la misura del cantino installato sul suo Violino: 0,70 circa (29)
Tale stima è confermata indirettamente anche dai dati forniti dal viaggiatore francese e astronomo De Lalande –1760 ca. –(30), circa il numero di budelli utilizzati per realizzare le corde di mandolino, Violino e Contrabbasso dal celeberrimo cordaio abruzzese – operante in Napoli – Domenico Antonio Angelucci e che queste proporzioni si sono mantenute rigorosamente costanti fino alla fine del secolo seguente, sia in Italia che in Francia. (31)
Per quanto riguarda la dicitura cantini/canti “grossi”, consideriamo come traccia il valore di calibro più grosso (“thick”) di corde di Mi e La realizzate a partire da uno stesso numero di fili di budello, come indicato da George Hart. (32) Evidenziata la grande standardizzazione nel processo manifatturiero delle corde da Violino ecco che allora è possibile ipotizzare che un cantino a tre fila di tipo “grosso” possa aggirarsi intorno a 0,73-0,74 mm.
Poiché il terzo ordine di questa chitarra utilizzava un cantino di Violino (al tempo realizzato con tre budelli detti altrimenti “fili”) per semplice proporzione – mantenendo la tensione costante- il secondo ordine doveva essere costituito per forza di cose da due fili (come il cantino del Mandolino e del Pardessus, secondo il De Lalande) e il primo di un budello soltanto, esattamente come i cantini del Liuto (33). In condizioni di calcolo teorico, infatti, il rapporto esistente tra i diametri risulta pari alla radice quadrata del rapporto tra il numero dei fili utilizzati; poi però bisogna fare i conti con il feel tattile di tensione che deve risultare omogeneo: due fili di budello producono pertanto un diametro compreso tra 0,57 e 0,59 mm.
Visto che con tre “fili” di budello si otteneva un diametro medio oscillante intorno a 0,70 mm (qui ci si riferisce espressamente ad un cantino ‘grosso’; proponiamo ad esempio 0,73 mm, il quale è il valore ‘thick’, suggerito da George Hart), considerando un profilo di equal feel tattile della montatura della Chitarra (il quale porta però ad tensione in Kg di natura scalare condizionando la scelta dei relativi calibri) ecco allora quanto è stato da noi ricavato:
1° ordine: ~ 0,44-46 mm (ricavato da un budello).
2° ordine: ~ 0,57-59 mm (ricavato da due budelli).
3° ordine: ~ 0,73 mm (cantino “grosso” di violino: ricavato da tre budelli).
Etc etc.
- Corrette:
“La guitarre se mont en cinq rangs de cordes, le 1er n’en a qu’un qui se nomme chantarelle, et les quatre autres rangs en ont chacum deux… Il faut observer que les deux cordes du 3me rang et la petite corde a l’octave du 5me rang soient égales en grosseur pas si forte que la chantarelle de violon…. ”.(34)
Corrette stesso dunque conferma sostanzialmente quanto scritto nel reperto stradivariano
Ora che abbiamo una certa conoscenza di quali potevano essere i diametri di corda della Chitarra coeva torniamo di nuovo al Mandolino a 4 ordini descritto dal Corrette e proviamo a fornire i calibri:
- Prima corda: Corrette parla di un chanterelle di Chitarra. Come abbiamo visto, il punto di riferimento da cui partire per risalire ai diametri di corda per la Chitarra è il suo terzo ordine, il quale presenta un calibro pari a un cantino (grosso) del Violino coevo: al fine di salvaguardare un omogeneo feel tattile di tensione tra le corde la prima corda quindi secondo quello che scrive l’autore deve essere di circa 0,44-46 mm di diametro.
- Seconda corda: si utilizza il gauge 5 del Clavicembalo. Corrette però non specifica il tipo di metallo; tuttavia l’analogia con Fouchetti è consistente; riteniamo pertanto si tratti di Ottone giallo.
- Terza corda: Corrette stranamente sembra considerare ciascuna corda singola dell’ ordine nonostante dal pentagramma si veda che è in unisono. Di una, denominata H, non dice nulla mentre dell’altra, denominata R, si trova scritto che è una demifilè senza aggiungere alcun ragguaglio ulteriore: da questa affermazione non è possibile purtroppo ricavarne nulla di concreto; non si sa se le due corde dell’ordine dovevano essere entrambe demifilè e non fornisce infine indicazione di come questa presunta demifilè sia fatta.
- Quarta corda: dell’ ottava denominata K Corrette non dice nulla. Della corda bassa denominata C si limita a scrivere che è una corda filatura accostata. Non è però nota l’anima da utilizzare (seta o budello) tuttavia grazie a Fouchetti sappiamo che entrambi i materiali andavano egualmente bene. Si potrebbe qui intuire che sia un Sol per Violino.
Considerazioni
Le indicazioni fornite da Corrette circa le corde per il Mandolino a 4 corde doppie sono secondo lo scrivente totalmente inattendibili.
-Primo ordine (0,44-0,46 mm circa): esso avrebbe una tensione di lavoro di soli 3,0-3,2 Kg a corda.
-Secondo ordine (gauge 5 presumibilmente di Ottone giallo, ma non viene specificato nulla in merito): essa si eleva ad almeno 5,3 Kg a corda. Lo scarto con il primo ordine è notevole.
Per avere una tensione di lavoro paragonabile al secondo ordine, il primo dovrebbe utilizzare invece le corde del secondo ordine della Chitarra (2 budelli= prima Mandolino =prima Pardessus secondo De Lalande) allineandosi perciò con il Fouchetti.
-Terzo e quarto ordine: non è possibile ricavare nulla di utile. Se non fosse per Fouchetti (il quale dà un termine di paragone utile) i dati forniti da Corrette sarebbero del tutto privi di senso.
Mandolino a Sei ordini
Con i problemi già incontrati sul mandolino a 4 corde doppie accordato per quinte ci si aspetta inevitabilmente ancora delle problematiche. In effetti diverse indicazioni risultano purtroppo errate: si rendono pertanto necessari alcuni ragionamenti. Solo alla fine di questo lavoro di revisione la montatura del Mandolino sei ordini diventa realmente proponibile.
- Primo e secondo ordine: Corrette scrive che i cori denominati L ed M devono essere chanterelles per Chitarra: cosa significa? Che usava il cantino della Chitarra anche per il secondo ordine del Mandolino? Corrette qui è molto impreciso. Certamente non possono essere dei cantini soltanto installati poi anche nel secondo ordine: si avrebbe un totale disallineamento nella tensione di lavoro. Riteniamo pertanto che Corrette si riferisca invece al primo e secondo ordine della Chitarra.
- Terzo coro denominato N: Corrette dice che si utilizza il gauge 5 del Clavicembalo ma omette di specificare il tipo di metallo: riteniamo tuttavia che si tratti del solito Ottone giallo per Clavicembalo.
- Quarto coro denominato S: Corrette dice che si tratta di una corda demifilè ma non aggiunge altro (filata su seta o budello?)
- Quinto ordine denominato P: si tratta di una corda filata per intero ma non abbiamo nessun altra informazione: la corda in ottava non viene per nulla menzionata.
- Sesto ordine denominato Q: si tratta di una corda filata per intero ma non abbiamo nessun altra informazione: la corda in ottava non viene per nulla nominata.
Considerazioni
In base ai dati forniti da Corrette nessuno oggi (ma anche al suo tempo!) è in grado di ricavare l’intera montatura di corde; tuttavia è possibile introdurre alcuni ragionamenti che alla fine potrebbero forse risolvere l’enigma:
Partiamo dall’unico dato sicuro a disposizione: il terzo ordine alla nota di ‘La’, che è il gauge 5 del Clavicembalo. Noi crediamo sia di Ottone giallo (0,34 mm).
Utilizzando una lunghezza vibrante media tipica del Mandolino a sei ordini, pari ad esempio a 0,315 cm e a un presunto corista parigino/romano di 392 Hz si ricava una tensione di lavoro di 4,8 Kg.
Il primo e secondo ordine dello strumento devono pertanto in qualche modo rapportarsi a questo valore: installando infatti in questi due ordini la prima e seconda corda della Chitarra (di cui, grazie a Stradivari e al Violino preso come riferimento abbiamo un’idea dei diametri) si ottengono rispettivamente le seguenti tensioni di lavoro: 3,9-4,3 Kg per il primo ordine e 3,8-3,9 Kg per il secondo. Paragonati al valore di tensione del terzo ordine si ha certamente un andamento di tensione non perfettamente bilanciato però ancora funzionale.
Passiamo per semplicità a trattare subito del sesto ordine: essendo un Sol possiamo pensare che sia effettivamente da usarsi come per Fouchetti una quarta corda per violino e la cui ottava sia pari alla seconda di budello (terza della chitarra): ammettendo questa ipotesi la tensione del basso e della sua ottava appaiata risulta essere di 3,9 Kg circa. L’ottava appaiata potrebbe essere lo stesso gauge 5 in Ottone giallo già utilizzato per il 3 coro: una corda di budello sarebbe stata invece di 0,90 mm circa.
Avendo ricavato la tensione di lavoro del primo, secondo, terzo e sesto ordine, risulta logico pensare che la tensione di lavoro del quarto e quinto debba essere compresa necessariamente tra 4,8 Kg (terzo ordine) e 3,9 Kg (quarto ordine): come si può realizzare questa condizione rimanendo nel campo lecito tecnologico e acustico?
Quarto ordine: come abbiamo visto, questo secondo Corrette deve utilizzare corde di tipo demifilè. Si deve qui necessariamente considerare un range di tensione di lavoro di poco inferiore a quella del terzo ordine ma comunque superiore al range associato teoricamente al quarto ordine; questo al fine di preservare la linearità dei valori sinora calcolati. Se ipotizziamo che il detto range sia di 4,4-4,7 Kg si ottengono i seguenti diametri: 1,10-1,14 mm: questi diametri corrispondono esattamente una terza corda di Violino che a quel tempo, in Francia, veniva realizzata solitamente a demì.(35)(36)

La sua ottava appaiata dovrebbe avere un diametro compreso tra 0,55 -0,57 mm: la prima corda per Mandolino a quattro ordini/secondo ordine della Chitarra.
Quinto ordine: Corrette afferma che questa corda è a filatura totale ed è in unisono. Da semplici calcoli, considerando un range di tensione di poco superiore a quella del quarto ordine al fine di preservare la linearità dei valori sinora calcolati (ipotizziamo che il range sia di 4,1-4,3 Kg) si ottiene per la nota Si un budello equivalente di 1,42-1,47 mm di diametro.
Il dato dovrebbe essere attendibile: la sua ottava, a parità di tensione, oscilla tra 0,71 e 0,73 mm di diametro: in pratica la terza corda della chitarra (un cantino di Violino).
Il problema è la sua realizzazione, soprattutto se si utilizza un anima di budello. Il problema è dato dal fatto che al tempo, secondo le nostre ricerche, non riuscivano a realizzare commercialmente fili metallici di diametro inferiore a circa 0,15 mm. (37) (38) (39) (40)
In altre parole la corda filata a demì secondo lo scrivente non era affatto una corda di transizione tra una corda di budello ed una a filatura piena bensì una scappatoia tecnologica utile ad aggirare il problema della mancanza di fili metallici più sottili. La prova è nell’Indice di Metallicità caratteristico di queste particolari corde, il quale risulta simile a quello delle corde rivestite a filatura piena.
Diverso è il discorso se l’anima è invece di Seta la quale, secondo Fouchetti, veniva felicemente usata nel Mandolino e poi anche nei bassi della Chitarra a cinque ordini e, naturalmente, nella futura chitarra a sei corde semplici prossima a venire.
Con la Seta, a parità di budello equivalente, il rapporto tra anima e metallo può essere sbilanciato a favore di quest’ultimo rendendo possibile una corda rivestita con filatura piena e una resa maggiormente brillante.
Interessante notare che in pratica il budello equivalente e la maniera di realizzare le corde a filatura piena su seta per il quinto e sesto ordine del Mandolino a sei ordini saranno poi le stesse utilizzate rispettivamente per la quarta e quinta corda della Chitarra a sei corde semplici che in capo a 10-15 anni sarebbe resto comparsa sulla scena musicale.

In conclusione, anche per questo tipo di Mandolino Corrette non ci permette di arrivare a delle conclusioni che siano plausibili e abbastanza sicure.
Abbiamo fatto tuttavia una serie di ragionamenti che portano alla seguente proposta di montatura, la quale si rifà come base a quel poco di utile che emerge da Corrette (l’unico punto fermo qui è l’indicazione che il terzo coro utilizza il gauge 5, da cui si può ricavare il valore della tensione: a questo punto gli ordini più acuti devono avere una tensione via via crescente mentre quelli più gravi una tensione via via degradante secondo un profilo simile indicativamente a quello del Mandolino di Fouchetti) e con il ‘supporto’ di quanto descritto invece dal Fouchetti:
1 G: prima della Chitarra a cinque ordini =0,44-0,46 mm di diametro; tensione media: 4,1 Kg a corda
2 D: seconda della Chitarra a cinque ordini = 0,57-0,59 mm di diametro; tensione media: 3,9 Kg a corda
3 A: gauge 5 Ottone giallo per clavicembalo = 0,34 mm diametro; tensione media: 4,8 Kg a corda
4 E: corda demifilè (terza di violino secondo l’uso francese)= 1,10-1,14 mm budello equivalente; tensione media: 4,0- 4,5 Kg
5B ottava: terza della chitarra a cinque ordini = 0,70-0,73 mm di diametro; tensione media: 4,2 Kg
5B: basso: corda filata piena su anima di seta con budello equivalente=1,42-1,47 mm diametro; tensione media:4,2 Kg
6G ottava: lo stesso gauge 5 in Ottone giallo per clavicembalo = 0,34 mm diametro; tensione media: 3,9 Kg (oppure una corda di budello da 0,88-0,91 mm circa: in pratica il quarto ordine della chitarra).
6G: basso: quarta filata piena su anima di seta (difficile pensare che abbia utilizzato una corda filata su anima di budello ovvero una quarta per Violino) = 1,80 mm diametro in budello equivalente: tensione: 3,9 Kg
L’incertezza se utilizzare corde di ottava in budello o in Ottone giallo del gauge 5 è un problema di relativa importanza: Fouchetti precisa che il fatto di montare corde di metallo o di budello era una questione di gusto personale.

Prove pratiche
Mandolino a quattro ordini: montatura secondo Fouchetti
-Primo ordine unisono: corda di budello 0,56 mm: non si è riscontrato alcun problema meccanico o acustico.
-Secondo ordine unisono: filo di Ottone Giallo crudo per Clavicembalo diametro commerciale 0,35 mm. Il problema principale che si è riscontrato riguarda la maniera di fare l’aggancio alla cordiera. Trattandosi un filo di Ottone molto crudo il problema è la sua fragilità. Nel nostro caso abbiamo risolto il problema realizzando una cappio molto lungo in modo tale che ponendo la corda in trazione esso vada a serrarsi da sé eliminando qualunque problema di rottura della corda ai pioli di aggancio per la presenza di punti di piega o cappi troppo bruschi.

-Terzo ordine unisono: Si è utilizzato del filo di Ottone giallo commerciale crudo da 0,30 mm. Non è possibile ritorcere insieme direttamente i due fili perché essendo molto crudo tende a spezzarsi durante la torcitura opponendosi all’operazione stessa fino ad arrivare ad avere gradi di torsione differenziati lungo la corda. La soluzione a questi problemi è stata quella di addolcirle i due fili scaldandoli a 350 gradi (a tal proposito abbiamo fatto numerosi test il cui risultato finale ha indicato che il filo và scaldato tra i 330 i 370 gradi centigradi) per lo spazio di un minuto. Il filo acquista così un grado intermedio di crudezza permettendo di realizzare l’intreccio pur mantenendo ancora un grado di crudezza residuo che contrasti lo snervamento del filo sotto trazione.
Il grado di torsione da impartire alla corda è un aspetto cruciale: se è molto elevato il suono risulta molto brillante ma si riduce in concomitanza anche la resistenza alla trazione. Con un grado di torsione inferiore la sonorità e meno metallica; si ha meno sustain ma si ha una maggior resistenza alla trazione e si perde un poco di tensione di lavoro. In altre parole a seconda del grado di torcitura impartito è possibile modulare la resa timbrica desiderata fino a trovare un condizione di equilibrio acustico tra il secondo e il quarto ordine.
-Quarto ordine in ottava: si è utilizzata una quarta di Violino di budello equivalente a 1,80 mm ottenuta secondo le indicazioni storiche (una seconda corda un po’ leggera per Violino poi ricoperta con filo di Argento): per l’ottava si è utilizzata un seconda corda di Ottone Giallo.
Conclusioni: l’equilibrio acustico complessivo della montatura è risultato discretamente omogeneo e così anche la sensazione tattile di rigidità delle corde (corista 392 Hz).
Mandolino a sei ordini secondo la nostra interpretazione di Corrette (plettro in corteccia di ciliegio)
-Primo ordine unisono: budello da 0,46 mm: nessun problema acustico o meccanico riscontrato
-Secondo ordine unisono: budello da 0,56 mm: nessun problema acustico o meccanico riscontrato
-Terzo ordine unisono: filo di Ottone Giallo da 0,35 mm: feel tattile di tensione un poco superiore a quello delle corde più acute; sonorità più brillante rispetto al secondo e al terzo ordine a seguire. Tensione di lavoro: il diametro dovrebbe ridursi a 0,33-0,34 mm. Non esiste soluzione alla resa acustica brillante. Corda di budello da 0,88 mm: nessun problema meccanico; resa acustica allineata con i primi due ordini superiori e con il quarto ordine-
-Quarto ordine unisono: si sono usate due corde demifilè terze di violino budello equivalente di circa 1,15 mm. Non si hanno avuti problemi meccanici. La sonorità è risultata un poco ovattata rispetto a quella del terzo ordine in Ottone giallo.
– Quinto ordine in ottava: il basso è costituito da una quarta corda avvolta con filo di rame argentato su anima di seta il cui budello equivalente è di circa 1,40 mm. La corda in ottava è una terza corda per Chitarra a cinque ordini da 0,73 mm.
– Sesto ordine in ottava: il basso è costituito da una quarta corda avvolta con filo di rame argentato su anima di seta il cui budello equivalente è di circa 1,80 mm. La corda in ottava è una quarta corda per Chitarra a cinque ordini da 0,88 mm. Nessun problema di ordine meccanico; equilibrio acustico e dinamico buono anche in relazione al quinto ordine. Si è provato il filo di Ottone Giallo come ottava riscontrando un disequilibrio di natura tonale con gli altri ordini superiori.
Secondo lo scrivente una montatura sperimentale di questo tipo risulta totalmente soddisfacente.
I punti critici ruotano intorno all’utilizzo del filo di Ottone nel terzo ordine, a causa della differenza timbrica con gli ordini che lo precedono e che lo seguono. Parimenti, l’utilizzo di una corda di Ottone giallo come ottava del sesto ordine risulta improponibile a causa del disequilibrio tonale che si riscontra. La montatura che presenta il miglior bilanciamento dunque è quella che utilizza corde di budello per i primi tre ordini e per tutte le ottave; corde di seta pienamente rivestita per il quinto e sesto ordine e una corda rivestita a filatura spaziata su anima di budello per il quarto ordine: per questo ordine rimane aperta la sperimentazione di una corda di tipo demifilè su anima di Seta, che comunque non ha sinora trovato riscontri nella documentazione del XVIII secolo sinora reperita.
Conclusioni
Pur essendo sopravvissuti alcuni metodi del XVIII secolo che hanno trattato del Mandolino in generale, quando si tratta invece di capire che tipo di corde utilizzassero ne abbiamo a disposizione in realtà solo due: Fouchetti e Corrette.
I dati forniti dal primo inerenti il Mandolino a 4 corde doppie risultano tecnicamente e acusticamente coerenti: essi danno luogo ad una montatura il cui valore di tensione risulta entro un range di accettabilità e di omogeneità tra le varie corde. Le corde dei quattro ordini rasentano, dal punta di visto tecnologico ed acustico, la quasi perfezione considerando quello che era disponibile a quei tempi. Purtroppo Fouchetti non dice nulla del Mandolino a 6 ordini.
Quanto descritto da Corrette invece è di natura decisamente lacunosa e talvolta anche confusa: non è possibile pertanto ricavare direttamente nulla di utilizzabile se non passando attraverso una rielaborazione critica dei dati da lui forniti.
Così, se si rivede quanto da lui scritto in comparazione con Fouchetti (per certi versi ci sono delle sovrapposizioni interessanti), tenendo sempre in debita considerazione ciò che si poteva o non si poteva fare al tempo, allora risulta possibile formulare una proposta concreta per il Mandolino a sei ordini di corda.
Per il Mandolino a 4 ordini valgono pertanto i soli dati del Fouchetti confermati solo parzialmente anche dal Corrette (il gauge 5 per il secondo ordine ad esempio).
Per il Mandolino a sei ordini, come abbiamo visto, possiamo rifarci soltanto a Corrette: riteniamo che la nostra rielaborazione sia interessante non solo dal punto di vista acustico ma anche dal punto di vista dei materiali per fare le corde disponibili al tempo.
Abbiamo però un’ultima considerazione: Corrette non chiarisce se il Mandolino in questione debba essere suonato con il plettro o con le dita. Dai valori di tensione da noi calcolati un Mandolino a sei ordini con ponte fisso potrebbe avere delle notevoli difficoltà ad essere suonato con i soli polpastrelli delle dita. A titolo di esempio il range di tensione mediamente accettato oggi nel Liuto (che è uno strumento molto più grande) è, nella sua massima estensione, tra 2,7 e 3,3 Kg per corda. Le regole del tempo sono chiare e ripetute più volte nei documenti storici: Liuti grandi corde spesse; Liuti piccoli corde più sottili (vale a dire tensioni di lavoro più ridotte).
Un Mandolino suonato con le sole dita con una lunghezza vibrante di soli 31,5 cm al corista di riferimento di 392 Hz e che dia una sensazione tattile di tensione delle corde simile a quella del Liuto dovrebbe dunque lavorare a tensioni discretamente inferiori, ad esempio intorno a 2,0 Kg: questo però comporterebbe un cantino di budello del diametro di 0,31-0,33 mm soltanto che però al tempo non erano affatto in grado di produrre. Il calibro che esce da un singolo budello di agnello –come indicato dalle antiche fonti- si aggira intorno a 0,42-0,46 mm di diametro e produce una tensione di lavoro superiore a quella di un Liuto.
Una possibile soluzione -e che proponiamo- è data dal fatto che il Mandolino a sei ordini con ponte incollato possa essere stato suonato con le dita provviste di unghie. Una soluzione di questo tipo avrebbe permesso di poter lavorare in agilità senza plettro (l’unghia stessa funge da plettro), con suono netto ed argentino e con tensioni di lavoro consistenti, altrimenti oggettivamente difficili da affrontare con i solo polpastrello. D’altro canto è storicamente noto che tra i mandolinisti del Settecento si annoverano anche diversi suonatori di Tiorba e Arciliuto che notoriamente facevano uso delle unghie della mano destra, come ad esempio Filippo dalla Casa. Difficile che se le tagliassero per l’occasione di suonare il Mandolino.

Giro il quesito a chi suona un Mandolino di questo genere; d’altro canto questi sono i calcoli e questi sono i risultati che ne derivano.
Vivi felice
NOTE
- Djilda Abbott – Ephraim Segerman: “Strings in the 16th and 17th centuries”, The Galpin Society journal, XXVII 1974, pp. 48-73.
- Và sottolineato che i valori di tensione ricavati in questo esempio sono quelli che si ottengono con corde la cui tecnologia manifatturiera utilizzata è quella specifica messa a punto per i soli cantini, che è indirizzata esclusivamente all’ottenimento della massima resistenza tensile (e all’abrasione superficiale), come poi vedremo meglio.
In altre parole nella loro manifattura non si tiene per nulla conto del parametro elasticità (parametro trascurabile in queste sottili corde), cosa di cui si tiene conto invece per tutte altre tipologie di corda che non sono impiegate nella prima posizione: in queste si punta invece unicamente ad ottenere la massima elasticità possibile. Elasticità e resistenza tensile sono inversamente proporzionali.
- Per semplicità abbiamo deciso di assegnare questo valore di frequenza standard. In realtà il corista francese secondo gli studi fatti rientrava in un range compreso tra 385 e 400 Hz. Vedere: Alexander J. Ellis in Studies in the History of Music Pitch: Monographs by Alexander J. Ellis and Arthur Mendel (Amsterdam: Frits Knuf, 1968; New York: Da Capo Press)
Arthur Mendel: “Pitch in western music since 1500: a re-examination”. In -Acta musicologica- L 1978, pp.1-93.
Ephraim Segerman: “On German Italian and French pitch standards in the 17th and 18th centuries”. FOMRHI quarterly no. 30, January 1983, comm.442. - Ephraim Segerman: comm 1545 in FOMRHI Quarterly 89, October 1997.
- Ephraim Segerman: comm 1593 in FOMRHI Quarterly 92, July 1998.
- Daniello Bartoli: ‘Del suono, de’ tremori armonici e dell’udito’, a spese di Nicolò Angelo Tinassi, Roma 1679, p. 263.
- Le corde di metallo lavoravano anche loro nei pressi della rottura; vedere a tal proposito:
-William R. Thomas and J.J.K. Rhodes: “The string scales of Italian keyboard instruments”. The Galpin Society Journal XX -1967, p.48.
-Michael Spencer: “Harpsicord phisics”. The Galpin Society Journal, XXXIV, March 1981, pp. 3-7.
-Ephraim Segerman: “Bulletin Supplement “. FOMRHI quarterly no.39, April 1985, p.11; 1768-Adlung’s statement: “When a harpsicord is strung so that the pitch can be safely raised a semitone, one can be secure…”. - Marin Mersenne: “Harmonie Universelle” 1636, Livre Troisiesme, Proposition XII e Proposition XIII, vedere la nota no.7 p.58.
- Ephraim Segerman: “New Grove DOMI: ES Mo 4: Ca to Ci entries”. FOMRHI quarterly no.43, April 1986, comm.698.
E anche:
Harvey Hope: “Ref J. M. S. remarks on the New Grove Chitarra battente”. FOMRHI quarterly no.43, April 1986, comm. 709.
-Peter S. Forrester: “Citterns and chitarras battente: re. Comm.698, Grove Review”. FOMRHI quarterly no.44, July 1986, comm. 740.
– Ephraim Segerman: “Response to Comms 739 and 740”. FOMRHI quarterly no.44, July 1986, comm.742.
-Peter S. Forrester: “17th c. Guitar woodwork”. FOMRHI quarterly no. 48, July 1986, comm.825.
-James Tyler: “The Early Guitar- A History and Handbook”; Early Music series: 4, Oxford University Press, London 1980. Quoted By by Ciro Caliendo: “La Chitarra battente. Uomini, storia e costruzione di uno strumento barocco e popolare”, Edizioni Aspasia, Aprile 1998, pp.24-25. - Cary Karp: “Strings, twisted and Mersenne”. FOMRHI quarterly no.12, July 1978, comm.137.
Ephraim Segerman & Djilda Abott: “On twisted metal strings and Mersenne’s string data”. FOMRHI quarterly no.13, October 1978, comm. 64.
E anche:
-Cary Karp: “On Mersenne’s twisted data and metal strings”. FOMRHI quarterly no.14, January 1979, comm. 183.
-Ephraim Segerman: “Mersenne untwisted-a counter-Carp to comm.183”. FOMRHI quarterly no.15, April 1979, comm.199. - Cary Karp: ”The pitches of 18th Century strung Keyboard Instruments, with Particular Reference to swedish Material, SMS-Musikmuseet Technical Report no.1”, SMS-Musikmuseet, Box 16326, 103 26 Stockholm, Sweden, 1984, 129 pp. See also: “On wire-comms and wire-comm comments”. FOMRHI quarterly no. 11, April 1978, comm. 134. Karp wrote that “ In as much as the lower portion of this range was generated by piano wire…”.
- Remy Gug: “Abut old music wire”. FOMRHI quarterly no. 10, January 1978, comm.105. Gug wrote that “ Let us first specify that the concerned strings have been taken from instruments used in the XVIIth and XVIIIth centuries: harpsicords, spinets, clavichords, dulcimers”.
- Marco Tiella: “Problemi connessi con il restauro degli strumenti musicali”, pp.22-23.
- Vedere nota n 10
- Ephraim Segerman: “Neapolitans mandolins, wire strengths and violin stringing in late 18th c. France” . FOMRHI quarterly no.43, April 1986, comm.713. Questo di Segerman è stato il primo lavoro da noi conosciuto che tratti delle montature del Mandolino del 18 Secolo.
- Gianni Podda: “Prove di trazione e determinazione della tensione di rottura per corde antiche e moderne”, pp.36-38. Atti del seminario per la didattica del restauro liutaio, estate musicale 1981; Premeno.
- Remy Gug: “Jobst Meuler or the secret of a Nuremberg wire drawer” FOMRHI quarterly no.51, April 1988, comm 866, p. 29.
- Giovanni Fouchetti: “Méthode pour apprendre facilement á jouer de la mandoline á 4 et á 6 cordes”. Paris 1771. Reprint: Minkoff, Genève, 1983, p. 5.
- Michel Corrette: “Nouvelle Méthode pour apprendre à jouer en très peu de temps la Mandoline par Mr. Corrette” Paris 1772.
- Op. cit 17.
- Francois De Lalande : “Voyage en Italie […] fait dans les annés 1765 & 1766, 2a edizione, vol IX, Desaint, Paris 1786, pp. 514-9, Chapire XXII “Du travail des Cordes à boyaux…: “ …on ne met que deux boyaux ensemble pour les petites cordes de mandolines, trois pour la premiere corde de violon… ”.
- Mimmo Peruffo: “ Italian violin strings in the eighteenth and nineteenth centuries: typologies, manufacturing techniques and principles of stringing, “ Recercare”, IX, 1997 pp. 155-203.
Vedere anche: Antoine Germain Labarraque: L’art du boyaudier, Imprimerie de Madame Huzard, Paris 1812, pp. 31-2.
- Patrizio Barbieri: “ Giordano Riccati on the diameters of strings and pipers, “ The Galpin Society Journal”, XXXVIII, 1985, pp. 20-34: “Colle bilancette dell’oro pesai tre porzioni egualmente lunghe piedi 1 _ Veneziani delle tre corde del Violino, che si chiamano il tenore, il canto e il cantino. Tralasciai d’indagare il peso della corda più grave; perchè questa non è come l’altre di sola minugia, ma suole circondarsi con un sottil filo di rame.“.
- Ephraim Segerman: “Strings thorough the ages“, The Strad, part 1, January 1988, pp.20-34”, pp. 52-5, part 2 (“Highly strung“), March 1988, pp.195-201, part 3 ; “Deep tensions“, April 1988, pp.295-9.
- Cryseul, Géoffrion: “Moyen De Diviser Les Touches Des Instruments à Cordes, Le Plus Correctement Possible…On y Voit La Manière Dont Les Artistes Doivent Considérer Les Loix Qu’Impose Le Tempérment…Et L’on Imagine Un Moyen D’Accorder Les Clavessins.”Paris: Rodez, 1780.
- http://harps.braybaroque.ie/Taskin_stringing3.htm
In questo sito vi sono delle interessanti comparazioni circa la scala dei gauges di Cryseul e i relativi diametri in mm secondo le opinioni di diversi ricercatori.
- Don Juan Guerrero: “ Methode pour Aprendre a Jouer de la Guitarre”. Paris 1760.
- Patrizia Frisoli, The Museo Stradivariano in Cremona, “The Galpin Society Journal”, XXIV, July 1971 p. 40.
- Patrizio Barbieri: op cit 21.
- De Lalande: op. cit 19.
- PHILIPPE SAVARESSE: “Cordes pour tous les instruments de musique”, in CHARLES-P.-L. LABOULAYE: Dictionnaire des arts et manufactures, 3rd edition, vol. I, Lacroix, Paris 1865.
- George Hart, The violin and its music, Dulau and Schott, London 1881, pp. 46-7.
Michel Corrette: “Les Dons d’Apollon”. Paris 1763, p. 22, Capitolo XVI - Attanasius Kircher: “ Musurgia Universalis sive Ars Magna Consoni et Dissoni in X. Libros Digesta, Roma, 1650, Caput II, p. 476: “…ita hic Romae gravissimam tesdudinis chordam ex 9 intestinis consiciunt, secundam ex 8, & sic usque ad ultimam, & minimam, quae ex uon intestino constat.”.
- Michel Corrette: “ Les Dons d’Apollon” Paris 1763, p. 22, Capitolo XVI.
- SEBASTIEN DE BROSSARD: [Fragments d’une méthode de violon], manuscript, ca. 1712, Paris, Bibliothèque Nationale, Rés. Vm8 c.i, fol. 12r (cited in BARBIERI: “Giordano Riccati”, p. 34.
- JEAN-BENJAMIN DE LABORDE: Essai sur la musique ancienne et moderne, Eugène Onfroy, Paris 1780, livre second, “Des instruments”, pp. 358-9: “Violon […] Ordinairement la troisième et la quatrième sont filées; quelque fois la troisième ne l’est pas” (Violon […]
- Il diametro più sottile della scala dei Gauge di Creyseul è il n° 12, pari a 0,15 mm circa.
- James Grassimeau : “A musical Dictionary” London 1740.
Nel dizionario ci viene precisato che con la tecnologia metallurgica corrente si possono ottenere fili di oro, argento ottone e ferro di diametro compreso da 1/20 di inch fino a 1/100 di inch: 0,50-0,25 mm di diametro. Questo volume è una traduzione ampliata del dizionario di Sébastien de Brossard del 1703.
- Marco Tiella; informazioni segnalate allo scrivente: il diametro più sottile di filo di ottone da lui ritrovato in alcune spinette si aggirava intorno a .15 mm di diametro.
- Gli abiti del passato possono rappresentare un ulteriore ed inusitato campo di indagine sulla tecnologia dei fili metallici: i fili metallici a sezione rotonda avevano infatti una grande parte nella realizzazione di complicati disegni dei suntuosi abiti medioevali e rinascimentali: un primo esame di fili a sezione piatta e tonda sembra aver evidenziato che i diametri più sottili di filo d’oro (il metallo più duttile in assoluto) dei costumi del tempo si aggirano intorno a 1/100 fino a 1/120 di inch al massimo: vale a dire circa .12 mm che però ha già subito lo stiro; un filo integro potrebbe arrivare facilmente a 0,14-0,15 mm di diametro.
Il metodo italiano di fare le corde in budello intero di agnello: storia di una riscoperta
1. Premessa
La ricerca intorno alle corde del passato, per quello che io conosco, prende piede probabilmente dopo gli anni ‘70 dello scorso secolo: nel periodo precedente infatti questo problema non sembra essere ancora emerso sia perché si era indirizzati principalmente alla prassi esecutiva e sia perché le corde di budello generalmente reperibili in qualche modo svolgevano comunque il loro dovere: a nessuno veniva in mente che quelle del passato potevano essere forse realizzate in modo diverso né si aveva una precisa documentazione circa i diametri di corda usati nei secoli passati.
Era opinione comune -non suffragata da documentazione comprovante- che le sonorità degli strumenti ad arco del passato dovevano essere esili e i diametri di corda molto sottili.
A partire dagli anni ‘70 tuttavia, approfondendosi via via lo stato della ricerca in tema di esecuzioni e strumentazioni storiche l’attenzione comincia a porsi anche sulla problematica delle corde: si era cominciato infatti a scoprire della documentazione riguardante i diametri di corda utilizzati nei secoli passati e relative tipologie di montatura; cominciavano a venire inoltre alla luce quali erano le zone più importanti di produzione cordaia, i nomi con cui le varie tipologie di corda venivano chiamate nei secoli passati (Catlins, Lyons, Pistoys, Minikins, Gansars etc etc); si introdussero infine nuove ipotesi e relativi dibattiti soprattutto per le corde nel range dei bassi (loaded strings; roped etc).
Grazie alla documentazione via via ritrovata si cominciò così a capire che i diametri di corda in uso nel passato negli archi non erano in realtà così sottili come si credeva e che le corde moderne, con questi diametri più spessi, non riuscivano a rispondere ai requisiti acustici richiesti da una montatura così ricostruita: ad esempio non si riusciva ad accedere ad una terza corda in solo budello per violino o per violoncello come invece era nei secoli addietro; non si aveva accesso ai bassi in puro budello nella la famiglia delle viole da gamba e dei liuti. Le corde moderne erano infatti troppo rigide, pertanto erano di difficile e lenta emissione al contatto con l’arco e di povera qualità acustica. Compaiono in questi anni anche alcuni articoli che cominciano a descrivere il ciclo produttivo storico del passato relativo soprattutto all’Italia e alla Francia del dopo la seconda metà del XVIII secolo (quando finalmente il Secolo dei Lumi comincia a manifestarsi: le informazioni dei secoli precedenti sono infatti molto lacunose).
Il periodo compreso tra gli anni ’70 dello scorso secolo fino ad oggi si è infine contraddistinto anche per alcuni cambiamenti incorsi nella manifattura delle corde di budello moderna conseguenti al ritrovamento della documentazione storica e si assiste anche più di recente alla comparsa dei cordai amatoriali.
2. La mia esperienza
Lo scrivente ha cominciato la sua ricerca a metà anni ’80 da semplice appassionato, spendendo una decina di anni sulla problematica dei bassi in budello del Liuto elaborando teorie, facendo prove pratiche presso una corderia e infine misurando accuratamente i fori dei ponticelli di liuti dei musei.

Mi sono in seguito indirizzato a proseguire il tema delle corde musicali cercando documentazione in biblioteche europee, archivi di stato, musei di strumenti musicali e privati (compresi i lavori di altri ricercatori) arrivando a raccogliere una discreta mole di documentazione storica (che per la maggior parte non ho ancora avuto il tempo di pubblicare) assieme a qualche centinaio di misurazioni eseguite in campioni di corde in budello e rivestite che definisco semplicemente ‘antiche’ trovate negli strumenti musicali presenti nei musei (soprattutto in quelli non restaurati) rilasciando poi una relazione e i calcoli al museo.


La mia professione di cordaio invece deriva da ciò che mi è stato totalmente tramandato tra il 1991 e il 1992 da Arturo Granata, un cordaio di professione che ha lavorato, se ricordo bene, 30 anni alla Savarez per poi arrivare in Italia introducendo molta tecnologia cordaia moderna e altre novità nella corderia italiana ferma ancora ai vecchi metodi e aprendo quindi una sua attività di cordaio nei pressi di Milano indirizzata a fabbricare a livello industriale corde da musica, tennis e sutura secondo le tecniche moderne (corde rigide, simili d un filo di Nylon).

Quello che mi è stato tramandato però era centrato nel come fare le corde ‘alla moderna’ (budello bovino, processo chimico moderno, uso costante di sali indurenti, rettifica meccanica, corde rigide e verniciate).
La documentazione da me e da altri ritrovata, le corde antiche dei Musei, e il fatto che sono chimico mi permise di introdurre alcune modifiche tecnologiche al fine di realizzare cosi corde di budello più attinenti alla via storica senza però rinunciare ai vantaggi del metodo moderno (velocità, quantità e affidabilità): le corde ora prodotte sono molto più elastiche, hanno maggior torsione; mi basavo ancora sull’uso di strisce di budello bovino tuttavia passavo talvolta indifferentemente a quelle di ovino (non trovo differenze apprezzabili se si parte da strisce). Cambiai infine il modo di rettificarle: non più al grado di liscio tipico della corderia moderna bensì parzialmente levigato: questa idea mi venne in mente dopo aver toccato e misurato le corde del Paganini; maneggiato centinaia di corde vecchie e avendo scoperto alcune fonti scritte.

Cantino per violino di Paganini (.71 mm) Genoa 2004

Giuseppe Antonelli, Venezia, Nuovo dizionario universale 1846: i cantini di violino non si levigavano
Queste modifiche hanno finalmente permesso di poter finalmente installare senza problemi una terza in budello nudo per violino e cello; si poterono finalmente proporre diametri storici e il risultato fù che la resa acustica di una formazione orchestrale cominciò a cambiare in meglio. Questa fase non fù facile: quando iniziai, il diametro medio della prima del violino era una rigida 52-54. Non risultava possibile passare bruscamente ad una corda di diametro 66-68 -come da fonti storiche e reperti- a causa delle resistenze opposte dai musicisti ma soprattutto da parte dei liutai. Qualche strumento inoltre non era adatto a sopportare diametri più grossi (in genere il problema era nell’angolo troppo acuto formato dalle corde sul ponticello)
Decisi allora di aumentare anno dopo anno il diametro delle corde da noi offerte facendo in modo di passare dal 52 iniziale via via al 56… 60… 62 sino agli attuali 64-66. Procedendo in questa maniera si evitò il conflitto e notai anche che altre corderie seguirono l’esempio di aumentare i diametri a vantaggio della qualità acustica generale.
Comunque sia, già in precedenza diversi cordai erano già passati ad una produzione di corde in alta torsione.
Giunto a questo punto ho realizzato che avevo quanto segue:
a) ero in possesso di una notevole documentazione storica sia personale che di altri ricercatori
b) avevo effettuato centinaia di rilievi/misure di spezzoni di corde antiche
c) possedevo ormai una forte esperienza professionale come cordaio
d) ho modificato il nostro ciclo produttivo in una strada che fosse maggiormente ‘storica’ (corde in alta torsione, non impiego di sali indurenti, rettifica molto leggera ad imitazione della levigatura manuale antica)
e) Grazie al punto d) avemmo finalmente accesso alle terze in budello nudo per violino e cello, alla quarta del basso di viola e, naturalmente, finalmente ai diametri storici, che erano generalmente più grossi con grande beneficio per le esecuzioni di Musica Antica.
Giunto a questo punto pensai quindi che era arrivato probabilmente il momento di provare a recuperare il metodo manufatturiero che fu utilizzato in Italia: e’ noto infatti a tutti la grande reputazione goduta dalle corde prodotte in Italia tra la seconda metà del XVI secolo fino agli anni 20-30 del secolo- scorso. Mi sono chiesto più volte se questo casa era una moda o se vi erano invece delle motivazioni concrete.
3) I quattro punti chiave fondamentali da sviluppare furono:
A) ricostruzione del ciclo produttivo storico italiano (abruzzese)
B) recuperare la formula della preparazione della potassa base e suo corretto modo di utilizzo nel ciclo produttivo;
C) risolvere il dilemma del budello intero tipicamente usato nella corderia italiana;
D) recuperare i criteri di scelta della materia prima budello in uso nel passato.
A) Ricostruzione del ciclo produttivo storico italiano
1) Confronto tra tutte le fonti storiche che lo descrivono
2) Interviste ai cordai anziani di Salle/Musellaro/Bolognano/Napoli (Abruzzo/Campania)
-Confronto tra tutte le fonti storiche che lo descrivono
La maggior parte delle fonti che descrivono il ciclo produttivo delle corde riguardava l’Italia e la Francia: essere un artigiano e chimico (non solo un puro ricercatore) mi ha certamente avvantaggiato: ho confrontato pertanto tra loro tutte le fonti storiche che lo descrivono (ho tenuto conto anche dei preziosi inventari di bottega concernenti le attrezzature e prodotti ‘chimici’ di corderie romane del XVI-XVIII secolo reperiti dal ricercatore Patrizio Barbieri giusto per capire se vi erano sostanziali variazioni/novità).
La conclusione è stata che abbiamo un sostanziale allineamento tra tutte le fonti (con poche diversità, comunque di poco conto) arrivando finalmente a comprendere la funzione delle varie fasi. Le fonti più attendibili sono certamente quelle posteriori al 1760, tuttavia anche quelle precedenti, seppur sommarie, hanno confermato un sostanziale allineamento (per esempio la presenza nelle botteghe del tavolo di scarnatura, dei ditali di sgrassatura, della solforazione, dei telai mobili, della cenere/fecce per fare la potassa o Tempra; dei torcitori o ruote; degli scaffali per disporre le scodelle, dello sfumature dove disciogliere la cenere per la potassa; dei paraspruzzi per gli operai etc etc.)
–Interviste ai cordai anziani di Salle (Italia)
In questo lavoro di ricostruzione mi sono state risolutive le interviste filmate che riuscii a fare a diversi anziani cordai del villaggio di Salle in Abruzzo prima della loro scomparsa (alcuni erano semplici operai ma in un paio di casi almeno erano invece i titolari o Mastri) dove mi fu insegnato nel pratico quanto segue:
-Come distinguere il budello adatto di agnello/pecora/montone e come estrarlo dal corpo dell’animale;
-Come gestire correttamente il bagno di fermentazione;
-Come si costruisce la tavola e la cannuccia per la scarnatura e come si lavora per scarnare correttamente il budello;
-Come si costruisce il ditale sgrassatore; come si utilizza e come suddividere e organizzare le varie fasi;
-Come si costudisce il cornetto per tagliare il budello e come si utilizza correttamente;
-Come si costruiscono i telai mobili e perché sono migliori di quelli fissi e lunghi;
-Come si costruisce la cordella di crine di cavallo; come si utilizza e a cosa serve;
-Come si devono seccare le corde stese al telaio e con quale tecnica vanno essiccate;
-Lo speciale movimento che devono avere le mani per realizzare correttamente la fase di levigatura (altrimenti le corde vengono false) e materiali/utensili utilizzati per lo scopo e come sceglierli;
-Come si deve eseguire la solforazione;
-Quando fù introdotta la rettifica meccanica,
-Da chi e quando si passò al budello bovino e relativa chimica (metodo industriale francese).
-Notizie varie riguardanti i cordai locali, la loro vita etc etc
Sottolineo quanto sia importante che il passaggio di informazioni sia avvenuto sia da tecnico a tecnico e soprattutto sul pratico (non lette sui libri insomma). Una conoscenza e una abilità artigiana si trasmette notoriamente per apprendistato diretto e lunga pratica in bottega: la sola visione/descrizione in un testo antico della canna per la scarnatura o del ditale di ottone non definisce nulla anche ad un tecnico del settore come me, non solo ad un ricercatore accademico. Ecco un esempio: la canna per scarnare e il ditale sgrassatore che avevo preparato esaminando le immagini delle fonti storiche mi furono da subito scartati dicendomi che con quelli non avrei fatto alcuna corda. Anche la sola scelta dell’essenza legnosa adatta alla tavola di scarnatura era una scelta che partiva da criteri precisi, tramandati di padre in figlio. La tavola di abete che portai fu infatti subito contestata.

Scarnatura

Passaggio al ditale e bagni di potassa

Levigatura con olio di oliva ed erba equisetum
Da queste interviste mi resi totalmente conto che il metodo di fare le corde in Abruzzo era rimasto fortunatamente cristallizzato agli inizi del XIX secolo; i termini tecnici ancora in uso presso questi anziani cordai erano gli stessi dei documenti storici anche di quelli letti negli inventari del tardo cinquecento. Loro non dicevano ad esempio che il budello andava ‘tagliato ma ‘spaccato’ a metà (esattamente come è scritto negli statuti dei cordai di Roma del tardo cinquecento); Il torcitore lo chiamano semplicemente ‘ruota o rota’ come nelle fonti storiche.
Le sole differenze notate durante queste interviste riguardavano l’utilizzo di potassa pura al posto della cenere vegetale e l’ abbandono del budello intero in favore del taglio in due strisce così come avveniva tradizionalmente fuori italia (sembra partire dalla metà del XVIII secolo). Di questi anziani cordai solo uno, Astro Di Russo, che fu il titolare, ricordava che quando era bambino si usava ancora la cenere di vite per ottenere la potassa (Savaresse verso la seconda metà del XIX secolo invece usava già la potassa pura chimicamente prodotta).
Nessuno tuttavia aveva mai sentito parlare dell’uso del budello intero tantomeno dei rigidi criteri di selezione della materia prima così come viene copiosamente descritto nelle fonti storiche.
Nessuno inoltre sapeva infine raccontarmi qualcosa circa concentrazione del bagno di potassa base di partenza: questa preparazione era infatti nelle mani del Mastro o maestro (il titolare insomma). Nei documenti del XIX secolo si riporta che la potassa era preparata dal Mastro soltanto in un grosso barile mescolandola con un palo e che a fianco ve ne era un altro identico barile riempito con sola acqua per le varie diluizioni utilizzate nel ciclo produttivo: ho trovato una foto che lo mostra:

Il maestro con le due botti e il bastone per mescolare la soluzione di Potassa nel 1930’s (from the La Bella website)
Corderia italiana, anni 1920 etc (cortesia di Daniel Mari, New York)

Fasi di passaggio al ditale e, in fondo, il taglio del budello: A sinistra: le due botti con la potassa.

Stanza di solforazione

La fase di torcitura e, in primo piano, il tavolo ‘rinfrescatore’ con le scodelle

Levigatura e oliatura finale: da notare i telai smontabili e rimontabili al momento

Pinaroli, Rome 1718

Corderia francese, metà XIX secolo: taglio del budello; scarnatura; vasca di trattamento

Pinaroli, Rome 1718
In conclusione, la sola apparente differenza tra il ciclo produttivo dei paesi di lingua tedesca e quello in uso in Italia sembra riassumersi nell’impiego del budello intero di agnello; la particolare qualità della materia prima e forse (forse) l’utilizzo di bagni di potassa particolare (fecce di vino invece che ceneri da piante). Non appaiono infatti particolari differenze nelle varie fasi del ciclo produttivo se non che talvolta si riscontrano talvolta telai fissi (tipici della corderia moderna) invece di quelli mobili:

1678 Germany (Wenger)

Diderot 1765 ca
Il ciclo produttivo abruzzese si può così riassumere:
1. Raccolta delle budella presso i macelli locali (da parte della figura del ‘mazziere’) e vuotatura manuale presso il macello stesso dell’interno il più presto possibile dopo l’abbattimento. Se il macello non è vicino il budello veniva vuotato, scarnato già sul posto, salato e poi spedito alla corderia)
2. Fermentazione controllata: le budella raccolte in mazze si mettono a mollo in acqua fredda per alcuni giorni al fine di avviare una leggera fermentazione che permette una facile azione di scarnatura. La durata del bagno dipende dalla stagione: 1-2 gg in estate; 3-5 giorni in inverno. L’acqua và ricambiata di frequente
3. Trattamento di scarnatura mediante passaggio su tavola inclinata di una canna appositamente realizzata: rimane la sola membrana utile. Questa operazione asporta le membrane inutili e il grasso ma non totalmente
4. Passaggi al ditale: in questa fase ciascuna budella di lunghezza intera (20-25 metri) viene dapprima lasciata a bagno da alcune ore fino a mezza giornata nella soluzione più diluita di potassa e poi sottoposta al processo di ‘strisciatura’ mediante un ditale infilato nell’indice che lo raschia dalle quattro alle sei volte al giorno (dipende dalle fonti storiche) e per circa otto- 10 giorni. Tra una giornata e la seguente si aumenta la concentrazione del bagno di potassa fino ad arrivare alla potassa pura (in qualche fonte si menziona che l’ultimo bagno è invece a concentrazione doppia ma non si hanno differenze sostanziali nella corda finale). La concomitante azione abrasiva meccanica e alcalina a concentrazione via via crescente elimina le ultime tracce di grasso e submucose residue ma và a modificare anche la natura del budello rendendolo atto a diventare una buona corda da Musica.
5. Selezione del diametro delle budella: questa operazione -molto importante- comincia già al macello ma è eseguita in maniera molto più accurata nella fase che immediatamente precede l’abbinamento delle budella a cui segue la torcitura ed è detta ‘capatura’
6. Torcitura: le budella selezionate vengono tagliate al fine di avere la giusta lunghezza per il telaio e quindi abbinate assieme a seconda del diametro di corda che si vuole produrre. La regola generale adottato nelle corderie è la seguente: corde sottili; si usano budelli di piccolo calibro; corde grosse; si usano budello di calibro maggiore. L’impiego di pregiato, robusto e di maggior costo di budello di agnello acquistato e lavorato nei mesi estivi soltanto veniva riservato alle corde più sollecitate: i cantini.
7. Prima torcitura: le protocorde subiscono la prima torsione sul telaio appoggiato sopra il tavolo apposito che contiene anche le scodelle ricolme di budelli detto ‘rinfrescatore’ mediante la ruota o torcitore. Il numero di giri vari da fonte a fonte dipende anche dal rapporto di giri tra la ruota e l’uncino rotante
8. Sfregamento con una treccia di crine di cavallo bagnato di potassa (strisciatura con crine): questo trattamento non serve affatto a levigare ma per eliminare mediante strizzatura le bolle interne al budella intere, per eliminare la maggior parte dell’acqua contenuta all’interno delle budella migliorando così il legame tra le fibre. Alcuni documenti lo indicano per la levigatura ma è una errata interpretazione.
9. Solforazione: i vari telaio mobili ricolmi di corde appena ritorte vengono portati nella camera di solforazione la quale ha il pavimento completamente bagnato e si accende lo zolfo
10. Seconda torcitura (detta ‘ribattitura’): le corde solforate perdono trazione e quindi si ripristina mediante una azione di ritorcitura e rimesse nella stanza allo zolfo
11. Terza e ultima ritorcitura: le corde quasi secche subiscono la terza e ultima fase di torcitura e lasciate seccare completamente all’aria; le corde più grosse si ritorcono semplicemente a mano
12. Levigatura finale: Le corde ben secche vengono levigate (ad esclusione talvolta dei cantini di violino: dipende dal manifattore e dalla fonte storica) mediante uno sfregamento realizzato con polvere di pomice o erba secca detta Equisetum umettati di olio di oliva messi in un pezzo di feltro rigido. La perfetta manualità di questa fase risulta molto critica-
13. Oliatura: le corde levigate vengono passate con uno staccio bagnati di olio di oliva )Italia) oppure mandorle (Germania, Austria, Inghilterra etc). Non vengono mai menzionati oli siccativi. Nel XIX secolo qualche autore dice che l’oliatura distrugge i crini e consiglia di evitarla (Heron Allen, 1890 ad esempio)
14. Taglio e confezionamento: le corde vengono tagliate dal telaio e confezionate, a partire dalla metà del XVIII secolo, secondo un profilo circolare tramite un attrezzo chiamato ‘Bussolotto’; in precedenza si preferiva la forma a mazzetto realizzata con un attrezzo chiamato ‘Forma’; ‘Banco da ingavettare’ o anche ‘Forchetta’).
Note:
1. le anime da rivestire con fili di argento o rame argentato non venivano mai sottoposte a solforazione
2. i cordai producevano in concomitanza anche corde per usi diversi quali ad esempio: per battere il cotone; come elementi di trasmissione meccanica; per capellai; per orologiai; per uso sportivo; per frustini da cavallo.
3. Le corde venivano a volte colorate mediante pigmenti naturali sciolti in acqua
4. Allume di Rocca: esso viene menzionato intorno 1670 da Skippon durante una sua visita ad una corderia padovana; nel tardo Settecento lo si trova descritto come ingrediente anche enclopedie francesi e italiane spiegando che forse la possibile funzione e quella di precipitare le impurezze presenti nella potassa da ceneri vegetali. Solo verso la seconda metà del XIX secolo il cordaio francese Savaresse chiarisce che l’allume di rocca viene talvolta utilizzato qualora si desideri avere corde più rigide. Questo sale è oggi largamente usato nel ciclo moderno. Noi non lo abbiamo utilizzato (non risulta fosse in uso nella corderia abruzzese, napoletana e romana).
A) La potassa base (chiamata anche; acqua forte; griepoli; liscia; ranno; tempra): il lavoro ricostruzione della formula base.
Uno degli elementi più importanti -se non proprio quello più fondamentale- ha riguardato la ricostruzione della formula preparativa della potassa base: il ciclo cordaio moderno utilizza una chimica differente e più complessa. Se non si ha la fase chimica giusta la sola ricostruzione del ciclo storico non porta ad avere corde di qualità (esse si rompono, sono rigide anche se molto ritorte, le fibre non sono ben legate tra loro etc) Le fonti storiche che descrivono come prepararla non sono molte; inoltre, essendo scritte da non cordai, vi è sempre il ragionevole dubbio di errori, incomprensioni se non veri e propri depistaggi messi in atto dai cordai stessi.
Un ulteriore elemento di difficoltà sono le unità di misura utilizzate e il fatto che non si ha conoscenza del contenuto percentuale di potassa nelle ceneri vegetali usate le quali andavano dal prodotto migliore, che erano le fecce di vino bianco, a quello peggiore in termini di concentrazione di potassa, che erano le comuni ceneri di piante opportunamente passate al gravello/clavello (il setaccio cioè) dette gravellate/clavellate (cioè settacciate). Nel XIX secolo inoltre si distingueva la potassa in diversi indici di purezza (la migliore era la cosiddetta Perlassa, menzionata però solo a partire dagli inizi del XIX secolo). Insomma le incertezze sono diverse.
La comparazione di tutte le fonti del tardo XVIII e quelle del XIX secolo in nostro possesso ha riservato però una gradita sorpresa: la variazione della concentrazione del bagno di potassa base ricavata dai calcoli era comunque compresa entro un range di tolleranza piuttosto ristretto (+- 15%) , tale da far concludere non solo che le fonti erano invece attendibili ma che il ciclo produttivo cordaio, almeno a partire dalla metà del XVIII secolo, era già altamente standardizzato e così arrivò tale fino al 1920’s.
L’analisi approfondita del perché si usavano concentrazioni via via crescenti durante le fasi di passaggio al ditale fino ad arrivare alla potassa pura si spiega facilmente (è una metodologia che viene utilizzata anche in certe fasi preparative della chimica moderna): si parte inizialmente con una bassa concentrazione di agente alcalino il quale và a rimuovere la porzione di grasso più facilmente asportabile riservando la massima concentrazione di potassa alla quantità minoritaria residua più tenace. Il trattamento alcalino comunque non serve soltanto a rimuovere il grasso: esso và alterare anche la struttura del budello rendendolo più elastico, morbido e più ‘legante tra le fibre. Una corda ottenuta direttamente dal del budello perfettamente sgrassato ma senza trattamento alcalino è rigida, fragile, secca con scarso legame tra le fibre di budello.

Fecce di vino

Cenere di feccia
- Il budello intero
Nel ciclo produttivo italiano del XVI, XVII, XVIII e XIX secolo gli animali il cui intestino veniva comunemente utilizzato nelle corderie era sia quello di capra (principalmente a Napoli) che quello di ovino (nel Settecento: agnelli di 7-8 mesi, agnelloni fino ad arrivare alla pecora adulta. Viene menzionato di frequente anche il montone e il castrato) Nei macelli si abbatteva in realtà di tutto e sempre per soli motivi alimentari; stava poi al cordaio selezionare le budella (provenienti da fonti diversificate e talvolta anche molto lontane) a seconda del loro diametro seguendo la regola a noi pervenuta e già citata che i budelli di minor diametro e di miglior qualità e alto costo dovevano essere usati solo per le corde più sottili (segnatamente: i cantini per Violino) e viceversa.
La situazione comune che si ritrova in numerosi documenti italiani e del XVIII e XIX secolo è che con tre/quattro budelli interi si deve ottenere il range di diametri tipici del cantino del violino (65-73 mm di diametro approssimativamente riassumendo le fonti storiche) : gli intestini di partenza dovevano dunque essere davvero piuttosto sottili. In taluni casi si riusciva a realizzare i diametri prima menzionati anche con 4 budelli: in questo caso il costo del prodotto era superiore (si aveva una maggior robustezza, regolarità del diametro e durata di vita)

Tipica curva a gaussiana di una produzione di cantini per violino da tre budelli interi di agnello

De Lalande, 1765 Parigi
L’utilizzo del budello intero fu dunque la regola in quei paesi (come la Spagna, Portogallo ma soprattutto l’Italia) dove si disponeva di animali di piccola taglia il cui numero di tre, talvolta quattro budelli accoppiati e ritorti, forniva il range di diametri adatti come prima di Violino.
All’estero invece (Francia, Austria, Germania ecc.) la situazione era ben diversa: i loro agnelli, vuoi per la razza, vuoi per il clima o il tipo di alimentazione avevano dimensioni maggiori di quelli italiani e spagnoli; inoltre non venivano mai abbattuti in tenera età al contrario di quanto accadeva in Italia perché quegli animali erano pregiati per la lana. A causa del budello di maggior sezione non si riusciva pertanto ad ottenere il diametro adatto al cantino del Violino, bensì maggiore: questo è il motivo principale delle ingenti ordinazioni di cantini per Liuto e Violino rivolti a Roma e a Napoli dalle varie nazioni europee nel XVII, XVIII e XIX secolo. Vi sono diversi documenti del XVIII e XIX secolo, soprattutto francesi che analizzano bene la situazione arrivando alla conclusione che a causa della loro tipologia di ovini risulta impossibile riuscire ad imitare la qualità dei cantini di Napoli.
Da questo tipo di problema venne pertanto la ingegnosa soluzione di fendere a metà e per lungo l’intestino in modo da ottenere delle strisce più sottili in modo da aggirare così l’ostacolo, tecnica usata anche oggi praticamente da tutti i cordai, sia che si tratti di budello di mucca che ovino: da alcune fonti storiche sembrerebbe che questa tecnica sia stata introdotta in Germania solo nel tardo XVIII secolo (l’inventore, tale Israel Kampfe, si guadagnò nel 1785 persino un premio in denaro da parte della municipalità di Vogtland e l’accettazione nella corporazione dei cordai tedeschi) mentre in realtà se ne conosce indirettamente l’uso almeno dalla seconda metà del XVI secolo: negli statuti dei cordai di Roma del 1587; 1591; 1642 e 1678 viene infatti proibito, pena multe salate, frusta e galera, di fabbricare corde a partire da budelli ‘spaccati nel mezzo’; termine usato ancor oggi con me dagli anziani cordai Abruzzesi.

Prima pagina dello Statuto dei cordai romani, 1642

Statuto dei cordai romani, 1642 cap VII, 1642: è proibito tagliare a metà le budella
Anche negli statuti dei cordai di Lisbona del 1679 è parimenti scritto che il cordaio che venisse scoperto a mescolare budelli interi con budelli tagliati in strisce verrà costretto a pagare una multa salata:
‘Nessun artigiano dovrà fare corde di budello di pecora o anche di capra. Ogni corda che essi fanno, sottile o grossa, dovrà essere fatta con budello di agnello. E non dovranno farle con budello tagliato/spaccato (longitudinalmente). Quelli che non faranno così pagheranno mille reais, che saranno destinati per metà a chi lavora in città e per metà all’accusatore. E quelle corde saranno considerate false (frode) e difettose e saranno tutte bruciate.’

Statuto dei cordai Portoghesi 1679: è proibito tagliare a metà le budella
La realizzazione di corde a partire da strisce e non da budello intero viene in definitiva considerata una gravissima frode commerciale e non pochi furono probabilmente i cordai italiani che agivano illegalmente.
Un documento italiano, ancora nel 1846, afferma infatti che l’uso di strisce per realizzare le corde invece che usare il budello intero è da considerare come tale e insegna anche come smascherarla:

Giuseppe Antonelli, Venezia: Nuovo dizionario universale 1846
Ma perché in Italia e Portogallo erano così severi contro chi tagliava/utilizzava il budello in strisce? Non era forse un sistema ingegnoso per poter utilizzare anche dell’intestino più grosso e quindi maggiormente disponibile? Il paradosso è che mentre in Italia e Portogallo si puniva severamente la frode in Germania del tardo Settecento si premiava il (ri)scopritore della tecnica per fendere le budella in due strisce distinte permettendo quindi la realizzazione dei cantini per Violino e Mandolino liberandosi dal giogo di doverli importare dall’Italia (problema particolarmente sentito dai francesi i quali, agli inizi del XIX secolo incaricarono degli studiosi come il Labarraque di capire come; si andò avanti per quasi tutto il XIX secolo a discutere di questo problema risolto definitivamente con i Savaresse da una parte e con la caduta della corderia italiana dall’altra).
4) Il problema della materia prima e della stagione migliore per lavorare le corde
Fino a pochi mesi fa si riteneva comunemente (ma solo a livello deduttivo) che una corda realizzata in budello intero dovesse avere le stesse proprietà acustiche di una ottenuta da strisce. Purtroppo i vari tentativi eseguiti da i vari cordai di oggi -noi compresi- per realizzare cantini di Violino o di Liuto ha sempre fallito: le corde si presentavano molto irregolari e con un carico di rottura piuttosto ridotto. Nelle corde molto più grosse questo problema in realtà non sussiste ma, si sa che la professionalità di un cordaio si misura in primis nella tenuta meccanica del cantino del Violino. Insomma nessuno è mai riuscito nell’impresa.
La soluzione del problema è arrivata ancora una volta sia dall’esame delle antiche fonti e sia dalla biologia animale: sin dal tempo di Mersenne (1636) si fa leva sul fatto unico della razza, il tipo di alimentazione ed età degli ovini e caprini italiani il cui budello è utilizzato per fare le corde: tutto questo non era disponibile in nord Europa.
Attanasio Kircher /Roma 1650) tratta questo argomento in modo interessante e così pochi altri nel corso del XVIII e XIX secolo che però spesso ripetono concetti in realtà già ribaditi da altri autori precedenti e semplicemente riportati. Fino a pochi anni fa ritenevo che questa questione fosse irrilevante (lavorando con le strisce di budello il problema non si evidenzia molto) ma una approfondita indagine durata un paio di anni mi ha fatto cambiare decisamente idea: gli esseri viventi sono plastici, essi si adattano sia alle condizioni ambientali che al cibo e così anche il loro intestino (che l’erba sia inquinata o no o anche l’uso di eventuali medicine non ha invece importanza alcuna). Le caratteristiche descritte da Mersenne e Kircher e da altri autori sono quindi vere.
Cosa dire invece circa in merito alla stagione più opportuna per realizzare le corde?
In Italia si distingue in maniera molto chiara che la produzione cordaia fatta in inverno è la più scadente in termini di resistenza alla trazione rispetto a quella realizzata in estate e più segnatamente tra Giugno, Luglio, Agosto e Settembre e inizi Ottobre (i mesi più adatti per i cantini di Violino). Alcune fonti del XIX secolo citano per esempio il fatto che i napoletani dedicavano l’inverno per la fabbricazione di qualunque genere di corda – seconda del Violino inclusa – ad esclusione dei soli cantini di Violino, i quali venivano esclusivamente prodotti tra la metà dell’estate e il primo autunno. John Dowland (1626) riprende anche lui il punto che riguarda la stagione migliore di quando comprare le corde (e il Paganini anche: Agosto). La spiegazione è semplice: il foraggio nella stagione secca nelle zone montagnose e aride è duro e scarso mentre durante l’inverno la pastura è verde con abbondanza di acqua: il budello si modifica a seconda della situazione alimentare.
5) Caratteristiche meccaniche e acustiche riscontrate nelle corde in budello intero rispetto alle omologhe provenienti da strisce di budella.
Le corde di budello intero realizzate sono state fatte seguendo il metodo storico da noi ricostruito, usando la procedura chimica corretta, utilizzando del budello intero di agnello selezionato accuratamente (come si parla di ‘abete di risonanza’ particolarmente indicato per le tavole armoniche, si potrebbe introdurre il concetto di budello di risonanza adatto cioè particolarmente adatto a fare le corde in budello intero), superfice delle corde levigata a rettifica lasciando però una superfice ancora leggermente ruvida (abbiamo scelto questa strada: ai giorni nostri risulta totalmente improponibile una levigatura manuale sia per i costi, per i tempi di attesa, per il rischio di corde false ma soprattutto per l’impossibilità di garantire la scalatura dei diametri come oggi comunemente in uso) hanno mostrato una realtà completamente diversa da quanto sinora teoricamente supposto (cioè invarianza rispetto a quelle realizzate da strisce): le corde di questo tipo presentano maggiori prestazioni acustiche, raggiungono velocemente una stabile accordatura, sono più resistenti alla trazione e anche molto più stabili ai cambi climatici rispetto alle omologhe realizzate a partire da strisce. Non manifestano perdite di tensione nel tempo come accade con le omologhe realizzate da strisce.
Questi risultati sono notevoli tenendo conto che non abbiamo ancora sperimentato il trattamento di sbianca mediante solforazione (a partire dalla metà del XIX secolo le rinomate corderie di Padova lo omettevano).
Questa serie di riscontri spiegherebbe definitivamente perché le corde prodotte in Italia godettero di quella reputazione da sempre decantata nei documenti europei dal tardo XVI sino prima metà del XX secolo e spiegano in modo esaustivo anche il motivo per cui si vigilava così attentamente che non ci fossero iniziative fraudolente da parte dei cordai di questa nazione.
Ci siamo chiesti in cosa più consistere la ragione di questa miglior sonorità, stabilità e resistenza meccanica: se realizziamo infatti due corde identiche a partire dallo stesso budello (ma di cui una sia ottenuta da strisce) otteniamo dei risultati piuttosto diversi, sia sotto il punto di vista meccanico che acustico.
Una possibile spiegazione è legata alla conformazione naturale dell’intestino, il quale presenta da un lato una sorta di robusto e sottile ‘laccio’ longitudinale su cui aderisce la sottile e delicata ‘tubazione’ dell’intestino.

Durante la fase di torcitura essa si spalma intorno al suddetto laccio che, al contrario, risulta in trazione ai suoi estremi quasi a realizzare una ipotetica corda rivestita la cui anima risulta il citato ‘laccio’.
Vivi felice
Montature per Liuto: i nostri criteri
IL LIUTO E LE RELATIVE MONTATURE IN BUDELLO: IL NOSTRO PUNTO DI VISTA (con le corde equivalenti realizzate in materiale sintetico)
Per saperne di più leggi le nostre F.A.Q.
La nostra filosofia nei riguardi delle montature di corda in budello (e delle equivalenti in materiale sintetico) per la famiglia dei Liuti (e delle Chitarre a cinque ordini) è una soltanto: tentare di ricostruire, per quanto possibile, le sonorità tipiche di quando lo strumento fu in vita. Questo compito presenta naturalmente dei limiti, limiti imposti sia dal grado di conoscenza attuale della tecnologia cordaia di quei tempi e sia per il fatto che il Liuto (si intende qui a partire dalla versione a sei ordini) ebbe a vivere foggie e stagioni diverse nel corso della sua lunga esistenza. La ricerca nel campo della manifattura storica delle corde di budello ha tuttavia compiuto negli ultimi anni decisivi passi in avanti che, se da un lato non ci permettono ancora di poter affermare con certezza quale fu l’esatta sonorità del dolce strumento (compito in verità più speculativo che reale: anche al tempo vi erano certamente idee diverse tra i liutisti), essa ci consente comunque di poter determinare quella ‘regione acustica’ di appartenenza comune in cui tutti i Liuti, a causa dei limiti imposti dalla tecnologia cordaia a loro contemporanea, forzatamente rientravano.
Andiamo quindi a definire quello che sicuramente non poteva appartenere alla peculiare sonorità dei Liuti di allora
- Le corde in PVF (Fluorocarbonio, detto comunemente ‘carbonio’): resa acustica eccessivamente brillante rispetto a qualunque corda in budello
- Corde di Nylon: resa acustica percettibilmente più ovattata e cupa rispetto al budello.
- Corde di Nylgut: resa acustica molto simile al budello nella gamma dei calibri più sottili; nei diametri maggiori questa similitudine viene progressivamente meno a causa di un maggior sustain
- Corde basse filate su bava di nylon: oltre a non risultare di per sé storiche per i repertori musicali del XVI e XVII secolo, la quasi totalità di quelle disponibili in commercio risultano troppo brillanti e dotate di eccessiva persistenza acustica che le pongono agli antipodi rispetto a quello che la ricerca sta un po’ alla volta rivelando in merito alle corde rivestite del XVIII secolo, le quali presentavano una sonorità pesantemente centrata sulla fondamentale, bisognose ancora delle ottave appaiate e prive di eccessiva persistenza acustica
- Tensione di lavoro e sua distribuzione tra le varie corde della montatura: i criteri generalmente seguiti oggi per calcolare le montature di corda ben raramente risultano collegati al concetto di eguale sensazione tattile di rigidità tra le varie corde della montatura (equal feeling) proprio degli antichi. La regola generale moderna è infatti quella di ricavare i diametri partendo dalla tensione espressa in Kg, criterio questo apparso per la prima volta intorno alla seconda metà del XIX secolo (Maugine & Maigne, 1867). Così procedendo non si può infatti tenere conto della variabilità di alcuni parametri tipici delle corde come ad esempio la riduzione percentuale di diametro che incorre sotto trazione e la diversa sensazione tattile generata da diametri differenti e/o da corde di diversa tipologia manifatturiera o sottese a lunghezze vibranti diverse.
- Tensioni delle ottave appaiate ai bassi: esse sono spesso calcolate con un valore eccessivamente basso rispetto a quello della corda fondamentale adiacente (Virdung, 1511 sembra suggerire che il diametro della corda di ottava sia la metà di quello del basso appaiato)
- Cantini: quando singoli si presentano sovente con tensioni di lavoro eccessivamente basse: il feeling con gli altri ordini risulta pertanto sbilanciato.
- Criteri seguiti nella scelta delle tipologie di corde: la montature, nella maggior parte dei casi, non seguono affatto la divisione in tre Sorts di corda prescritte dai Trattati per Liuto del tempo. Oltremodo, corde di una determinata Sort si trovano talvolta ad invadere il campo che dovrebbe essere proprio di altre tipologie andando ad alterare pesantemente l’equilibrio timbrico/dinamico dello strumento (esempio: il quarto ordine realizzato con corde di tipo rivestito, corde in tratta lunga rivestite etc).
In conclusione, la qualità acustica di un liuto dei nostri giorni si presenta di sovente con una sonorità globale decisamente più brillante e ricca di sustain nei bassi e anche nei registri medi (a causa dell’uso delle corde rivestite) con una sostanziale mancanza di omogeneità timbrico/dinamica rispetto a quello che riteniamo sia stato nel passato. Per contro, gli acuti possono esibire sia una resa nettamente più brillante (PVDF o ‘Carbon’ ) o, all’opposto (Nylon) più ovattata del budello. Si è creato in altre parole un nuovo strumento che poco avrebbe da spartire con quello del passato. Nessuna critica a questa scelta: il Liuto si può benissimo suonare anche così.
MP
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ATTENZIONE: per la grande varietà di strumenti della famiglia del Liuto non è possibile, da parte nostra, indicare dei diametri standard. Vi preghiamo pertanto, nell’effettuare l’ordine, di fornirci le seguenti informazioni:
- Tipo di strumento e lunghezza o lunghezze vibranti
- Altezza di intonazione della prima corda e corista di riferimento (es. g’, 415 Hz.)
- Tensione di lavoro
- Disposizione in ottava o unisono
- Tipo di corde richieste (es. appesantite; filate; Nylgut®; nylon etc.)
Le corde rivestite per archi: i nostri criteri costuttivi
UN PO' DI STORIA
Le prime menzioni oggi note della comparsa delle corde filate risalgono al 1659 (Samuel Hartlib Papers Project; Ephemerides: "Goretsky hath an invention of lute strings covered with silver wyer, or strings which make a most admirable musick. Mr Boyle. [...] String of guts done about with silver wyer makes a very sweet musick, being of Goretskys invention”) ed al 1664 (John Playford: "An Introduction to the Skill of Music...."), ma la loro successiva diffusione, nei primi decenni dalla loro comparsa, non fu affatto rapida.
In Italia, paese da sempre rinomato per la produzione di corde armoniche, se ne parla infatti soltanto a partire dal 1677 (in una fattura del liutaio Alberto Platner si legge: "due corde di violone, una di argento et un'altra semplice).
Risalgono però a dopo il 1680 le prime rappresentazioni iconografiche di strumenti musicali (Violino e Violoncello) utilizzanti, nel basso, tali corde (vedere le opere pittoriche di Antonio Gabbiani, Palazzo Pitti, Firenze).
Secondo Rousseau (Traité de la Viole, 1685), fu il violista Sainte Colombe che le introdusse per primo in Francia intorno al 1675 ma il principale trattato Inglese per Liuto e Basso di Viola risalente alla seconda metà del XVII° secolo (Thomas Mace: "Musick's Monument" 1676) ancora non le nomina limitandosi a descivere ancora bassi in puro budello: i Lyons, i rosso cupo Pistoys.
Claude Perrault (Ceuvres de physique [...], Amsterdam 1680 pp. 214-5) così intitola un suo paragrafo: "Invention nouvelle pour augmenter le son des cordes". Si tratta naturalmente delle corde rivestite.
Nel manoscritto di James Talbot (1700 circa) i bassi dei Liuti, del Violino e del Basso di Violino sono ancora quelli usuali in solo budello: vale a dire i Lyons e le Catlins.
Nei primi decenni del XVIII° secolo le corde filate presero definitivamente il sopravvento rispetto ai bassi tradizionali di budello rivoluzionando totalmente la maniera di fare musica sino ai nostri giorni.
CARATTERISTICHE COSTRUTTIVE TIPICHE DELLE CORDE RIVESTITE STORICHE (XVII-XIX SECOLO)
a) Utilizzo di filo metallico a sezione esclusivamente rotonda
b) Utilizzo di metalli quali il rame, l'argento puro, il rame argentato e l'ottone. Non esistevano ancora metalli quali l'alluminio, il Tugsteno (o Wolframio) o leghe speciali etc il cui impiego cominciò soltanto verso la prima metà del XX secolo
c) Anima di budello naturale in alta torsione
d) Assenza di seta tra anima e filo metallico di ricopertura
e) Diverso bilanciamento tra l'anima e l'avvolgimento metallico rispetto alle corde rivestite moderne anche se sono state realizzate su anima di budello.
LE TIPOLOGIE IN USO
Le tipologie di corde rivestite in uso tra la seconda metà del XVII secolo e la fine del XVIII si possono ricondurre a tre specie:
1) Corde rivestite su anima di budello con avvolgimento metallico a spire accostate
2) Corde rivestite su anima di budello con avvolgimento a spire non accostate
3) Corde rivestite su anima di budello con doppio avvolgimento metallico a spire accostate
Nella seconda metà del XVIII secolo le corde di tipo 1) cominciarono ad essere realizzate anche su anima di seta. Il loro uso rimase tuttavia circoscritto ai bassi più gravi delle arpe a movimento semplice e agli strumenti a pizzico come la chitarra a cinque ordini e successivamente per la chitarra a sei corde smplici. Non si hanno sinora riscontri storici di una loro applicazione anche per gli strumenti ad arco.
Le corde di tipo 2) furono chiamate dai francesi del XVIII secolo corde a 'demì' o più genericamente demifileè.
La loro caratteristica costruttiva risulta chiaramente deducibile dal nome: si tratta di corde il cui avvolgimento presenta una spaziatura tra spira e spira pari al diametro del filo o leggermente di più (questa preziosa indicazione costuttiva -l'unica del XVIII secolo- ci viene da Le Coq, Parigi 1724).
La prima menzione di questa tipologia di corda risale al 1712 (Sebastien De Brossard: 'Fragments d'une méthode de violon', manoscritto)
mentre l'ultima è del 1782 (Jean-Benjamin De Laborde 'Essai sur la musique ancienne et moderne).
Le corde demifilèe -realizzate sempre su anima di budello- venivano estesemente utilizzate come 4 corda 'Do' del Basso di viola (vedere la lettera di G. B .Forqueray al principe Friederich Wilhelm del 1768), come terze del Violino ed infine come bassi nelle Chitarre a cinque ordini etc.
Alla fine del XVIII secolo le corde a demì andarono in disuso a causa sia della scomparsa degli strumenti che le utilizzavano (Basso di viola, Chitarra a 5 ordini etc) e sia perchè vennero sostituite da quelle di tipologia 1) avvolte su anima di seta (è il caso della chitarra a 6 corde semplici) oppure perchè rimpiazzate dalle corde di budello nudo (terza del violino).
Contrariamente a quanto si crede le corde demifilèe non futono corde di transizione tra le superiori in budello nudeo e i bassi seguenti a filatura accostata. Per ottenere questo scopo sarebbe bastata una normale corda a filatura accostata con rapporto anima/filo metallo a favore dell'anima. La vera ragione è tecnologica: a quel tempo non erano in grado di realizzare fili metallici così sottili. La soluzione di ricoprire un'anima spaziando un filo più grosso risolse brillantemente il problema:
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Arpa del XVIII secolo con bassi a filatura aperta. Notare le corde del violino sottostante: 4a filata argento e tre in budello
Ascolta il suono dei bassi demifilè in un Liuto a 13 ordini in Re minore
Si suppone che le corde di tipologia 3) siano state parimenti utilizzate nel corso del XVIII secolo per quei particolari strumenti ad arco caratterizzati dall'avere una corta lunghezza vibrante in relazione all'intonazione richiesta.
Sembra essere questo il caso del Violoncello/Viola da Spalla e più sicuramente, nel corso del XIX secolo, della 5a corda del Contrabbasso tradizionale.
G.B. Forqueray nella sua lettera del 1768 spiega al principe Wilhelm che le corde gravi del Basso di viola non devono essere realizzate doppiamente ricoperte ma a filatura semplice: chiara indicazione questa che le corde a doppia ricopertura erano note anche nel XVIII secolo.
Galleria
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Nicolò Paganini e le corde di budello
storia di un felice ritrovamento
di Mimmo Peruffo
Una serie di fortunate circostanze unite alla tenacia della dottoressa Tatiana Berford ,corrispondente a Velikij Novgorod (Russia) dell’Istituto di Studi Paganiniani di Genova e in seguito del dott Philippe Xavier Borer di Boudry (Svizzera) su segnalazione della Dr. Maria Prestia Sanfilippo (ex dirigente dell’Ufficio Promozione Città Turismo e Spettacolo) ha permesso la recente scoperta, in questa città, di una serie di reperti risalenti a Nicolò Paganini (1782-1840).
Tali reperti (1) consistono in un ponticello da violino, due archi di cui uno rotto in più punti (2), una confezione di pece di manifattura Vuillaume (3) ed un rotolo di corde di budello in discreto stato di conservazione (4).
La nostra attenzione si concentra su questo ultimo reperto il quale rappresenta un rarissimo caso di campioni di corde di budello la cui datazione sia presumibilmente certa, risalente in altre parole ai primi decenni del XIX secolo. Il materiale da noi visionato era presente entro una busta (aperta dagli scopritori) timbrata “Cartoleria Rubartelli Genova”, con sigillo in ceralacca rossa con impresso il simbolo del comune di Genova e portante una dicitura manoscritta in inchiostro nero: “Corde e ponticello che trovansi sul violino di Paganini all’atto della consegna al municipio”. All’interno si trovava una busta realizzata con un foglio piegato in due con una seconda dicitura manoscritta in inchiostro: “Antiche corde del Violino di Nicolò Paganini” (5).
I calibri delle corde sono stati da noi misurati per mezzo di micrometro stimando contestualmente anche il grado di torsione impartito ad ogni campione nella fase di manifattura, parametro assai importante ai fini della resa acustica di una qualsiasi corda di budello. Sarebbe peraltro assai interessante poter stimare il numero di budelli utilizzati per realizzare le varie corde del reperto idratando dei piccoli frammenti appositamente prelevati così da poter poi contare i “fili” di cui sono costituiti separandoli tra loro delicatamente; questa operazione è purtroppo sconsigliata per il fatto che reperti così vecchi potrebbero con tutta probabilità disciogliersi completamente nel mezzo acquoso, oltre che essere di per sé una tecnica distruttiva.
Come evidenziato da Edward Neill (6) il Paganini già in alcune sue missive fornì interessanti dettagli in merito alle corde da lui utilizzate: “Ho bisogno di un favore: ponetevi tutta la cura, e la diligenza. Mi mancano i cantini. Io li desidero sottilissimi […]. Quantunque tanto sottili devono essere di 4 fila per resistere. Badate che la corda sia liscia, uguale, e ben tirata […]. Vi supplico di sorvegliare i fabbricanti e di far presto e bene“. ( I need a favour: to be done with care and solicitude. I am without chanterelles […]. Even if they are very thin they must be made of four strands to endure. Make sure the string is smooth, even and well stretched […]. I beg you to keep an eye on the makers and do this soon and well).
In una lettera spedita da Napoli poco prima all’amico e confidente Germi datata 29 Maggio 1829 così si legge: “Il tuo Paganini desidera sapere […] quanti mazzi di cantini e quanto di seconde, e a quante fila si desiderano da Napoli, perché ora si avvicina il mese di Agosto, epoca giusta per fabbricar le corde” (Your [friend, n.d.r.] Paganini wants to know […] how many boundles of chanterelles and how many of second strings and with how strands are wanted from Naples, because the month of August is approaching: the right time for making strings) (7).
Ulteriori informazioni ci provvengono da Carl Flesch (8): “Some thirty years ago[ed in italiano:’around the 1890 year’, n.d.r.] the owner of the firm of Schott showed the celebrated violinist Hugo Hermann a Paganini’s letter, wherein the latter begged the head of the firm of that time day to procure strings for him like the samples enclosed. Hermann measured that samples on a string-gauge, and found to his astonishment that the D-string had the thickness of the A-string used today, the A-string the thickness of our E-string, while the latter was not different from a thick thread“.
Nel nostro precedente lavoro (9) sostenemmo l’ipotesi che queste corde fossero in realtà corde per chitarra, visto che il Paganini ne era un discreto cultore. Questa ipotesi deve essere però rivista alla luce delle recenti ricerche da noi intraprese sulla chitarra del tempo la quale -in estrema sintesi- si avvaleva sostanzialmente, per le prime tre corde, di quelle del violino. La chitarra di allora in altre parole non utilizzava affatto calibri sottili, come oggi comunemente si ritiene.
Le informazioni riportate da Flesch sono ad ogni modo incomplete al fine di poter ottenere una qualche certezza: non è ben chiaro ad esempio se le note (re, la etc…) abbinate ad ogni campione siano frutto di Hermann (per cui il grande violinista in realtà si limitò ad allegare semplicemente i campioni di corda senza specificare le note e lo strumento per le quali erano necessarie) oppure se ci pensò lo stesso Paganini. Va ricordato che egli fu anche cultore del mandolino (10): le corde ordinate potevano essere anche per questo strumento, senza considerare poi che la richiesta poteva risultare anche un semplice favore fatto a qualche conoscente musicista.
Ad ogni modo, sorvolando sulla più sottile (che non permette alcun termine di paragone) quanto specificato da Hermann, confrontato con la tabella delle tensioni fornite da Gorge Hart verso la fine dell’Ottocento (11), consentirebbe di stabilire un presunto “re” di circa 0.84¸0.90 mm e 0.65¸0.73 mm per il presunto “la”: diametri decisamente sottili per un qualsiasi Violino del tempo. Del presunto ‘mi’ non sappiamo francamente cosa dire, essendo secondo il paragone di Hermann “was not different from a thick thread”. Poteva essere forse un cantino da mandolino? Non lo sappiamo.
Le corde del ritrovamento si possono presumibilmente riassumere in due “re”, tre “la”, due “mi”: in pratica appaiono come spezzoni a giusta misura per il Violino, ricavati probabilmente ognuna da uno stesso tratto più lungo.
I reperti si presentano colorati in giallo-paglia, fragili, leggermente rugosi e integri, cioè mai utilizzati, nonostante sulla busta sia scritto “che trovansi sul violino…“.
Le corde di “mi” sono realizzate in media torsione (circa 45° d’angolo) mentre quelle di “la” e “re” decisamente in alta torsione, overossia con un angolo di fibra prossimo a 80°. In queste condizioni non stupisce affatto che esse dovettero manifestare al meglio le loro proprietà acustiche distaccandosi per certi versi da quelle di oggi che sono di frequente assai meno ritorte e quindi più rigide.
Ecco i range dei diametri riscontrati nel totale dei campioni:
E 0,70-0,72 mm Media torsione
A 0,87-0,89 mm Alta torsione
A* 0,80-0,83 mm Alta torsione
D 1,15-1,16 mm Alta torsione
*questa misura si è presentata soltanto in un solo spezzone di corda
Come si può notare manca la quarta corda. La cosa non stupisce perché, come di consueto per l’epoca, essa veniva realizzata non dai cordai quanto dai liutai (se non proprio dagli stessi musicisti) utilizzando una seconda un po’ sottile (12) (13) (14).
Risulta quantomai sorprendente la notevole aderenza ai calibri indicati nella tabella riassuntiva del nostro lavoro (nonostante l’incertezza del diametro finale dovuta alla levigatura esclusivamente manuale e alla grossezza variabile -per quanto selezionato sia il budello- del materiale di partenza), in particolare con quelli del celebre cordaio napoletano di fine Ottocento Andrea Ruffini (15):
Mi: ± 0,67 mm
La: ± 0,90 mm
Re: ± 1,17 mm
Le misure concordano anche con i dati forniti cento anni prima dal Conte Riccati (16):
Mi: ± 0,70 mm
La: ± 0,90 mm
Re: ± 1,10 mm
La cosa non deve tuttavia meravigliare se si rammenta che in Italia – fin dal ‘600 e prima (17) – le corde venivano prodotte partendo preferibilmente da budella intere di agnello (da non confondersi con il montone, che è il maschio della pecora e che in Italia non sembra aver avuto “la fortuna” che ebbe in Francia) di 8¸9 mesi di età secondo una prassi rigorosamente standardizzata e tramandata di padre in figlio. Come riportato da fonti italiane e non (18), un cantino di violino prendeva generalmente tre “fili” (cioè budelli), ma talvolta anche quattro nella sua manifattura. E questo avveniva sia nel Settecento che nel tardo Ottocento (19). Il fatto di utilizzarne quattro non deve far pensare che allora vi fossero cantini estremamente grossi (se con tre budelli il diametro e di circa 0,70 mm, con quattro si passerebbe a circa 0,82 mm!) ma più semplicemente che talvolta il budello a disposizione del cordaio era un po’ più sottile del solito. Questo viene confermato anche da un passaggio di una lettera del Paganini (20). In qualità di cordaio posso affermare che a parità di diametro finale una corda composta da quattro budelli sottili risulta molto più regolare, più duratura e meno soggetta a falsità di una realizzata a partire da tre budelli “giusti”. Non dimentichiamoci che al tempo non si disponeva della rettifica meccanica delle corde, che permette di ottenere corde perfettamente cilindriche. Il problema della falsità di una corda fu un aspetto di rilevante e condizionante importanza.
Paganini evidentemente sapeva il fatto suo quando ordinava le corde e così si faceva costruire apposta cantini di quattro fili (guadagnando in durata e limitando la quantità di corde false) arrivando a far sorvegliare persino i cordai napoletani da persona fidata.
Il fatto che i diametri rilevati concordino pressoché totalmente con le misure provenienti da numerose altre fonti del tempo -tenendo conto anche della grande standardizzazione produttiva- sembra far escludere che possa essere avvenuto un processo di essiccamento ulteriore tale da aver contratto significativamente ciascun reperto. Va ricordato comunque che una corda di budello finita è già di per sé un materiale, diciamo così, “mummificato”.
Sovrapponiamo al grafico n°2 del nostro precedente lavoro (nota 8, p. 187) l’andamento delle tensioni di lavoro del diametro medio del mi, la e re nelle stesse condizioni di lavoro (lunghezza vibrante 0,33 cms; a-435 Hz)
Come si può osservare, il profilo delle tensioni di lavoro dei campioni di corda presenta un andamento quasi perfettamente scalare, così come ci si doveva aspettare, decisamente coerente con le informazioni storiche sopravissute e risulta praticamente sovrapposto al “set” di Ruffini, in voga nel tardo Ottocento.
Conclusioni
Indipendentemente dal fatto che le corde in esame siano appartenute o no al grande violinista esse sono con tutta probabilità gli unici esemplari risalenti per certo al primo Ottocento. Esse, confermando gli studi, vanno ancora una volta a confutare l’opinione radicata che vuole che i violini del tempo utilizzassero montature assai leggere rispetto ad oggi. Le corde sono poi realizzate con un sapiente grado di torsione: non così “spinto” per i cantini (guadagnando pertanto in resistenza tensile e allo sfilacciamento), più elevato per la seconda e soprattutto terza corda le quali, lavorando soltanto ad una frazione del loro carico di rottura abbisognano invece della massima elasticità possibile al fine di ottenere da loro la migliore resa acustica: da qui l’elevata torsione. Questi reperti sembrano documentare che il Paganini utilizzò anche corde con diametri consueti per il tempo; non sappiamo se fabbricate a Napoli, ma certamente con grande perizia. Il significato della richiesta epistolare “li desidero sottilissimi” risulta per certi versi oscuro poiché sembra andare a contraddirsi con l’affermazione che vuole che siano allo stesso tempo “di quattro fila per resistere”. Non va comunque escluso che anche il Paganini, come qualunque musicista di oggi abbia ‘giocato’ un po’nel corso della sua carriera artistica a sperimentare calibri diversi con l’unico materiale a sua disposizione e da lui giudicato il migliore: il budello di Napoli.
Bibliografia
(1) Il materiale è stato ritrovato e si trova tuttora presso l’Archivio di “Palazzo Rosso” di Genova.
(2) L’arco in questione porta affisso per mezzo di un nastrino di seta verde e un sigillo di ceralacca rossa un foglietto con la seguente scritta: “Arco di Nicolò Paganini, che adopero [sic] durante tutta la sua carriera artistica. Rottosi l’arco a Newcastel (Inghilterra) in otto frantumi, lo fece rimettere insieme dal celebre liutista [sic] Vuillaume di Parigi, ne cessò di valersi di quest arco esclusivamente. In attestato di verità. (Achille Paganini figlio del celebre Nicolò’)
La rottura dell’arco potrebbe essere avvenuta durante il giro concertistico del 1833, quando il violino dell’Artista, affidato al cocchiere della sua carrozza subisce una brutta caduta rompendosi.
Esso ven
ne riparato forse assieme all’arco in Parigi da Jean-BaptisteVuillaume (1798-1875) (cfr. Edward Neill: Nicolò Paganini il cavaliere filarmonico, De Ferrari Editore, 1990 Genova p. 313)
(3) Il dorso in cartone della confezione presenta la seguente scritta: “Vuillaume, rue…..Paris”.
(4) Le corde si presentano avvolte a rotolo tutte assieme e tenute strette da due nastrini di seta rossa.
(5) Si presume che tale lascito possa essere stato consegnato in allegato al violino al Comune di Genova da Achille Paganini, figlio di Nicolò, nel Luglio del 1851 (cfr. Edward Neill: Nicolò Paganini il cavaliere filarmonico, De Ferrari Editore, 1990 Genova p.313)
(6) Edward Neill: Nicolò Paganini: Registro di lettere, 1829, Graphos, Genova 1991, p.80. Lettera scritta a Breslau, il 31 Luglio 1829 indirizzata al “signore profre Onorio de Vito, Napoli”.
(7) Edward Neill: Paganini: epistolario, Comune di Genova, Genova 1982, p. 49.
(8) Carl Flesch: The art of violin playing, 2 vols., Fischer, New York 1924-30 (original edition, Die Kunst des Violinspiels, 2 vols., Ries, Berlin 1924-8).
(9) Mimmo Peruffo: Italian violin strings in the eighteenth and nineteenth centuries: typologies, manufacturing techniques and principles of stringing Recercare IX 1997 p. 176.
(10) George Hart: The violin: its famous makers and their imitators, Dulau and Co., London 1875, section 3 p. 54.
(11) Edward Neill: Nicolò Paganini il cavaliere filarmonico, De Ferrari Editore, 1990 Genova p.27.
(12) Edward Neill: op. cit 6, p. 67: Milano 28 Giugno 1823 “… colà mi restituirò a Milano per li tuoi violini, e ti farò fasciare delle quarte di filo d’argento”.
(13) Edward Heron- Allen: Violin-making as it was and is […], Ward, Lock & Co. London 1884, Chapter XII, The strings p. 213: “I always obtain my covered strings [i.e. the fourth, n.d.r.] for violin or viola from Mr. G. Hart, who covers them with alternate spirals of gun-metal and plated copper”.
(14) Francesco Galeazzi: Elementi teorico-pratici di musica con un saggio sopra l’arte di suonare il violino […], Pilucchi Cracas, Roma 1791, p.74: Non sarà, cred’io, discaro al mio lettore, che io qui gli descriva una picciola semplicissima macchinetta, e l’uso glie ne additi per filarsi, e ricoprirsi d’argento da sé i cordoni”. (It will not, I believe, be unwellcome to my reader if I descrive and explaine the use of, a small and very simple machine for threading and covering the fourth string with Silver wire).
(15) William Huggins: “On the function of the sound-post and the proportional thickness of the strings on the violin”, Royal Society proceedings, XXXV 1883, pp. 241-8: 247.
(16) Patrizio Barbieri: ‘Giordano Riccati on the diameters of strings and pipes’, The Galpin Society Journal, XXXVIII 1985, pp. 20-34.
(17) Statute of the Roman string makers’ guild. Roma, Biblioteca Angelica, Camerale II, Arti e Mestieri, Statuti, coll. 312, busta 12, anno 1642.
(18) Francois De Lalande: Voyage en Italie […] fait dans les annèes 1765-1766, 2nd edition, vol. IX, Desaint, Paris 1786, pp.514-9.
(19) Edward Heron- Allen: Violin-making as it was and is […], Ward, Lock & Co. London 1884, Chapter XII, The strings p. 212: “for the first, or E string, 3-4 fine threads …”.
(20) Edward Neill: Nicolò Paganini: Registro di lettere, 1829, Graphos, Genova 1991, p.80. Lettera scritta a Breslau, il 31 Luglio 1829 indirizzata al “signore profre Onorio de Vito, Napoli’: ‘Quantunque tanto sottili [i cantini, n.d.r.] devono essere di 4 fila per resistere”.